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Autore: Lue    05/04/2012    2 recensioni
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parole
- Quinto capitolo -

 

Enea mi baciò di nuovo quella sera, e le nostre mani e le nostre labbra si cercavano e gli occhi ridevano, eravamo felici.
Uscimmo ancora nelle settimane dopo, camminammo moltissimo e la luce dei lampioni illuminava i nostri passi per le strade del centro, ci raccontammo ogni cosa e ridemmo moltissimo, perché per la prima volta entrambi avevamo trovato quel qualcuno, e l’avevamo scelto.
“Mia madre vorrebbe che io facessi l’avvocato, come lei e papà”, mi rivelò un pomeriggio mentre sedevamo sulla panchina fredda di un parco, “Ma io all’università vorrei fare Fisica...”.
“E poi, dopo l’università?”.
“Vorrei insegnare, al liceo magari”.
Scoppiai a ridere: “Saremmo una coppia fantastica: il professore scienziato e la scrittrice!”.
“Saremmo fantastici anche se fossimo dei barboni, io e te”.
“Io di sicuro, tu forse ci devi lavorare ancora un po’”, scherzai. “Sai, mio padre ha un negozio d’antiquariato, fa il restauratore, ma non si interessa di grandi opere, preferisce gli oggetti, tutto ciò che è appartenuto a qualcuno e ha una storia dietro. Lui e mia madre sono un po’ così: raccolgono storie senza raccontarle”, sorrisi.
“Cosa fa tua madre?”.
“Ha una piccola libreria, magari ti ci porto un giorno... Anzi, magari ti ci porto anche adesso!”, mi alzai e lo presi per mano, “Andiamo?”.
Enea si alzò, strinse la mia mano e sorrise: “Andiamo”.
Per la prima volta volevo dire a tutti che ero fidanzata, volevo presentare Enea a tutti i miei amici, a mia nonna, ai miei vicini di casa, ai passanti che ci camminavano vicini per strada.
Lui e mia madre parlarono di libri per ore, mentre io sfogliavo i volumi sugli scaffali, ed ero un po’ gelosa che qualcun altro si accorgesse di che persona splendida fosse Enea.
Naturalmente non era tutto rose e fiori: certe volte quand’ero sola cominciavo a pensare a noi e mi dicevo che stavo sbagliando tutto, che con Enea sarebbe stata la stessa cosa che con tutti gli altri, che dovevo scappare finché potevo. Quando mi capitava andavo nel panico, e allora componevo sul telefono il numero di Nina o di Marinella, e le chiamavo.
“Nina, Nina, io non posso farlo, stamattina mi è successa una cosa e non va bene...”.
“Calmati. Cosa ti è successo?”.
“Praticamente, stavo pensando a lui e... ho cominciato a sorridere! E mi batteva il cuore! Fortissimo!”, esclamai una volta, spaventata.
Sentii Nina scoppiare in una risatina; era buffa Nina, e lei e Marinella mi conoscevano meglio di quanto conoscessi me stessa.
“Di solito, Vera, quando succedono queste cose significa che tieni a una persona, che ti stai innamorando”.
“Ma è impossibile”, continuai io testarda, “Vedi, non sono passate nemmeno sei settimane, di solito a questo punto io mi stufo, non mi innamoro”.
“E allora vorrà dire che sta volta è diverso! Va bene!?”, cominciò a scaldarsi lei, “E adesso, passando alle cose serie, c’è un concerto a cui vorrei andare a marzo e tu devi venire con me...”.
Quando raccontavo a qualcuno del rapporto tra me ed Enea, mi piaceva specificare che io avevo lottato per lui. Non contro una famiglia avversa alla “nostra unione”, non contro una rivale in amore particolarmente insistente, ma contro me stessa, contro quella bambina impaurita che viveva nel mio cuore ed era restia ad aprirsi con gli altri, e così io grazie ad Enea ero cresciuta, avevo imparato a rischiare per le cose e le persone che ne valgono la pena.
Anche lui aveva lottato insieme a me, mi aveva impedito di scappare grazie ai suoi sorrisi disarmanti, le domande a bruciapelo, quel suo raccontarmi ogni cosa, i suoi occhi grandi, le sue parole, così misurate, che si incastravano perfettamente tra le mie. Non c’erano silenzi, tra di noi. C’erano parole parole parole e in mezzo baci, perché ogni volta c’era qualcosa di nuovo da dire, e se non lo potevi dire lo lasciavi lì sulla punta della lingua, e l’altro lo ascoltava con le sue labbra.
 
Finimmo il liceo insieme e ci accorgemmo, a vent’anni, di non riuscire più a contare e ricordare tutti i nostri sabati sera con gli amici. Una mattina di fine agosto ci ritrovammo tutti in un caffè – faceva incredibilmente caldo – a parlare del nostro futuro.
Ada, i capelli lunghi fitti di treccine, fu la prima a proferire parola, tenendo tra le mani una tazza di tè freddo.
“Ragazzi”, iniziò, con la sua voce colorata, “Io me ne vado a Parigi con Charles”.
Un brusio si alzò da tutto il tavolo.
“Chi cazzo è Sciavl?”, domandò Gaetano, dando voce ai dubbi che abitavano le menti di tutti noi.
“È un ragazzo francese che ho conosciuto quest’estate”, spiegò Ada, “E fa il pittore”.
L’artista maledetto”, scandì Marinella teatralmente, “Vivrete da clochard perché lui non avrà abbastanza soldi nemmeno per prendere in affitto un bilocale, e i vostri sei figli e il vostro cane...”.
Ada la interruppe con una risata: “Veramente suo padre è un banchiere, ci ha comprato un appartamento a Montmartre”.
“Minchia”, sussurrò ammirato Gaetano, rendendo di nuovo pubblici i pensieri di tutti.
“E tu, Gaetano, rimarrai qui a Milano?”, gli sorrise Ada.
“Certo, proverò il test di Medicina a breve, e se non lo passo vado a fare il barista”, fece spallucce, azzannando un pezzo di brioche, “Sono uno che si adatta, io”.
Marinella ci rivelò che sarebbe andata a fare un viaggio in Africa con Edoardo, il suo fidanzato storico, prendendosi un anno sabbatico prima di cominciare Lettere Moderne all’università.
Io invece avrei iniziato quella stessa facoltà a breve, e intanto avrei lavorato nella piccola libreria di mia madre, continuando a scrivere poesie, con la speranza che in futuro sugli scaffali ci sarebbero state le mie raccolte.
Enea voleva passare – e naturalmente passò – il test di Fisica, e già cominciava a informarsi sulle modalità dei concorsi per diventare professore.
Nina, che se ne stava sempre zitta, annunciò che stava per cominciare una scuola di cinema, voleva lavorare dietro le quinte, lei, fare parte della creazione di quel mondo che amava tanto, e Leonor disse che non aveva ancora deciso, c’era tempo per stabilire cosa fare da grandi.
“Grandi” noi già ci sentivamo, dall’alto dei nostri diciannove-anni-e-mezzo-quasi-venti, e pensavamo di poter stabilire il corso della nostra vita, seduti in un bar in una giornata di fine agosto, senza renderci conto che i nostri piani erano come dei birilli, tutti in fila, perfetti, finché qualcosa non li avesse scaraventati a terra.
E io l’avrei scoperto molto presto.
“Vera?”, una voce lontanamente familiare mi chiamò.
I miei amici tacquero e guardarono qualcuno dietro di me, incuriositi.
Un ragazzo dai folti capelli castani mi rivolgeva un timido sorriso.
“Sono Marco, ti ricordi di me?”.




__________


Tadadadaaaaa!
:)
 

   
 
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