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Autore: Ekerot    12/04/2012    1 recensioni
Piccola storia di formazione di un preadolescente: quando una piccola circostanza, tutto sommato banale, può trasformarsi in tragedia!
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL BERRETTO

 

Era una delle prime feste del liceo. Tredici anni, quarta ginnasio, verso gli ultimi giorni di febbraio.

La classe si riuniva al vecchio ristorante-pizzeria sopra il Bowling.

Il Bowling era per i maggiorenni o per le ragazze sopra i sedici, mentre a noi interessava l'ultimo piano dell'edificio, dove potevamo giocare per mezzora al laser-game, sparandoci l'uno contro l'altro senza pietà.

Prima di uscire di casa feci uno starnuto rivelatore. La voce di mia madre mi inseguì: «L'hai preso il cappello?». Ovviamente no. Fuori faceva caldo. «Te ne ho comprato uno nuovo, mettitelo che è molto caldo (pausa) Lo senti com'è caldo?».

A me sembrava un banalissimo cappello. Ma con una notevole differenza, sottolineata dalla genitrice. Questo era di marca, “SASH”. Il che implicava un alto livello di attenzione. Uscii di casa indossandolo. Dopo quaranta metri, fuori dalla portata notturna delle undici diottrie di mia madre, lo tolsi e lo infilai in tasca.

 

Top Gun – Arena dominator”. Per la prima e unica volta, mi fregiai dell'ambitissimo riconoscimento. Grazie al valore mostrato sul campo, il prossimo ingresso per me sarebbe stato gratuito. Ovviamente nessuno di noi andò più al laser-game. La festa era stata sciapa, ancora le alchimie ormonali non avevano il potere di mischiare a dovere i gruppi. Ma la medaglia d'oro bastava e avanzava per mandare a memoria quella giornata.

Mi infilai al calduccio sotto le coperte. Era addirittura l'una di notte.

Il berretto!

Avevo ricontrollato la tasca? Passai in rapida successione tutti i momenti chiave della serata. In nessuno di questi potevo dire di essere certo che il cappello fosse con me.

Meglio andare a letto tranquilli. Mi alzai, andai a frugare nel cappotto.

Niente.

Panico.

Controllai le sette tasche interne.

Niente.

Il primo angelo della speranza mi suggerì che molto probabilmente era rimasto nella macchina del nonno di Agnese che ci aveva accompagnati al Bowling. Oppure era caduto rientrando a piedi dalla casa di Agnese. Troppo freddo e troppo tardi per uscire a dare un'occhiata.

Dormii malissimo.

 

Il giorno dopo i miei se ne andarono nell'entroterra, il che mi lasciava qualche ora libera di ricerca. Presi la bicicletta e ripercorsi credo sei o sette volte tutto il tragitto, compresi bidoni della spazzatura. Inventai anche sentieri nella pinetina che senza dubbio non avevo camminato.

Niente da fare. Forse davvero era rimasto nella macchina. Incrociai le dita.

La sera a cena, giusto al momento della prima forchettata di spaghetti, ecco risuonare di nuovo quella voce: «Non ho visto il cappello nuovo, dov'è?». Grande prontezza di riflessi, respirai profondomente. «Ah, è rimasto nella macchina del nonno di Agnese, mamma. Domani glielo dico».

Le fatidiche parole. «Sei sicuro?». Per forza, mamma, faceva caldo l'ho tolto subito entrato in macchina. Risatine. La mia parola aveva ancora un valore rispettato, dopo anni di duro lavoro.

 

Il giorno dopo, imbarazzatissimo (andare a chiedere del berretto perso ad una ragazza per me era quasi un'onta), chiesi ad Agnese di dare una controllata nella macchina.

Due giorni dopo, arrivò la condanna a morte. «Non c'era».

A mia madre raccontai che il nonno non viveva lì e avrebbe portato la macchina giù solo nel finesettimana. Dalle risatine passammo ai commenti satirici.

Ogni giorno puntualmente all'ora di pranzo, giusto per farmi venire un po' di gastrite in più, arrivava la fatidica domanda: «Hai chiesto del cappello?». Io scuotevo la testa, balbettavo qualcosa, e provavo a mangiare. Andavo agli allenamenti di pallavolo, e sulla palla vedevo in sovrimpressione la scritta “SASH”.

A violino, la stessa faccenda. Gli spartiti neri e bianchi erano dello stesso colore del berretto.

Dormivo male, impiegando minuti e minuti per trovare una possibile soluzione. Una parte di me voleva raccontare tutta la verità, sorbirmi l'umiliazione, la sfuriata di un paio di giorni infernali, ma alla fine sarebbe finito tutto. Avrei potuto addormentarmi senza patemi. Ma non ero abbastanza stressato per cedere. E poi magari c'era una chance di ritrovare il cappello.

 

La domenica seguente (ad una settimana dal fattaccio) ripresi la bicicletta e frugai la strada centimetro quadro per centimetro quadro. Ovunque, sperando di trovare tracce di antimateria in grado di riportarmi nel passato. Poi, scorato, mi decisi per il grande salto.

Andare fino al Bowling. Che distava dieci chilometri. Una mossa idiota, senza senso. Come avrebbe mai potuto restare lì per sette giorni un berretto di marca, praticamente nuovo?

Magari c'era un reparto oggetti smarriti.

Arrivai accaldato. Il posto era totalmente deserto, alle quattro del pomeriggio. Non aveva nessun fascino e lo stramaledii settanta per sette volte. Feci il giro dell'isolato, in cerca di porte segrete, di un'anima pia che lavorasse a quell'ora della domenica. Magari era troppo presto. Meglio aspettare un po'. E nell'attesa del momento, iniziai il meraviglioso gioco del “What if”, cercando tutte le possibili variabili nella storia che non mi avrebbero mai condotto a perdere il berretto quella sera.

Se la mamma non avesse comprato il cappello, accontentandosi di quello mio vecchio e pagato due lire; se l'avessi messo nella tasca interna della giacca; se l'avessi controllato ogni mezzora mettendo la sveglia all'orologio; se la mia amica avesse compiuto gli anni in primavera non avrei avuto bisogno del cappello; se non fossi andato alla festa, preda di qualche febbrone...

Ma alla fine l'unica vera colpa era da associare a quello starnuto arrivato nell'istante sbagliato. Gente era morta per uno starnuto. Stavo arrivando alla fase “se fossi una pietra non godrei del privilegio di portare cappelli”, quando finalmente giunse un tizio col pandino. Parcheggiò di fronte all'ingresso del Bowling. Ed entrò dopo aver tirato su la saracinesca.

 

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette. Pregai tutti gli Dei pagani di aiutarmi nel momento del bisogno (quando persino un ateo ha bisogno di fede). E lo seguii.

C'era di tutto nel ripostiglio degli oggetti smarriti. Potevi rifarti l'intero abbigliamento da capo a piedi. Decine di cappelli ed ombrelli. Ma non il mio dannato “SASH”. La speranza, per quanto vana, crollò portandosi appresso tutto il resto del mio buonumore. Urgeva sfogarsi con qualcuno.

 

A pensarci bene, non era facile trovare qualcuno cui raccontare il fattaccio. Per avere poi quale consiglio? Ci vollero un paio di giorni per scegliere l'amico più adatto: il Rape.

Solo il Rape avrebbe offerto la sua spalla senza deridermi troppo. E così, mestamente, gli raccontai l'accaduto.

Il Rape rise per un po'. Ma con grande sorpresa aggiunse un consiglio. «Perché non ne compri uno nuovo? C'è un negozio “SASH” in centro».

Andammo insieme a controllare: il negozio aveva appena chiuso per fallimento.

Ottimo e abbondante, perché come si sa la jella ci vede benissimo.

All'epoca non avremmo mai pensato che altri punti commerciali potessero vendere marche così famose. E soprattutto non sarei mai riuscito a vincere l'imbarazzo brutale e repentino di chiedere ad una commessa un berretto “SASH”. Per fortuna alla fine del giro, venimmo a sapere, con un consiglio en passant, che un'ulteriore chance si poteva ottenere a Livorno, il fornitissimo capoluogo.

Cercammo sulle pagine gialle. Il negozio esisteva davvero.

 

Ma organizzare una trasferta labronica, all'epoca, non era semplice. Trovare una motivazione valida e soprattutto i soldi per arrivarci avrebbero richiesto grande fatica e tempo.

Tempo che mia madre cominciava a martellare come un metronomo. Ogni giorno la stessa fatidica domanda. “Dov'è il cappello?”. Io avevo iniziato ad evitare di rispondere. Chinavo gli occhi e continuavo a mangiare. Il resto della giornata lo passavo lontano da lei.

Se stava in cucina fuori dall'orario dei pasti, passavo dal salotto.

Una mattina, mentre facevo colazione, si avvicinò. «Se non mi porti il cappello entro sabato, niente teatro». Il giro di vite. E sapevo che sarebbe stato sempre peggio. Ma mi occorrevano ancora due settimane per mettere insieme i soldi e ricomprare il berretto. La sera a cena, mio padre ribadì. Senza usare toni particolarmente insistenti. Quel minimo che bastava a farmi capire che mia madre lo aveva tempestato da giorni sullo stesso argomento. Insomma, il sottotesto era: «Datti una mossa che ci sono finito dentro pure io».

Dalla settimana seguente oltre al teatro iniziarono a saltare pian piano tutte le altre attività. Praticamente rimanevo a casa tutto il giorno. L'unica ora di libertà la vivevo di mattina a scuola, dove peraltro iniziarono a farsi vedere in negativo i risultati di un mese di stress continuo. Due insufficienze non previste alle versioni. E pure io cominciai a risentire. Poche ore di sonno, pesche abbondanti sotto gli occhi, nervosismo. E gli amici che continuavano a chiedere come mai fossi sparito dalla circolazione. Io ovviamente non potevo svelare il vero motivo.

 

Si giunse quindi alla fine di Marzo, a cinque settimane dal fattaccio. Tanto ero riuscito a prorogare l'ultimatum.

Il lunedì seguente scattava la gita di ben un giorno a Roma. Già pagata prima delle vacanze di Natale. Non volevo assolutamente mancare. Ma mi venne detto il giovedì sera che se non avessi portato entro sabato il cappello l'avrei saltata. E sarebbe mancata anche la paghetta. Oramai, praticamente, il vulcano era pronto a scoppiare.

Io con un gesto di teatro annunciai che sabato a pranzo avrebbero visto il cappello a tavola.

Ed era quanto speravo vivamente. I soldi erano pronti. Il Rape mi avrebbe accompagnato a Livorno, perché da solo l'impresa diventava impossibile. Nessuno sapeva della trasferta. Inventai un imprescindibile ripasso di geografia prima dell'interrogazione (che sarebbe difatti arrivata, l'indomani. Segno nefando l'interrogazione in geografia...).

 

Arrivati a Livorno, impiegammo circa un'ora e mezzo per trovare il negozio. Io avevo troppa fifa di chiedere alla commessa il cappello “SASH”, per di più di un modello preciso. Andava contro tutta la mia weltanschauung di allora.

Ancora una volta il Rape giunse in soccorso. Il mio massimo fu di entrare con lui. Le commesse erano addirittura due. Sembravano trenta volte più terribili e abominevoli di Scilla e Cariddi messe assieme. Anche perché, dandoci un'occhiata al volo capirono dai vestiti e dall'età che eravamo degli autentici pesci fuor d'acqua in quel negozio, e quindi si dedicarono al 20% alla nostra causa. Il Rape tentò di spiegare alla meglio il tipo di prodotto che cercavamo. L'una andò a controllare, l'altra restò a fissarci, mentre noi muti sentivamo pian piano mancarci il respiro.

Per fortuna la prima rientrò prima della scadenza dell'apnea. Aveva trovato il berretto. Sentii dentro di me aprirsi tutte le acque, e divenni per un nanosecondo cattolico apostolico romano.

Ma uno sguardo mi fece rapidamente capire che quel modello non andava bene. Non era sufficientemente invernale. La tipa sorrise, come se avessi sparato la più grande cazzata della storia. «Certo è primaverile. I modelli invernali non ci sono più da due settimane, siamo a fine marzo no?».

La mia comunione con Yavè svanì immediatamente. E fui talmente abbattuto che non riuscii neanche a chiedere se poteva cercare in magazzino. Io e il Rape mestamente abbandonammo la lotta.

In altri due punti vendita di un certo livello (ossia che avevamo sentito nella nostra vita almeno una volta) provammo a chiedere. Tempo sprecato.

Mi sentivo risucchiato da un'altra dimensione, quella della resa senza condizione.

Neanche la visita al più grande negozio di giochi di ruolo della provincia poté minimamente risollevarmi. Attaccai un pippone al Rape chiedendo cosa fare adesso. Quale strategia adottare prima di essere abbattuto dai miei...

E il Rape dopo una serie infinita di congetture mi consiglio di rivelare la verità. In cambio di uno sputtanamento notevole, mi sarei conquistato la pace interiore. Il treno partì e arrivò puntuale, nonostante i miei scongiuri per un deragliamento che avrebbe messo in pace i miei per settimane...

Al ritorno, nello scompartimento del treno, trovammo un portafogli dimenticato. Alla stazione andammo dai carabinieri, lo consegnammo senza nemmeno prelevare duecento lire. E mi chiesi come mai fossi stato tanto onesto...Stramaledii l'attuale possessore del mio berretto “SASH”, per generazioni e generazioni. Sapevo che qualche dio pagano avrebbe accolto la mia invettiva.

Mi salutai col Rape, che mi disse: «Pensa che domattina tutto sarà finito». Non era poco, in realtà. Tornando a casa a piedi feci la strada più lunga. Ma né Calipso né Nausicaa cercarono di fermarmi.

 

Era tardi, superata l'ora di cena. C'era a tavola un piatto di fagiolini e patate. Nei momenti chiave della mia adolescenza, pareva dovesse essere il cibo ricorrente.

Mio padre mi colse di sorpresa, mentre prendevo l'amaro boccone della sconfitta. Mi ricordava del berretto.

Ed improvvisamente, come se il mio demone si fosse risvegliato, risposi. Con un ritmo un po' singhiozzante, dissi che dovevano smetterla di angosciarmi per un dannato cappello. Si aprì la discussione. Si alzarono i toni e il volume.

Era la situazione in cui mio fratello amava infilarsi. E ancora oggi devo ringraziarlo.

Si fece spiegare l'intera faccenda da mio padre. Alla fine, con nonchalance, sentenziò: «Scusate (rivolgendosi ai miei ipotetici), ma la motivazione più plausibile qual è? Che l'ha perso, no?».

E qui mio padre replicò, come se da tempo si fosse posto la domanda: «No, perché sono sicuro che Valerio me lo avrebbe detto subito se fosse andata così. Non mentirebbe mai con noi».

Quindi era questo che pensavano?

Ora o mai più. Certo c'era un altro giorno a disposizione per fustigarmi e pregare che mi arrivasse la peste bubbonica, in grado di sviare l'attenzione dei miei. Ma qualcosa, chiamatelo istinto della disperazione, mi spinse a parlare.

L'orgoglio più inossidabile dell'acciaio mi fece sparare una delle più grosse panzane della mia vita. Per evitare di capitolare ammettendo di aver mentito, che nei codici cavallereschi era condannato come atto peggiore della menzogna stessa, tirai fuori che il cappello l'avevo era in casa da tempo, ma avevo deciso di non dirlo finché non avessero smesso di tormentarmi. E poiché quell'ultima settimana mi avevano proibito persino di andare in gita, l'avevo buttato via nella spazzatura.

 

Ancora oggi mi è difficile capire come avessi fatto ad inventare su due piedi quella storia. E ancora più complicato fu accettare che tutti, fratello compreso, se la fossero bevuta.

In appena due minuti, come Alessandro col nodo gordiano, avevo spezzato l'angoscia di un mese. Mia madre, talmente sconcertata, non pronunciò neanche una parola. Mi congratulai con me stesso per essere stato così fenomenale.

Per la prima volta da lunghissimo tempo dormii il sonno dei giusti. Gustando sotto le coperte la conclusione della tortura. L'indomani sarebbe stato un giorno nuovo. Ringraziai gli dei pagani per l'epilogo felice della tragedia.

Presi cinque a geografia, e il Rape rise per anni dopo il mio resoconto.

 

Da allora, ogni volta che un mio capo d'abbigliamento (mai più “SASH” nella mia vita) non si trovava, dicevo immediatamente a mia madre: «Non so dove sia finito». E lei ha continuato a rispondere sempre (anche se spesso veniva smentita dal ritrovamento del medesimo) che l'avevo senza dubbio perso.

  
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