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Autore: Mork    11/04/2012    9 recensioni
In cui una ragazza scompare lasciando dietro di sé una serie di fotografie enigmatiche, Sherlock incontra un altro Dottore, e due misteri vengono risolti: uno sovrannaturale, e uno ancora più inaspettato.
Ambientata dopo "The Hounds of Baskerville"
Genere: Angst, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
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Ripensandoci, non avrebbe saputo dire come si fosse ritrovato d’un tratto sul ciglio della strada: poteva aver corso giù per quattro rampe di scale o poteva semplicemente essere saltato giù dalla finestra, tanto la percezione di quel momento si confondeva nella sua memoria. Ricordava bene, però, il sussulto provato nel vedere l’oggetto più blu dell’universo stagliarsi contro il grigiore londinese, l’urlo di gioia che gli si era formato in gola mentre, in parte zigzagando e in parte scavalcando le macchine che gli intralciavano il cammino, si lanciava verso il marciapiede opposto – quasi cozzò contro le porte della cabina, tanto era la foga con cui la raggiunse.
Aveva già le dita sulla maniglia dello sportello quando questo si aprì e John scivolò fuori.
Sherlock non credeva di averlo mai osservato tanto bene prima d’ora: l’esatta sfumatura di biondo dei suoi capelli, le screziature sulle sue iridi, le linee più o meno marcate del viso che ne disegnavano la fisionomia, la postura, lo sguardo, l’atteggiamento, non erano più i fantasmi che infestavano i suoi ricordi, erano vivi, reali, concreti, erano davanti a lui, a meno di un passo di distanza, e in quel momento gli sembrarono la cosa più bella che avesse mai visto.
John gli indirizzò un rapido sorriso, troppo distratto per essere davvero di scusa, e distolse presto lo sguardo, spostandolo sulla strada e sul cielo con inspiegabile divertimento, prima di ritornare a posarlo sul suo amico: «Non ci crederai mai», ridacchiò, «Esiste un pianeta chiamato Londra!»
Non era esattamente il tipo di frase che Sherlock si era aspettato. John rise, vedendo la sua espressione, e si voltò verso il Dottore, che si era fermato con una spalla appoggiata sullo stipite del TARDIS e sembrava immensamente soddisfatto di se stesso.
«C’è stata una leggera confusione con le coordinate», spiegò questi, che non pareva trarre il minimo fastidio da quella sorta di problemi, «Ho impostato quelle di Londra, pianeta invece di quelle di Londra, città. È una delle prime colonie umane oltre la galassia Girasole, quindi mantiene ancora un minimo della civiltà del suo pianeta d’origine… perlomeno nell’anno in cui ci siamo capitati noi. Niente a che vedere con il pianeta Wisconsin». Qui si interruppe, socchiudendo gli occhi come per rievocare immagini inenarrabili. «Ma sto divagando. Ho ancora un’attività aliena da ritracciare e devo occuparmi di Lark Foreman, quindi...»
Sherlock era miracolosamente riuscito, mascherando anche tutta la sua impazienza, ad ascoltare ed assimilare il discorso del Dottore, ma per nulla al mondo era stato in grado di staccare gli occhi da John, che per qualche stupida ragione non aveva ancora osato alzarli su di lui. A quelle parole, però, si riscosse e lanciò un’occhiata interrogativa al Signore del Tempo.
«Cosa c’entri tu con Lark Foreman?»
«Non c’è più speranza per sua sorella», rispose il Dottore.
Quella frase suonò come una sconfitta per entrambi. John teneva ostinatamente gli occhi fissi a terra ma sapeva, senza bisogno di guardarlo, che Sherlock aveva contratto le labbra in una smorfia d’impotenza e amarezza; fu sul punto di alzare lo sguardo ma il Dottore lo anticipò: «È passato troppo tempo e la traccia, sin dall’inizio, era praticamente inesistente. Ha già consumato tutta la sua vita nel passato. Ho pensato che... John ha detto che sarebbe meglio che parlassi io con il ragazzo.»
Non c’era più modo di evitarlo; John si fece coraggio e sollevò il capo per incontrare gli occhi di Sherlock, trovandoci esattamente quello che si aspettava – e temeva – di vedere. Rabbia.
Non furia, ma una calma e implacabile ira; gliela vedeva ribollire negli occhi, montare sulla rigidità della schiena e del collo e guizzare sulla linea della mascella e agli angoli della bocca come una fiamma errante. Per quanto si fosse preparato a quella reazione, non aveva ancora escogitato un modo per affrontarla; Sherlock aveva i suoi buoni motivi per essere arrabbiato: non era riuscito a salvare il suo migliore amico né a sconfiggere gli Angeli Piangenti, ma aveva dovuto fare affidamento su qualcun altro – uno sconosciuto per cui non nutriva certo i sentimenti più pacifici – per entrambe le cose; ma sicuramente ciò che lo irritava più di ogni altra cosa era l’essersi fatto battere di nuovo da un’emozione – per la quale poteva dare la colpa solo a John. Il medico sapeva che il moto di egoismo che gli aveva quasi fatto dichiarare i propri sentimenti non poteva aver avuto che effetti negativi su Sherlock. Era stata un’imperdonabile leggerezza da parte sua: in un attimo aveva mandato all’aria tutti i suoi propositi e ora, come se non bastasse, lo costringeva a concludere quel discorso, che lo volesse o meno. Lo sguardo di Sherlock era inequivocabile: non aveva dimenticato ciò che si erano detti.
«Va bene», decise Sherlock, rivolgendosi al Dottore pur continuando a guardare John, «Ci salutiamo qui, allora. Immagino di doverti un favore.»
«Prega di non dovermelo mai restituire», gli rispose il Dottore, cupamente. Voltò le spalle ai due coinquilini e richiuse lentamente le porte della cabina; quando ormai era visibile solo per uno spiraglio, lanciò un’occhiata a John e mormorò, cercando di farsi sentire solo da lui: «Ne sei ancora convinto, vero?»
«Sì. Mi dispiace», sussurrò John con un sorriso compassionevole. Senza indugiare oltre, il Signore del Tempo sparì dentro il TARDIS e pochi istanti dopo l’ormai familiare baraonda del motore si innalzò sopra il rumore del traffico londinese; Sherlock e John rimasero a guardare la cabina blu finché la sua sagoma non svanì del tutto, poi, in silenzio, si avviarono contemporaneamente verso il 221B.
Sul pianerottolo, John venne intercettato dalla signora Hudson, che si mostrò così raggiante nel vederlo da fargli sospettare che Sherlock potesse averle parlato della loro avventura – cosa del tutto impossibile, ma per quale altro motivo lo avrebbe abbracciato con tanto slancio, quasi con le lacrime agli occhi?
«Di cosa sei convinto?», gli chiese Sherlock non appena lo raggiunse. John si sfilò il cappotto con gesti lenti e meditabondi, scuotendo la testa con fare elusivo: «Di non voler andare con lui. Sai, vedere nuovi pianeti, gli alieni, le navi spaziali e tutto il resto. Avrebbe potuto portarmi a spasso per l’universo e poi farmi tornare a casa in questo stesso giorno, come se non fosse successo niente. Ma...», concluse, con una scrollata di spalle, «Non fa per me. E poi ho già un maledetto genio da dover sopportare, no?»
Sherlock si limitò a continuare a fissarlo, in piedi accanto alla finestra, e John capì che era giunto il momento di farsi venire in mente qualcos’altro da dire; si avvicinò all’amico con titubanza ed era a pochi passi da lui quando un’occhiata più attenta fece morire tutte le parole che gli stavano affiorando sulle labbra.
Non era collera quella che bruciava in fondo agli occhi del suo amico: era brama.
Come a voler confermare la sua intuizione, Sherlock si voltò completamente verso di lui e coprì la breve distanza che li separava. La luce che entrava dalla finestra ora non gli investiva pienamente il viso ma lasciava che l’ombra affondasse là dove le guance si erano incavate e le palpebre ricadevano più pesantemente sugli occhi arrossati e bordati dal viola delle occhiaie. John gli prese il mento con dita tremanti e lo fece voltare con delicatezza in modo da studiarlo meglio, maledicendosi cento volte per non aver notato subito quanto il suo pallore fosse tutt’altro che naturale.
«Mio Dio», gemette con un filo di voce, «Come hai fatto a ridurti così?»
«Il Dottore non ha sbagliato solo le coordinate per Londra», rispose Sherlock con voce atona, «Ha sbagliato anche la data. Mi aveva promesso dieci minuti. Sono passati dieci giorni»
John si sentì svuotare di ogni forza; lasciò ricadere la mano, e nel farlo sfiorò il fianco di Sherlock: era solo la sua impressione, o la camicia gli stava leggermente più larga? Si passò la lingua sulle labbra, ma anche se avesse saputo cosa dire, non gli era rimasto abbastanza fiato per farlo. Abbassò la testa, combattendo contro le lacrime che avevano iniziato a pizzicargli gli occhi; così facendo si rese conto che, effettivamente, il suo coinquilino era davvero dimagrito.
Gli poggiò una mano sulla vita, a metà tra un istinto protettivo e una richiesta di perdono.
«Mi dispiace», sussurrò.
«Non è colpa tua»
John rialzò lo sguardo e si sentì un po’ rincuorare nel vedere che non c’era accusa negli occhi di Sherlock, né dolore: sembrava solo immensamente stanco, fisicamente e mentalmente; poteva quasi vedere le ultime fibre di autocontrollo che ancora lo tenevano in piedi farsi sempre più sfilacciate, mentre le spalle gli si incurvavano e il suo viso perdeva tutta la sua imperscrutabilità.
«Credo che ti serva un dottore», mormorò John con un sorriso pieno di tenerezza. Sherlock chiuse gli occhi e lasciò che la testa gli crollasse sulla spalla dell’amico, esalando un sospiro che sembrò scuotergli tutto il corpo. Timidamente e con estrema cautela passò le mani intorno alle sue spalle, attirandolo a sé; John esitò solo per un istante, prima di allacciare rapidamente le braccia attorno ai suoi fianchi, stringendolo così forte da fargli male. Sherlock non si lamentò: non desiderava altro che la certezza fisica di avere John Watson di nuovo vicino a sé.
«Va tutto bene», mormorò John con la bocca premuta contro il petto di Sherlock, «Sono a casa adesso»
«Bentornato a casa»
Per un po’ non riuscirono a fare altro, scossi com’erano dai brividi della smania di quell’abbraccio e dalla felicità che esso procurava loro. Sherlock continuava a tenere gli occhi chiusi, concentrandosi sulla pressione del corpo di John contro il proprio, sul suo respiro, sul calore della sua guancia, sull’odore del suo maglione, reduce da chissà quali atmosfere; avrebbe potuto rimanere in quella posizione per giorni, a prendere confidenza con quel corpo, accumulando nuovi ed intriganti dati e riscoprendo quelli vecchi, assaporando ogni dettaglio e poi il quadro d’insieme, finché non sarebbe stato in grado di prevedere ogni fremito della sua carne, fino ad imparare a memoria il battito del suo cuore.
Si distrasse dalla sua analisi e trattenne il fiato sentendo la mano destra di John scivolare via dal suo fianco e risalirgli il torso, andandosi a fermare in mezzo al petto.
«Moriarty aveva ragione», bisbigliò il dottore, quasi con soddisfazione.
«Riguardo cosa?»
«Hai davvero un cuore»
Sherlock socchiuse gli occhi e sorrise impercettibilmente, sconfitto. Si era perso così tanto nello studio del corpo di John da essersi dimenticato di dominare il proprio; il battito cardiaco doveva averlo tradito di nuovo, come quella sera di undici giorni fa.
«Lo so», disse dopo un po’, la voce bassa e quasi sonnolenta, voltando la testa in modo da sfiorare l’orecchio di John con le labbra, «È quello che sto stringendo tra le braccia»
Questa volta fu John ad essere colto di sorpresa: sussultò e districò il viso dall’abbraccio, sentendosi improvvisamente accaldato.
«Credevo di essere il sostituto del tuo teschio», borbottò infine, ostentando noncuranza nonostante fosse consapevole di non poter nascondere all’altro la sua vera reazione.
Sherlock poggiò il mento sulla spalla di John, meditabondo.
«Immagino di sì. Dopotutto, hai sempre fatto un ottimo lavoro nel proteggere il mio cervello». Soppesò per un attimo quelle parole, poi sospirò e tornò ad affondare il viso nell’incavo della spalla di John, concludendo: «Comunque sia, sembra proprio che non possa fare a meno di te»
«È una fortuna che non abbia intenzione di andarmene, allora»
La tensione che li aveva fatti aggrappare l’uno all’altro con tanta disperazione si stava attenuando a poco a poco; Sherlock allentò la presa quel tanto che bastava per guardare John negli occhi. Non era molto lusinghiero, pensò John, ma gli stava rivolgendo lo stesso sguardo che avrebbe riservato a un triplice omicidio in una stanza chiusa dall’interno. L’aveva visto felice più volte di quanto si potesse credere; per questo la sua sorpresa fu ancora maggiore nel notare come questa volta ci fosse qualcosa di diverso nella sua espressione: non stava sorridendo, ma tutto il suo viso esprimeva comunque una gioia ineffabile e i suoi occhi brillavano di curiosità, impazienza, dubbio – avrebbe potuto giurare che c’era persino amore in quello sguardo.
«Dovevi dirmi qualcosa, ricordi?»
John sbatté le palpebre, ritornando bruscamente alla realtà.
«Oh. Sì», balbettò, interrompendo immediatamente il contatto visivo. I suoi occhi vagarono per la stanza come alla ricerca di un po’ di incoraggiamento ma, nonostante sentisse distintamente il battito del proprio cuore echeggiargli in petto, non provava affatto paura. Un senso di sconfitta, piuttosto, e di rassegnazione di fronte all’imminente perdita: perché per quanto lo sperasse non poteva davvero credere che Sherlock gli avrebbe risposto ripetendo le sue stesse parole. Si leccò le labbra, raddrizzò le spalle per farsi forza e ritornò a guardare negli occhi il suo migliore amico.
«Aspetta un attimo», brontolò, insospettito dal sorriso che Sherlock stava cercando di dissimulare, «Tu lo sai già»
«Ho un’ipotesi molto valida, ma mi manca la prova conclusiva»
John sospirò, esasperato: «Dio, quanto mi fai arrabbiare»
«Mh.», fece Sherlock, socchiudendo gli occhi come se stesse riflettendo, «Avevo immaginato qualcosa di leggermente diverso»
«D’accordo, d’accordo», sbottò John, sovrastando le sue ultime parole, «Ti amo. Contento?»
Si pentì immediatamente di essere stato così brusco, vedendo l’espressione dell’altro: se avesse saputo sin dall’inizio che Sherlock era in grado di sorridere in quel modo, si sarebbe dichiarato da un pezzo senza farsi troppi problemi.
«Questo suona meglio», mormorò il detective, deliziato, «Grazie»
«Figurati», ridacchiò John, abbassando la testa. Suo malgrado, sentì un calore indesiderato affluirgli sul collo e sulle orecchie e, con suo maggiore dispetto, un moto di stizza gli inumidì gli occhi – perché Sherlock era rimasto ancora in silenzio, tranquillo e soddisfatto, e sembrava proprio che quella sarebbe stata la sua unica risposta.
«Non mi piace far notare cose ovvie, ma credo di doverti informare che ti amo anch’io»
John rialzò la testa di scatto, gli occhi spalancati: «Cosa hai detto?»
«Mi hai sentito benissimo», rispose Sherlock pazientemente, divertendosi nell’osservare come tutti i pensieri esagitati di John fossero facilmente leggibili nel tremolio leggero delle sue pupille, e come un allentamento della rigidità delle sue spalle gli rivelò che il medico aveva finalmente metabolizzato l’informazione. A quel punto, gli sembrò del tutto logico chinarsi, mentre le dita di John annaspavano intorno al colletto della sua camicia, e premere le labbra contro le sue.
Quello che non si era aspettato era la portata della scarica di serotonina che si sentì saettare lungo la spina dorsale, fin dentro il cervello – e dal singulto che John emise, mentre gli angoli della bocca gli si arricciavano in un sorriso irrefrenabile, capì che dovevano aver provato entrambi la stessa cosa. Scoppiarono a ridere contemporaneamente, pieni di sollievo e imbarazzo, indecisi se incrociare o meno gli sguardi ma determinati a non allontanarsi neanche di un centimetro.
Il secondo tentativo andò meglio. Sherlock serrò le braccia intorno alla vita di John e annegò lì tutti i brividi che il dottore gli procurava, ogni volta che ruotava la testa e mordeva, succhiava, rincorreva le sue labbra con il tormento di un assetato e l’allegria feroce di un piccolo leone che gioca. All’inizio non era del tutto certo su come rispondere a quella miriade di piccoli stimoli puramente fisici – niente su cui poter basare deduzioni o strategie – si limitava ad assimilarli avidamente uno dopo l’altro, disorientato ma al settimo cielo; poi John emise un suono dal fondo della gola che non gli aveva mai sentito fare, e improvvisamente si accorse di avere già una mano contro la sua nuca e di avergli dischiuso le labbra con la lingua per scoprire il sapore della sua bocca, strappandogli quel gemito basso.
Decise dunque che sarebbe stato molto più produttivo smettere di ragionarci sopra.
Si lasciò dissezionare dalle dita e dalla bocca di John, strato dopo strato, la mente sgombra e dimenticata, e si ricordò di aver bisogno di ossigeno solo quando lui lo lasciò andare, estatico, per poggiare la guancia contro la sua spalla, riprendendo fiato tra una risatina sommessa e l’altra. Sherlock sospirò e gli baciò la testa, giocherellando con i suoi capelli mentre aspettava che il raziocinio riprendesse il controllo del suo cervello. Guardò fuori dalla finestra e con sua notevole soddisfazione scoprì di essere ancora in grado di dedurre la vita di perfetti sconosciuti con una rapida occhiata – chissà perché aveva pensato che le sue abilità si sarebbero affievolite, una volta permesso alle emozioni di farsi strada nella sua mente. Il momento di oblio ed ebbrezza in cui il piacere lo trascinava lo lasciava ancora guardingo, ma la certezza di poter avere John sempre accanto a sé non glielo faceva più temere come prima. Anche ora che si limitava a tenere la testa contro il suo petto, John sembrava districare delicatamente tutti i nodi dolorosi che lo attanagliavano; sarebbe stato affascinante vedere come quella situazione si sarebbe evoluta in futuro – in fondo, aveva sempre usato se stesso come cavia per i suoi esperimenti più audaci.
«Un pianeta chiamato Londra», esclamò di punto in bianco.
«Già. Ti sarebbe piaciuto», mormorò John voltando la testa verso di lui, «Milioni di nuovi modus operandi»
«Ma i moventi sarebbero stati sempre gli stessi», borbottò Sherlock in tono annoiato, «Gli umani non cambiano mai»
«Però saresti stato l’unico consulente investigatore dell’intera galassia»
«Questo è vero»
«E magari avresti finalmente imparato come funziona il sistema solare»
«Non ti stancherai mai di questa storia, vero?»
Sghignazzarono silenziosamente, prima di ritornare ad un silenzio meditabondo e lasciare che gli sguardi si perdessero nel vuoto.
«Ti va di pranzare?», propose Sherlock dopo qualche minuto, sciogliendo l’abbraccio e dirigendosi verso l’appendiabiti.
«Muoio di fame», rispose John allegramente, infilandosi il cappotto e inseguendolo giù per le scale, «E questa volta faresti meglio a mangiare anche tu»
«Sì, dottore», cantilenò Sherlock aprendo il portone e facendosi da parte per farlo passare. John si fermò sulla soglia, come colto da un dubbio improvviso: «Non ti dà fastidio?», gli chiese con un sorriso curioso, «Non aver risolto il caso»
«Ti sbagli», disse Sherlock piantandogli una mano sulla schiena e spingendolo fuori, richiudendosi poi la porta alle spalle, «Un caso l’ho sicuramente risolto».

  
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