Anime & Manga > Death Note
Segui la storia  |       
Autore: OtoyaIttoki    13/04/2012    3 recensioni
La figlia di un temibile serial killer e il figlio del più grande detective del mondo si incontrano fortuitamente all'insaputa dei propri padri, innescando così uno strano "gioco" del destino. A cosa porterà tutto questo?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Beyond Birthday, Naomi Misora, Near, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Noi essere umani siamo creature davvero strane.

Perché fatichiamo a cancellare dalla nostra memoria i momenti tristi e ci lasciamo sfuggire quelli felici (seppur brevi)?

Non dovrebbe funzionare come con i messaggi che si ricevono via cellulare? Cestiniamo quelli che ci fanno schifo e salviamo quelli che ci rallegrano.

Evidentemente non è una cosa altrettanto meccanica, e all’inizio credevo anche io che fosse facile gestire gli alti e bassi della mia vita.

Vivevo in un mondo tutto mio, in cui mi rinchiudevo per proteggermi dagli altri e per non venire ferita. Sì, perché io ho sempre odiato rimproveri et similia.

Mi consideravo inattaccabile ed immune al giudizio altrui.

Stupidità o ingenuità? Interpretatela a vostro piacimento.

Ero cresciuta nella convinzione (utopica, s’intende) che potessi andare d’accordo con tutti se avessi mantenuto una certa neutralità, ma non avevo fatto i conti con la Vita che, ben presto, mi ha mostrato la crudeltà di cui è capace, nello stesso modo in cui un croupier dichiara la vittoria del proprio avversario durante una partita di poker.

E’ stato come aprire la finestra di casa in pieno dicembre e ricevere una ventata d’aria gelida sul volto.

Casa. Ecco, probabilmente ritenevo casa mia un rifugio sicuro, un luogo dove gli altri non avrebbero scalfito la corazza che avevo faticosamente costruito nel corso degli anni. Eppure, oltre ad un soffice nido, si era pian piano trasformata nella mia prigione.

Non vedevo vie d’uscita, mi sembrava di essere nel bel mezzo di una galleria con i fari della macchina spenti.

Ciò nonostante il problema era mio e, orgogliosa com’ero (e come sono tuttora), volevo superarlo da sola.

Che presuntuosa.

All’epoca non sapevo cosa volevo e quali fossero le mie priorità: volevo avere il ragazzo perché in diciannove anni di vita ero sempre stata single? Volevo la considerazione degli altri o un amico vero?

Forse volevo solo che mia madre mi indicasse quale strada prendere, come aveva fatto fino a quel momento. Non ricevere un input da parte sua, mi aveva lasciata spiazzata e incapace di riflettere.

Poi, finalmente, capii.

Io non avevo mai vissuto. Gli altri avevano sempre deciso al mio posto e io mi ero accodata alle loro scelte, accontentandomi di essere una mera controfigura e non la protagonista della mia esistenza. Tuttavia, ho finto che tutto ciò mi andasse bene perché avevo paura di rimanere sola (anche se, me ne resi conto in un secondo tempo, lo ero già da allora).

Ebbene sì, la solitudine è la mia più grande paura.

Con le mie cosiddette amiche non ero mai riuscita ad essere me stessa e ad aprirmi completamente, perché loro non avevano guadagnato la mia fiducia.

La fiducia, una specie di punto bonus dei videogames che si ottiene dopo aver superato livelli parecchio complessi.

Complice anche il mio carattere non proprio facile, mi allontanai da tutto e da tutti per rinchiudermi nel mio castello incantato, dove ero l’indiscussa principessa.

«È colpa degli altri se mi sono trasformata in un’asociale.» pensavo continuamente, arrovellandomi il cervello. Complessi, paranoie e via dicendo scandivano ogni mia giornata che scorreva lentamente.

Ormai mi ero abituata alla solita, monotona routine: andavo a scuola, tornavo a casa, facevo i compiti e poi navigavo in Internet, cercando di essere consolata da qualcuno che potesse comprendermi veramente.

Sì, ero soddisfatta della mia “nuova” vita, o meglio mi cullavo nell’illusione che andasse tutto bene o che la mia situazione potesse arrivare ad una svolta. Avevo preso troppe batoste e non riponevo la benché minima speranza negli altri che mi avevano fatto diventare quella che ero: una persona perennemente nervosa, scontrosa e incapace di tessere qualsiasi rapporto sociale, persino quello più banale.

Avevo paura, paura di tutto.

Erano tutti cattivi per me, tranne mia madre che, nonostante la sua rigidità, mi aveva cresciuto con amore, senza farmi mancare mai nulla. Contavo troppo sul suo appoggio e faticavo, dunque, a crearmi una mia indipendenza, probabilmente perché mi faceva comodo così.

Continuavo a recitare la parte della ragazza modello educata e per bene, incassavo i commenti sarcastici altrui senza ribattere perché temevo gli altri, e alla classica domanda “come va?”, rispondevo sovente “tutto bene, grazie”, inserendo anche un sorriso preconfezionato per essere maggiormente credibile.

All’esterno apparivo perfetta sotto ogni punto di vista.

La figlia o l’amica che chiunque avrebbe bramato.

In realtà ero debole e desideravo soltanto che qualcuno cogliesse la mia muta richiesta d’aiuto. Mi vergognavo a parlare con gli altri dei miei problemi o delle mie passioni perché temevo che mi giudicassero, che mi reputassero strana.

Così come evitavo di contattare i miei compagni per uscire: aspettavo che fossero loro a fare il fatidico primo passo, e quando mi chiedevano di uscire, mi sentivo quasi obbligata ad andarci, giusto per non sentirmi diversa dagli altri miei coetanei.

Gli argomenti restavano invariati ogni volta che ci vedevamo: al tavolo delle ragazze si spettegolava sui trucchi, sui vestiti o sul figo della scuola, mentre in quello dei ragazzi i topic principali erano il calcio e le avventure sentimentali (la versione edulcorata di “scopate”).

Che noia tremenda.

Continuavo a guardare l’orologio, pregando che le lancette si muovessero velocemente e che qualcuno si alzasse e proponesse di rientrare.

Ricordo anche che la volta successiva mi inventavo qualche scusa, una febbre improvvisa o un imprevisto, per saltare l’uscita serale.

Chiamatela presunzione, ma ritenevo i miei compagni totalmente diversi da me: non avevamo niente in comune e mi ero stancata di fingere interesse verso i loro inutili discorsi, quindi perché perdere tempo con persone del genere?

Con i maschi, soprattutto, mi sentivo a disagio. Se mi facevano dei complimenti o tentavano di baciarmi, mi ritraevo all’istante, temendo che avrebbero riso della mia inesperienza. Invidiavo un po’ quelle che si lasciavano andare senza alcun tipo di remora.

Volevo essere più coraggiosa, migliore.

Da chi potevo prendere spunto?

Ancora una volta da mia madre, che aveva messo da parte la sua brillante carriera da poliziotta per crescermi. E aveva dovuto arrangiarsi da sola, dato che mio padre aveva ben pensato di sparire nel nulla, lasciandola sola con una bambina a carico.

Avrei voluto ripagarla per tutto ciò che aveva fatto per me, e allo stesso tempo volevo godere ancora delle sue attenzioni.

Che egoista che ero.

Forse, se avessi avuto mio padre accanto, lui avrebbe posto un limite a certi miei capricci. Mamma mi ha raccontato che era un poco di buono e che aveva fatto soffrire molte persone. Chissà se anche lei rientrava tra queste.

Non parlava mai esplicitamente di lui ed escogitava sempre un modo per tenere a freno la mia curiosità; però, una sera in cui era particolarmente di buonumore, si lasciò sfuggire un’informazione preziosa: scoprii che avevo ereditato da mio padre il colore dei miei occhi. Non possedendo sue fotografie su cui basarmi, fu un vero successo per me.

Decisi che da quel momento avrei impiegato il mio tempo libero a ricostruire la sua vita per avere sue notizie, ammesso che fosse ancora vivo e che fosse al corrente della mia esistenza.

Diciamo che mio padre fu un pretesto per accantonare momentaneamente i miei problemi che si stavano moltiplicando come i fogli sulla scrivania di una segretaria.

Necessitavo una valvola di sfogo per interrompere la piattezza dei miei pomeriggi e per staccare la spina dai compiti che, ormai, mi riducevo a fare in tarda serata.

Avevo perso ogni stimolo, mi sentivo vuota e inutile.

Non volevo deludere mia madre che credeva in me nonostante i miei momenti di sconforto, ma nemmeno io credevo in me stessa.

Semplicemente, mi odiavo. Sì, è vero che durante l’adolescenza capita di non piacersi, tuttavia il mio non accettarmi era ben radicato dentro di me.

Mi consideravo inferiore agli altri e non avevo fiducia nelle mie capacità.

La ricerca di mio padre era un pretesto per mettermi alla prova, per vedere cosa riuscivo a combinare con le mie sole forze. La mia determinazione ogni tanto sconfiggeva la timidezza che mi teneva in scacco e dava sfoggio di sé, fiera come una leonessa.

Speravo in qualche modo di capire cosa volessi dalla vita.

Anzi, lo sapevo già: desideravo avere vicino a me una persona che mi accettasse per quella che ero.

Una persona speciale tutta per me, da non dividere con nessuno; lo ammetto, se mi affeziono a qualcuno, tendo ad essere leggermente possessiva e gelosa (questo perché ho costante bisogno di essere rassicurata).

E la trovai.

Il fatto è che accadde tutto talmente in fretta che non ebbi nemmeno il tempo di metabolizzare e rendermi conto della piega inaspettata che aveva preso la mia vita. Volevo cambiare, ma avevo paura a mettere in un angolo la mia quotidianità.

Avevo finito il liceo da un anno e vagavo pigramente per le strade di Tokyo, la città natale dei miei nonni: il lavoro come commessa in un negozio di calzature non era affatto appagante e cercavo qualcosa che mi caricasse a livello personale e che fosse in linea con ciò che avevo studiato.

Fin da piccola, sono stata molto ambiziosa, tratto in comune che condivido con mia mamma e affermarmi personalmente sarebbe stato un traguardo importante per una perenne insicura come me.

Con un paio di curriculum tra le mani, passai sotto l’imponente torre televisiva e attraversai la strada per dirigermi verso delle aziende che avevano destato il mio interesse. Le vetrine dei negozi mi lasciavano del tutto indifferente, nonostante fossero colme di cartelli che indicavano sconti e ribassi.

Lo shopping poteva aspettare.

Le indagini per ritrovare mio padre procedevano, seppur lentamente, anche se la mia fantasia non aveva resistito a tracciare un suo ipotetico identikit: lo associavo ad uno di quegli impiegati sulla quarantina che rientra dal lavoro sbronzo e che non ha la minima considerazione della propria famiglia.

Tuttavia, molti misteri ruotavano intorno alla sua figura e, sotto un certo punto di vista, questo lo rendeva affascinante ai miei occhi.

Solo questo, precisiamo.

Non avevo certo dimenticato la sua assenza nella mia crescita e non potevo perdonarlo così su due piedi.

Non avevo certo dimenticato i pomeriggi chiusi in camera mia a singhiozzare e a invidiare le famiglie felici degli altri.

Come al solito, avevo la testa tra le nuvole e non mi accorsi che ero finita addosso a qualcuno.

«Mi scusi, ero sovrappensiero.» dissi prontamente, chinando il capo e alzando poi lo sguardo verso lo sconosciuto. Aveva i capelli bianchi e soffici, gli occhi dorati e si stava massaggiando lo stomaco. Era decisamente più alto di me e dovevo averlo urtato in quel punto.

Inizialmente lo scambiai per un anziano, ma dopo averlo osservato con più attenzione mi resi conto che, ad occhio e croce, doveva avere più o meno la mia età.

«E’ così strambo che pare uscito dal mondo di “Alice Nel Paese delle Meraviglie”.»

Non so per quale motivo, ma mi venne spontaneo trovare una vaga somiglianza con il Bianconiglio. La gente intorno a noi continuava imperterrita a camminare, senza badare minimamente alla nostra presenza.

Era questo il bello di Tokyo: riuscire a passare inosservati in mezzo alla moltitudine.

«Tranquilla, non mi sono fatto niente. Certo che hai proprio la testa dura, eh!» ribatté divertito, sfoggiando un ampio sorriso e fissando con curiosità i miei occhi.

Come osava prendersi gioco di me in quel modo? Inammissibile. Corrucciai le labbra, iniziando ad elencare mentalmente tutti i difetti possibili di quel ragazzo.

Sorriso da ebete, pessimo senso dell’umorismo e…camice da medico.

Ok, quello non era propriamente un difetto, però nutrivo una spiccata antipatia nei confronti dei medici e degli ospedali in generale, dovuta ad un episodio che mi era capitato da piccola.

Brutti ricordi.

«Bene, scusami ancora, orsacchiotto.» lo punzecchiai ironicamente, imitando il suo sorriso perfetto.

«Mmh, è la prima volta che qualcuno mi chiama così…» ribatté lui, grattandosi la testa imbarazzato « Ah, io sono…»

«Nia River.»

«Co-come hai fatto?»

«Ho semplicemente letto il nome sul cartellino.» gli risposi con semplicità, indicandoglielo. Mi scappò quasi da ridere, notando la sua espressione sbalordita, come se avessi risolto un’espressione difficilissima.

Sembrava un bambino che si stupiva di ogni cosa.

«G-già, è vero che stupido…» biascicò lui con una risatina nervosa. Ancora mi stupivo di come, a volte, riuscivo a mettere a disagio chi mi stava di fronte.

«Posso offrirti un caffè per farmi perdonare...» il ragazzo rimase un attimo in silenzio, dopodiché riprese a parlare, portandosi il dito indice sotto il mento «non mi hai ancora detto il tuo nome.»

Cavolo, stavolta mi aveva colto in flagrante. Come avevo potuto commettere un errore così madornale? Proprio io che badavo in maniera maniacale all’etichetta.

«Hai ragione, mi chiamo…» all’improvviso il mio cellulare prese a squillare piuttosto insistentemente. Era raro che qualcuno mi cercasse, soprattutto di mattina.

«Forse una delle mie colleghe ha bisogno di un cambio turno…»

«Scusami.» gli diedi un attimo le spalle e mi affrettai a rispondere alla chiamata.

Le parole del mio interlocutore mi suonavano lontane, ovattate.

Tutt’a un tratto mi sentivo pesante e la gola si era fatta secca.

Metabolizzare. Ecco cosa dovevo fare.

Logica. Ecco cosa dovevo adottare.

Pareva che non mi ricordassi più come si faceva a parlare e che il tempo intorno a me si fosse fermato, nonostante le persone continuassero a svolgere le loro attività quotidiane.

Solo io mi sentivo fuoriposto, un’estranea.

«Ehi, va tutto bene?» la voce calma e pacata di Nia mi giunse all’orecchio con qualche secondo di ritardo.

Mi voltai lentamente e meccanicamente verso di lui e gli toccai un braccio.

Non avevo idea di quale espressione aleggiasse sul mio volto in quel momento, ma doveva essere veramente terribile, dato che Nia sembrava quasi preoccupato per me.

«Portami subito all’ospedale, ti prego.»

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Death Note / Vai alla pagina dell'autore: OtoyaIttoki