Lucente come un lampo in una notte
senza luna, un’affilata lama fendeva il suo ennesimo, repentino colpo.
Una vischiosa scia purpurea
imbrattò la sua consistenza argentea, per poi scivolare silenziosamente via,
quasi fosse acqua su un vetro durante un temporale.
Similarmente, del suo passaggio
non rimase nulla, se non uno scialbo alone, impossibile da distinguere dai
numerosi altri, alcuni risalenti alle ore prima, alcuni vecchi di solo pochi
secondi.
Un sacrificio di
mille innocenti, per la salvezza di un unico piccolo ignaro.
Tutto questo perché ci sono legami
e patti stipulati col sangue, e in esso tramandati, e
solo con quello stesso sangue possono essere recisi, annegandoli in un carminio
fiume di porpora.
Un solo carnefice ne era il fautore, e volteggiava dentro questo rosso con
grazia e sicurezza degne dell’angelo della morte più impietoso.
E quando l’ultimo colpo andò a
segno, quel messaggero di decadenza e distruzione ebbe
la sua stessa visuale offuscata dal sangue.
Non riuscì più a distinguere se fosse il proprio o l’altrui.
Mentre l’assassino si passava stancamente il dorso della mano
sugli occhi, tergendone linfa vitale e sudore, l’ignaro innocente per la cui
salvezza tutto ciò era stato compiuto riposava tranquillo nel suo letto.
Il suo sereno sorriso era
eternamente preservato dal genjutsu che era stato per
lui appositamente creato.
Nella quiete delle due stanze e
nel calore del suo letto, nulla pareva mutato.
L’acuto cinguettare degli
uccellini, che da tempo avevano trovato alloggio e rifugio per sé e per i
propri piccoli tra le floride fronde del giardino, penetrava lieve dalle
finestre, insieme a sottili raggi di luce attorno e dentro ai
quali danzava leggero e impalpabile il pulviscolo.
Ma all’odore solitamente rilassante che aveva sempre emanato
il connubio dei legni pregiati con cui la casa era stata edificata e decorata,
c’era mischiato qualcos’altro.
Un odore indecifrabile che
trasmetteva una sensazione incomprensibile, penetrante al punto da divenire
quasi un sapore percepito dalle papille gustative.
Quando, perplesso, posò delicatamente i delicati piedi infantili
sui tatami tiepidi, una scossa di tensione
l’attraversò da parte a parte, propagandosi lungo la sua spina dorsale.
Lasciò dietro di sé solo una
profonda inquietudine.
C’era decisamente
qualcosa che non andava.
Percorse con lenti passi i
corridoi che si diramavano per la struttura, il cui silenzio
si faceva sempre più opprimente e incalzante ad ogni piè sospinto.
Prese a chiamare a gran voce suo
padre, sua madre e infine anche suo fratello maggiore,
lasciando anche da parte l’orgoglio che lo avrebbe portato a trattenersi per
non sentirsi dare del fifone da lui.
Ma il nulla in cui si ritrovò
nuovamente immerso quando l’eco della sua voce si fu
dileguata, risultò essere un più che eloquente segnale.
Sempre più titubante, si decise,
quasi facendo violenza su sé stesso, ad aprire uno shoji
che separava il soggiorno principale dal giardino interno, su cui si
affacciava.
Ogni anticipazione gli era negata
dall’ombra scura che lo spesso muro di cinta proiettava scontrandosi con la
bassa luce del sole mattutino, occultandogli la verità.
Quando infine il pannello finì di
scorrere, andando a scomparire nell’incavo del muro che gli era riservato, ai
suoi occhi venne arrogato il diritto di vedere.
E fu l’inferno.
Ciò che un comune essere umano può
solo provare ad immaginare.
Con tutta probabilità, se avesse
potuto cancellare la propria memoria e tornare indietro, avrebbe preferito di gran lunga restare ignaro di quella visuale angosciante.
L’intricata consistenza dei tatami e la morbida terra del prato avevano assorbito litri
e litri di sangue, finché le loro fibre e la loro stessa materia non ne erano uscite saturate, ed erano state costrette a farlo
traboccare in pozze purpuree.
In mezzo a questi liquidi,
abbandonati alla brezza leggera che scuoteva l’erba ancora verde, decine e
decine di cadaveri, totalmente irriconoscibili alla stregua di
ammassi di carne al macello.
Capire a chi appartenessero,
o meglio, fossero appartenuti, era una macabra battaglia persa in partenza.
Gli unici riconoscibili, forse per
la familiarità, forse per qualcosa di più profondo e meno nominabile,
risultarono essere solo due dei corpi esanimi.
Il primo, era stato proprietà di
sua madre, ed era decisamente il meno mutilato tra
tutti.
La fresca bellezza che l’aveva
caratterizzata da quando il figlio minore ne aveva
memoria, non era stata scalfita dal rigor mortis, ma
esso gli aveva aggiunto un elemento in più.
Sasuke non era più così sicuro che sua madre potesse essere
definita un angelo…
Integro, a parte lo squarcio sulla
schiena, era accasciato accanto alla figura, austera perfino nella morte, di
suo padre.
Il ragazzino poté facilmente
immaginare, perfino in quel profondo sconvolgimento in cui versava, che gli
altri fossero i restanti membri di quello che era
stato un magnifico clan.
Gli sembrava quasi di vedere,
oltre le lunghe mura del giardino, il proseguire di quello sfacelo lungo le
strade del quartiere che a quel muro erano adiacenti.
Incurante del fatto di stare
imbrattandosi di rosso la pelle morbida e candida, si
avvicinò ai suoi genitori.
Fu in quel momento che vide
qualcosa che distrusse totalmente le sue speranze insieme agli ultimi esigui
cocci della sua vita tranquilla.
Immersi in quello che un tempo era
stato un liquido portatore di vita, due oggetti che si affrettò a raccogliere.
Non poteva essere…
Non poteva…
Non anche quello…
Il suo sospetto fu però
irrimediabilmente confermato.
D’altronde la certezza era stata
nella sua mente da quando li aveva appena intravisti.
E ora li teneva uno per mano.
Nella destra, un aikuchi, il cui taglio su un
manico, segno di una vecchia missione ANBU, ne rese identificabile
l’appartenenza.
Stesso concetto per la collanina
che le dita della mano sinistra stringevano spasmodicamente.
Erano senza dubbio di suoi fratello maggiore.
Uchiha Itachi, primogenito del capo
clan, futuro erede.
Colui a cui aveva sempre guardato
più come a un Dio che come ad un fratello, ammaliato
dalla sua abilità e dal suo carisma.
Evidentemente caduto a sua volta
vittima di quella carneficina.
Persino niisan
non aveva potuto nulla…
E lui era l’unico superstite.
Vivo in mezzo ad un lago di sangue.
Lui che respirava in mezzo ai
morti.
E non poteva fare altro che rimanere lì, fuori luogo in un
posto che oramai non apparteneva più ai viventi, ma senza altro luogo in cui
andare.
Solo, senza più nessuna al mondo.
Con la vista appannata dalle
lacrime, le uniche cose che lo trattenevano su quel piano dimensionale erano il duro del tatami
impregnato di sangue su cui si era accasciato e gli oggetti appartenuti a suo
fratello che stringeva fino a far tremare le piccole nocche sbiancate.
Rimase così, in mezzo ai resti
della sua famiglia e della sua ormai vuota esistenza,
scosso da brividi intensi, sebbene il sole emanasse un lieve tepore che poteva
sembrare un tentativo di conforto.
Fino all’arrivo dei soccorsi,
l’utilità dei quali gli parve alquanto dubbia.
Non c’era più nessuno da aiutare.
Avrebbe preferito lo lasciassero lì a sé stesso…a fissare quel cielo che incurante
della sua tragedia continuava ad essere terso e languido…finchè
la morte non avesse raggiunto anche lui.
Ovviamente non gli fu permesso.
E forse anche questa può essere annoverata tra le crudeltà
dell’essere umano…
Un anno in cui, sostanzialmente,
nulla era cambiato.
Né la sua psiche né il mondo che
lo circondava, salvo alcuni particolari, alla fin fine
irrilevanti.
Il genocida
degli Uchiha non aveva volto, né tanto meno nome.
Il motivo per il quale solo lui
era sopravvissuto, risparmiato da quella che pareva una furia implacabile,
rimase sconosciuto.
Il sangue non invadeva più quella grande casa, meticolosamente ripulita.
Ma, seppure tatami
e terreno erano stati sostituiti, la sua famiglia non
era tornata, e lui si ritrovava solo in una villa enorme rimessa a nuovo.
Pronta per essere la dimora di
quello che non era niente di più che un fantasma che aveva dimenticato come si
giunge al nirvana, ed era stato lasciato indietro dagli altri spiriti.
Rimaneva lì solo nell’attesa che
essi si ricordassero di lui e tornassero a prenderlo.
Interminabili secondi si sommavano
fino a diventare interminabili minuti.
I minuti si trasformavano
lentamente in ore vuote.
Le ore si trascinavano stancamente
fino ai giorni.
I giorni, non sapeva bene come,
andavano avanti, fino a mesi interi di profonda malinconia.
Ed un giorno, dal baratro di
torpore in cui si ritrovava immerso, si accorse di essere riuscito a
trascorrere un intero anni nella solitudine più
totale.
Perché non si ricordavano di lui?
Perché mamma, papà e Itachi non si ricordavano di tornare a prenderlo e non lo
portavano insieme a loro in un posto dove sarebbero
potuti stare tutti insieme di nuovo?
La sua presenza nella loro vita
era stata così labile che nella morte l’avevano immediatamente dimenticato?
Pianse a dirotto, quella notte, di
tutte le lacrime ingoiate in trecentosessantacinque giorni.
Sfogò il suo dolore che non
prevedeva lenimento sull’inerme federa del cuscino bianco.
Non sapeva che quel momento di
liberazione dalla propria frustrazione stava venendo
osservato in silenzio dalla fronda dell’albero vicino alla finestra.
Non se ne accorse
nemmeno quando, addormentatosi per lo sfinimento che le lacrime e la sofferenza
acuta gli avevano provocato, la figura scivolò sinuosamente all’interno,
immersa nello stesso silenzio con cui era venuta.
Facendo involontariamente
frusciare la sua lunga veste nera, sulla superficie lucida della quale si
riflettevano i pallidi raggi lunari, si sedette sul bordo del materasso,
accarezzando appena la testa mora di Sasuke che
dormiva prono.
Rimase lì, tutta la notte,
spostando lo sguardo dal ragazzino di otto anni alla
luna millenaria che compiva il suo abitudinario percorso sulla volta celeste,
tinta di un intenso blu scuro e ammantata di stelle per fare compagnia a quel
freddo satellite.
Forse messaggero di un Dio, che
aveva ascoltato le preghiere di quell’anima
distrutta.
Forse qualcos’altro, ma con
medesime intenzioni.
Forse venuto a mostrare al ragazzino
un futuro diverso da quello a cui ormai si era preparato.
Aspettava il mattino, che portava con sé il risveglio.