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Autore: candycotton    07/04/2012    1 recensioni
Anno 2181. Hestla.
Lo scienziato Sycor ha iniziato, più di 50 anni fa, il suo piano malato di trasformare l’imperfetta popolazione di esseri umani uccidendoli e donando loro una seconda vita, grazie all’impianto di fili metallici e organi sostitutivi, creando così una nuova razza, i Sostituti.
Rigel e Bion. Due ragazzi alla ricerca di vendetta, in un mondo che sembra aver tolto loro ogni cosa.
Ma niente è quello che sembra su Hestla, ed è fondamentale saper riconoscere gli Umani dai Sostituti, la verità dalle bugie, il tradimento dalla fiducia, il bene dal male.
In un vortice di equivoci, doppiogiochisti, imbrogli e verità, i due ragazzi riusciranno a raggiungere la meritata rivincita su quel mondo spietato? E gli esseri umani, saranno disposti a lasciarsi trasformare? Saranno disposti a morire per vivere una vita all’apparenza migliore?
Un mondo sull'orlo della guerra. Un'intera popolazione perseguitata e sottomessa. Un ragazzo e una ragazza pronti a combattere con un destino ignoto che li attende..
Genere: Azione, Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ricordi

 

 

Le fusa di Freya riscaldavano ancora l’aria, mentre Rigel l’accarezzava. Bion gli aveva chiesto se poteva usare il bagno, e così era scomparsa là dentro da oltre mezz’ora.

Le donne. Pensò Rigel, ricordando con nostalgia un tempo ormai troppo lontano in cui doveva aspettare la sua ragazza ogni volta prima di portarla fuori. Si chiamava Avy e per lui corrispondeva ad un periodo spensierato e felice della sua vita, quando era adolescente e ingenuo. Lei era un Sostituto, viveva giù al villaggio. Rigel lavorava per suo padre, faceva il fabbro e lei compariva qualche volta sulla soglia della bottega e lo fissava.

Ogni giorno che passava, Avy era sempre più presente, la sentiva spiarlo da dietro le porte, e ogni volta che lui si girava per scambiare un’occhiata con lei, Avy si nascondeva, spaventata. Una sera, Rigel si era trattenuto per finire un lavoro e lei gli si era avvicinata, timida.

Da allora si vedevano di nascosto quasi ogni giorno, e Rigel trovava sempre una scusa buona per restare di più alla bottega, soltanto per vederla e per passare del tempo con lei. Ma il padre di Avy era molto severo, alle cui decisioni la famiglia non si poteva sottrarre. Quando aveva scoperto i loro incontri notturni, aveva giurato di uccidere Rigel e di bastonarla se non lo avesse dimenticato. Il giorno dopo, Rigel aveva perso il posto. Avy, una notte, era corsa a casa sua e gli aveva detto addio per sempre.

Da allora Rigel era tornato alla sua predestinata solitudine. Quel ricordo gli ispirò amarezza. Era stata l’unica ragazza che avesse mai avuto, e non era nemmeno umana. Sorrise con tristezza e si alzò, andandosi a sedere sul divano. Freya lo seguì e gli si accovacciò affianco.

“Allora, non mi hai ancora detto se ti fidi di lei o no?” fece Rigel, guardando la lince.

Le paiuzze dorate negli occhi dell’animale brillavano.

Rigel sbuffò una risata. “Quando mai a te non piace qualcuno?” scherzò, stropicciandole il pelo sulle orecchie.

Bion tornò dal bagno, era vestita con la tuta nera di pelle, i piedi scalzi e i capelli scuri bagnati e sciolti da una parte. Se li spazzolava lentamente.

Rigel la guardò, mentre lei lo raggiungeva e gli sedeva accanto sul divano.

“Scusa se ci ho messo tanto, ma avevo proprio bisogno di una doccia. Questa l’ho presa dal bagno, spero non ti dispiaccia” alzò la spazzola verso Rigel. Lui fece cenno di no con la testa.

Bion sorrise e chinò il capo. Si toccò i capelli, lisciandoli con la mano.

Rigel si perse nel suo sguardo. Era completamente diversa da prima. Con i capelli sciolti e gli occhi dolci, spogli di ogni ansia o paura. Aveva una qualche purezza e semplicità che le armi e l’affanno della battaglia le toglievano.

“Quando ero piccola, era mia madre che mi spazzolava sempre, ogni sera prima di addormentarmi. Diceva che così non si formavano nodi” sorrise amaramente, “ho sempre avuto i capelli lunghi, ma ora mi rendono troppo riconoscibile” porse a Rigel un paio di forbici spesse “tagliameli”.

Rigel la guardò sorpreso. “Dici sul serio?”

“Certo. Corti, sopra le spalle”.

Freya alzò le orecchie e si fece più attenta. Sembrava provasse una curiosità tipicamente femminile su come il risultato sarebbe venuto.

Bion si voltò dando le spalle a Rigel e spostò i capelli sulla schiena. Attese con pazienza che lui lo facesse, che glieli tagliasse. Si aspettava un taglio netto, invece Rigel andò piano, si prese il suo tempo e quando ebbe finito lei si sentì istintivamente più leggera, tolta da un grosso peso che metaforicamente si riferiva ai suoi 19 anni, a tutte le cose brutte e belle che aveva visto e vissuto nella sua vita.

Rigel continuò il lavoro, sfilettando alcuni ciuffi e cercando di rendere il taglio migliore. Alla fine lei si voltò e si scambiarono un sorriso.

“Ti dona” disse lui.

Bion arrossì e chinò il capo. Si passò una mano sui capelli che ora le avvolgevano il collo e terminavano in ciuffi più lunghi davanti e dietro la nuca. Si alzò e andò a guardarsi allo specchio. Per un attimo non si riconobbe, e restò a fissarsi attonita. Pensò che Rigel era stato davvero bravo, era completamente un’altra persona e in fondo quel taglio le piaceva.

Tornò al divano con un sorriso a trentadue denti. “Grazie”.

Lui fece un cenno con il capo.

“Ora dobbiamo occuparci dei corpi, hai qualche idea di dove potremmo nasconderli?” tornò al suo solito tono fermo e sicuro.

Rigel buttò un’occhiata ai due Sostituti morti che avevano lasciato sul pavimento della sala. Avrebbero potuto seppellirli nella foresta, dietro casa.

“È meglio che bruciamo tutto qui, prima di andarcene, comprese le armi. Se qualcuno trovasse questo posto, non esiterebbe a saccheggiarlo”.

Rigel le lanciò un’occhiata di sbieco. “Non avrò più un posto dove andare…”

Bion non rispose. Dalla sua espressione trapelava dispiacere. Dopotutto era stata lei ad entrare nella vita di Rigel e a scombussolarla. In fondo si sentiva un po’ in colpa, sebbene fosse certa della sua decisione. Era necessario che l’affiancasse fino alla base di Sycor. Non sapeva per quale motivo, quale ragione avessero di volere un ragazzo sull’orlo del baratro, che aveva perso la voglia di vivere, eppure era proprio il suo nome che aveva sentito pronunciare dai militare alla base di Sycor, tanti mesi prima.

 

 

“Come stanno andando le ricerche?” chiese un sovrintendente a un subordinato. Lei affilò l’orecchio, dall’interno della sua cella.

“Nessuna novità. Sembra che sia sparito dalla faccia di Hestla”.

“Questo dannato Rigel ci farà ammazzare tutti. Il signor Sycor lo sta cercando da anni, è mai possibile che non si sia mai fatto vivo?”

Il soldato rimase in silenzio.

“Siete certi di aver ispezionato con cura ogni angolo della foresta di Ismene?” continuò il sovrintendente, spuntando le parole a denti stretti.

“Sì signore, da quello che ci è stato riferito dalle basi locali, hanno avviato un’ispezione ogni mese, per due anni, ma senza alcun risultato”…

 

 

Bion ricordò le voci secche e dure dei soldati come fosse ieri. Si ricordava anche quando era stata informata, un mese prima, che l’avrebbero spostata in una base militare a nord, e lei aveva iniziato a pianificare la sua fuga, per andare alla ricerca di Rigel, nella foresta di Ismene.

Ancora non le era chiaro come avesse fatto lui a raggirare i militari per due anni, come era possibile che nonostante le ricerche, non fosse mai stato trovato. 

“Mi è venuta un’idea, spostiamoli nel ripostiglio delle armi”.

Bion sussultò e si voltò verso Rigel. Lo aiutò a trasportare i corpi, tenendoli per i piedi, mentre lui li reggeva per le mani. Aprirono il ripostiglio e ci ficcarono dentro i due corpi afflosciati dei Sostituti, uno sopra l’altro, come vecchie bambole di pezza.

Rigel fece un passo indietro, chiuse la porta e la serrò con il chiavistello. “È meglio riposarci ora. Non mancano molte ore all’alba, e se dobbiamo metterci in cammino è meglio essere svegli”.

Bion era confusa. Avrebbero lasciato quei corpi là dentro? Non era una buona idea, ogni traccia doveva essere cancellata, le armi e i corpi dovevano sparire. Avrebbe voluto ribattere e avanzare le sue ragioni, ma la stanchezza ebbe la meglio e si abbattè su di lei come un macigno. Ad un tratto, sentì gli occhi chiudersi, le gambe cedergli.

“Puoi usare la camera dei miei genitori… non ci sono più entrato da quando… in ogni modo dovrebbe andare bene…”

La voce di Rigel era come lontana, ovattata. Bion lo seguì fino ad una porta di legno scuro.

Rigel girò la chiave, che cigolò nella serratura e furono nella stanza. Le finestre erano serrate, una lampada al neon faceva luce sotto una densa coltre di polvere. Il puzzo di chiuso invase all’istante le loro narici, insieme al pizzicore della polvere alzata dai loro stivali.

Rigel diede qualche colpetto con la mano sulla coperta,  sollevando nuvolette di polvere che si espansero per l’aria.

 “Andrà più che bene” disse Bion, guardandosi in giro incantata.

Rigel socchiuse gli occhi e la studiò un’istante, prima di annuire e uscire dalla stanza. Appena ebbe messo piede nel corridoio, si domandò se avesse fatto la cosa giusta.

 

 

La porta si chiuse alle sue spalle e lei rimase sola. Era da tanto tempo che non vedeva una camera arredata, un luogo appartenuto a persone normali, comuni. Tutto, attorno a lei, gli ricordò sua madre e sua sorella, in un tempo troppo lontano in cui erano tutte e tre insieme.

Sospirò e si mosse verso un vecchio mobile a muro. Sopra era posto uno specchio di vecchia fattura, il vetro perfettamente intatto ma ricorperto da una fitta coltre di polvere. Il suo riflesso era più che altro un’ombra su quella superficie.

Aprì il primo cassettone e guardò dentro. C’erano numerosi ritratti, incorniciati e ammucchiati. Ne estrasse uno che l’attirò subito: un uomo, una donna e un bambino biondo, sorridente e spensierato. I suoi occhi blu la fissarono attraverso la pellicola trasparente. Anche da grande Rigel aveva conservato quello sguardo indagatore e profondo. Bion non fece a meno di sorridere, vedendo quel ritratto famigliare. Era qualcosa che avevano in comune, loro umani sopravvissuti: una famiglia perduta e tanti ricordi. Per un attimo si sentì male per quello che stava facendo. Provò un dolore allo stomaco, un insopportabile fastidio. In fondo Rigel era proprio come lei, un sopravvissuto, eppure lo stava dando in pasto al nemico.

Bion si sedette sul letto, alzando un velo di polvere tutto attorno. Chinò il capo e si guardò le mani. Che cosa stava facendo? In cosa si stava trasformando? Una traditrice della sua specie, un’ impostora che avrebbe consegnato un innocente soltanto per ricevere un profitto personale, per avere indietro sua sorella.

Perché era quello il suo piano, sin dall’inizio. Non era un caso che si fosse imbattuta in Rigel, quella notte. Non era un caso che lo avesse spinto alla ricerca dei suoi genitori, alla vendetta su Sycor. Dopo tutto quello che aveva sentito dire su Rigel, era certa che quel nome che aveva sentito pronunciare tra i militare alla base di Sycor corrispondesse proprio a lui. E se avesse portato loro la persona che tanto bramavano, loro non avrebbero esitato ad accettare la sua proposta di scambio e così avrebbe avuto indietro sua sorella Hana, finalmente.

Fu quel pensiero che la risollevò. Poter riabbracciare Hana, stringerla e confortarla. Era tutto ciò che le era rimasto.

Diede un’ultima occhiata alla foto della famiglia di Rigel, sulle sue ginocchia, si alzò e ripose la cornice nel cassettone. Lo chiuse e si sdraiò sul letto; il sonno la colse all’istante.

 

 

Rigel camminò lentamente verso la sua camera. Aveva spento tutte le luci e la sua casa ora, era come un immensità oscura. Si ricordava di quanto avesse paura del buio da bambino. Ogni volta correva tra le braccia di sua madre, buttandosi nel suo grembo, quando le luci si spegnevano.

“Non devi confortarlo, non imparerà mai a divincolarsi da questa paura e rimarrà un fifone!” sbraitava ogni volta suo padre. Non lo diceva in tono cattivo, tutt’altro. Desiderava solo che Rigel diventasse forte e coraggioso. Desiderava che fosse in grado di cavarsela da solo nel caso a loro fosse successo qualcosa.

Solo dopo la loro scomparsa Rigel aveva ringraziato mentalmente suo padre per gli insegnamenti ricevuti, e sua madre per tutto l’amore. Da quando aveva quindici anni, niente gli faceva più paura.

Aveva dovuto crescere in fretta, pensare a se stesso, uccidere insetti con le proprie mani, che un tempo non avrebbe nemmeno sfiorato con un dito. Cacciare le proprie prede nella foresta, quando i soldi per il mercato scarseggiavano. Aveva trovato un lavoro presso un fabbro e aveva lavorato duro fino a vent’ anni per guadagnarsi la pagnotta.

E in ogni stralcio di tempo che gli restava, indagava su dove fossero stati portati i suoi genitori e, più importante, se fossero ancora vivi o meno.

Arrivò alla porta della sua stanza e ci si appoggiò sopra, aprendola ed entrandoci.

Una lampada al neon illuminava l’interno, semplice e spoglio. Sembrava quasi una cabina di un militare: un letto, un armadio, una scrivania… non erano le cose materiali ad interessargli.

Prima che la porta si richiudesse, Freya zampettò dentro.

Rigel si sedette sul letto e si lasciò cadere all’indietro. Si nascose il volto tra le mani. Cose stava facendo? Perché si era fatto convincere da quella ragazza sconosciuta a seguirla fino alla tana del lupo? Pensava davvero che avrebbe ritrovato i suoi genitori? Che sarebbero stati là ad aspettarlo e che lo avrebbero riabbracciato, sani e salvi?

Aveva troppi brutti pensieri per la testa. Doveva pensarla in un altro modo. Quella notte era iniziata troppo male. Si voleva togliere la vita, eppure dopotutto era ancora lì, su quel letto. E più importante, con qualcosa da fare. Qualcosa che lo stimolasse. Una ragione per vivere.

 

  
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