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Autore: roxy92    07/04/2012    3 recensioni
Chi ha sbirciato la fic che ho cancellato prima avrà una vaga idea di come scrivo. Mi piacciono le cose che non piacciono alla massa, trattate in modo non ordinario. Io lo so che me le cerco, ma ognuno, quando libera la fantasia, produce i risultati più disparati. Il mio è questo.
Dal prologo:
"Quando non ricordi il tuo passato, è come se un macigno fosse sempre in procinto di caderti addosso. Ce l’hai sospeso sopra alla testa, trattenuto da un filo sottile. Il terrore che il presente sfumi come il tempo trascorso è una morsa che attanaglia lo stomaco e a tratti non fa respirare.
Se sei abbastanza forte, ore, giorni, minuti e secondi, ti scivolano addosso come se il tempo non esistesse. Le tue mani sembrano vuote ai sentimenti e ti ritrovi sempre a stringere il niente. Non hai nulla per cui vivere e nulla per cui morire."
Io mi metto alla prova nel disperato tentativo di creare qualcosa che superi almeno le più basse aspettative... Qualcuno di voi mi da una mano e mi dice che ne pensa? Anche sapere se è meglio lasciar stare... Se ne avete il coraggio, buona lettura. :)
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Piccolo, Un po' tutti
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Proseguire troppo a lungo solo con un linguaggio introspettivo e metaforico temo disorienti e annoi chi legge. Dal momento che non ho la mano di Joyce, ho deciso di mettere in mezzo anche una parte narrativa ogni tanto. Spero di non rendere la storia meno interessante. Se mi fate sapere che ne pensate, faccio sempre in tempo a modificare la rotta comunque. Buona Pasqua e buona lettura :)

La punta della matita che scivolava sulla carta aveva un suono rilassante.

All’inizio Piccolo era stato infastidito da quella presenza estranea nei suoi spazi. Poi aveva finito per abituarsi.

Per quella ragazza lui era invisibile e, alla stessa maniera, per lui, quell’estranea quasi non esisteva.

Ormai aveva imparato a scandire le tre ore che precedevano l’alba coi suoi movimenti lenti e precisi che imprimevano una nuova immagine su quell’album.

La vedeva che stava seduta in una posa simile alla sua. Probabilmente, anche quella era una strana forma di meditazione.

La luce radente del sole, che piano piano rischiarava il cielo, allungava la sua ombra in una lunga figura filiforme. La ragazza poggiava uno a uno i pennelli nell’erba, mentre con l’altra mano teneva una tavolozza.

Il namecciano aveva iniziato a chiedersi cosa accidenti dipingesse poiché, nel momento esatto in cui il sole era sorto, lei appallottolava il foglio, infastidita, e lo gettava in acqua.

Di solito, si infilava le dita nei capelli e li tirava, in un chiaro gesto di stizza, Piccolo non sapeva dire se contro l’ambiente o solo contro se stessa.

Quella mattina doveva essere stata diversa, perché aveva gettato in acqua tutto l’album, scaraventandolo lontano. Gli era parso che si asciugasse una lacrima, andando via.

Mentre ne osservava la schiena minuta allontanarsi, la studiò meglio. Non aveva un’aura, però, a primo impatto, non gli era mai parsa davvero umana.

Forse per quel colore carico degli occhi, a metà tra il cielo notturno e le nubi della tempesta o, magari, per quei capelli che scintillavano a ogni scatto della testa, coi riflessi alternativamente dell’oro e della fiamma.

C’era un contrasto in lei, come una forza sotterranea trattenuta a fatica. Avrebbe dovuto testarla da vicino e la cosa non lo interessava. Probabilmente, se l’avesse avuta davanti, neppure l’avrebbe riconosciuta.

Rimasto solo, mentre volava in basso, nell’erba fresca vicino la cascata, si accorse di qualcosa che era rimasto impigliato tra le rocce e non era stato portato a valle dalla corrente.

Si bagnò il polso ma, curioso, tirò su quell’album su cui era stato lavorato tanto ed era stato scartato così, per un futile impeto di rabbia.

Lo scrollò delle ultime gocce e lo guardò meglio. Si stropicciò gli occhi, che non poteva essere. Girò più volte le prime pagine.

Il soggetto era sempre lo stesso: quel posto lui lo amava da quando era bambino, per quello restava a meditare ogni ora libera accanto a quella cascata.

Come accidenti era, però, che i colori, nell’ultimo disegno, non erano quelli della terra ma di Namecc?

“Signora, io qua ho finito.”

S’era pulita le mani con lo straccio che aveva tirato fuori dalla tasca della salopette di jeanz. Non era stata accurata e, quando si terse il sudore dalla fronte, si sporcò per buona parte di nero.

Ormai aveva rimesso a nuovo metà degli elettrodomestici di casa Son. L’auto volante era stata l’ultimo successo, l’ultima fatica.

Chichi le aveva parlato a ruota libera, per tutto il tempo degli affari di casa propria, riuscendo a strapparle al massimo qualche monosillabo.

“Non sei un tipo molto loquace, tu...”

Le disse, porgendole un succo d’arancia che la più giovane terminò in fretta.

L’aveva vista alzare le spalle, come per mostrarsi d’accordo nell’aver constatato una cosa ovvia.

“Sei di queste parti?”

Tentò ancora.

“Non sono di nessuna parte. Io viaggio, signora.”

La donna inarcò un sopracciglio, prima di sedersi un attimo, di fronte a lei. La vide chinare la testa, come se si vergognasse di quella attenzione.

“Ti va di restare a pranzo con noi?”

Le era sembrata tremendamente sola e provava una gran pena. Si chiese da quanto vagasse per il mondo, senza essere più in grado di stringere rapporti umani.

L’idea che fosse una combattente piuttosto in gamba le era balenata in testa quando l’aveva vista sollevare l’auto in garage come se fosse un pezzo di cartone, con una naturalezza che aveva conosciuto già in suo figlio e suo marito.

Le pagò il dovuto e l’accompagnò alla porta.

“Per quanto resterai da queste parti?”

La giovane si sciolse la bandana rossa e smosse un po’ i capelli mossi.

“Giorni… al massimo poche settimane.”

Rispose pratica. In verità, neppure lei lo sapeva. Se non scappava via prima, era perché aveva avuto una buona impressione del posto e di quella singolare donna. Addirittura, abbozzò un mezzo sorriso.

“Se ripassi a casa mia, potrei presentarti la mia famiglia…”

La prima parte della frase non sortì alcun effetto mentre la giovane si apprestava a salire sulla sua moto nera.

“…non esistono combattenti più forti sulla terra del mio Goku e del mio Gohan.”

La seconda la bloccò sul posto.

Chichi fu trafitta da uno sguardo penetrante, che non s’aspettava.

“Perché?”

La padrona di casa esitò.

“…perché cosa?”

Ripeté, incerta.

“Per quale motivo vuoi che una come me conosca la tua famiglia?”

Per un istante sbatté le palpebre, stupita. Non pensava fosse così difficile intendere il motivo del suo gesto. Intenerita, le sorrise.

“Ho capito che sei una brava ragazza e che la cosa potrebbe farti piacere.”

Si sentì addosso lo sguardo dell’animale selvatico che deve scegliere se fidarsi dell’uomo che gli tende la mano oppure no.

“Ci penserò. Grazie dell’offerta.”

Sospirò, mentre la ragazza ingranava la marcia e correva via.

In fin dei conti, quel che poteva fare per aiutarla, l’aveva fatto. Quello che non immaginava, era di averla colpita tanto.


  
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