Castelli di carta
La corteccia è fredda, ruvida; i miei
polpastrelli disegnano piccoli cerchi su di essa, soffermandosi su alcuni
punti, mentre traccio le lettere.
Ecco come Merope Gaunt usa la magia, come mostra agli
altri il suo sangue puro: disegnando come una sciocca le
proprie iniziali. Insieme
alle tue.
Piccoli brividi mi ricordano che dovresti essere già qui; sei in ritardo. Dove
sei, Tom?
Ho voglia di incontrare i tuoi occhi neri, vedere le tue labbra arricciarsi in
un sorriso mentre conversi con tuo padre. Osservarti
sta diventando la mia occupazione preferita, non quegli stupidi incantesimi.
Eccoti arrivare, elegante e bello come sempre.
Eccoti arrivare e superarmi.
Guardami, Tom.
§
“Merope, cosa fai qui tutta sola? Dovresti andare a giocare fuori con tuo fratello!” mi aveva
domandato un giorno mia madre, trovandomi nascosta in camera.
“No.” La mia voce, seppur debole, era arrivata alle
sue orecchie.
“Che succede, amore?”
“Nulla,” avevo continuato a rimanere con la bocca
cucita, come mi aveva chiesto lui.
“Merope…” Nessuno riusciva a pronunciare il mio nome come faceva lei,
leccandomi le ferite e accarezzando il mio animo.
Avevo nascosto la testa tra le gambe e cominciato a piangere.
“Per favore…” Mi aveva implorato di parlare con lei ancora una volta.
“Orfin mi odia e non fa altro che prendermi in giro
perché non sono una strega.”
“Ma tu sei una strega!” aveva esclamato con una punta
di stupore.
“No.”
“E invece sì. Hai solo bisogno di essere più sicura di
te stessa. Hai sette anni, tesoro.” La sua mano si era
appoggiata sulla mia guancia, accarezzandola lievemente.
“Mamma, Orfin alla mia età faceva tante, tante
magie?”
Avevo sollevato di scatto la testa all’udire la sua risata: erano state davvero
poche e rare le volte in cui l’avevo vista ridere. “Mamma?”
“Sai, a volte quando si è tristi, la tua anima ti fa vedere
solo un brutto cielo tempestoso e invece, appena ti affacci alla finestra, vedi
un bellissimo sole. Alto, caldo, vivace, come per ricordarti che non
dovresti stare rinchiusa in camera, ma uscire e andare a giocare. Vedo quello
stesso sole che mi chiede perché non sei fuori, magari a cercare more… avrei
tanta voglia di gustarmene un paio!”
“Se il sole ci tiene tanto…”
“Come se il sole? E a tua madre non
pensi?” Aveva messo su un leggero
broncio.
“Ne vuoi tante?” le avevo domandato, finalmente allegra e senza
più lacrime sul viso.
“Troppe!”
E io ero uscita, dimenticando ogni cosa, perché non
c’erano più nuvole fuori dalla finestra.
§
“Dove sono le mie more?” avevo domandato a Orfin. Ero
stata fuori tutto il pomeriggio per raccoglierle; finalmente avevo deciso che
sarei andata da lui e che avrei smesso di nascondermi. Sapevo
di non essere bella, né tantomeno così intelligente da fare colpo su di lui,
eppure quel giorno ogni cosa sembrava dirmi “Merope, vai! Il sole
brilla, oggi puoi fare qualsiasi
cosa!”, e io volevo tentare almeno una volta,
provarci.
“Fermo!” ordinai a mio fratello, vedendolo mangiare alcuni dei frutti che
volevo offrire a Tom.
“Che vuoi, stupida?” La sua voce velenosa cercò ancora una volta di ferirmi,
qualcosa che non sarebbe successo quel giorno, così presa dai miei preparativi.
Non badando agli insulti, presi il cesto dalle sue mani e abbandonai la casa in
fretta, in modo da scampare alla sua furia.
“Merope!”
Le mie gambe si mossero sempre più veloci, mentre mi nascondevo dietro al
solito albero.
Qualche minuto e Tom avrebbe girato l’angolo e
spronato il cavallo per gli ultimi metri.
Mancava poco e gli avrei offerto le mie more.
Guardai il cielo e sorrisi a mia madre e al sole. Le mie mani cominciarono a
tremare quando sentii il rumore degli zoccoli.
Due mani forti rovesciarono l’intero contenuto del cesto sul mio viso. Sentii il sapore delle more sulle mie
labbra, sentii le risate di Tom alla mia ridicola vista, sentii una voce
serpentina al mio fianco.
“Stupida Merope.”
“Sai, a volte quando si è tristi, la tua anima ti fa vedere solo un
brutto cielo tempestoso e invece, appena ti affacci alla finestra, vedi un
bellissimo sole.” Riuscivo quasi a sentire le parole
di mia madre e quelle sue carezze lievi. Solo che questa volta nulla mi avrebbe
fatto cambiare idea sulla mia inutilità, sul mio destino. Ero sola, ed era solo
colpa mia.
Li vedi i fulmini, mamma? Illuminano il cielo e mi ricordano chi sono e qual è
il mio posto, qual è il mio inferno. Non è dentro
queste mura, è dentro di me.
Li senti i miei singhiozzi, mamma? Mi troncano il respiro, lacerandomi,
dissanguandomi.
E io crollo, sotto il peso delle macerie, sotto il
peso dei miei castelli di carta.