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Autore: _Pulse_    13/04/2012    2 recensioni
All’improvviso lo rivide mentre guardava il fratello gemello e gli sorrideva con amore, mentre accarezzava il suo cane e rideva, mentre parlava, talmente in fretta che sembrava non avesse nemmeno bisogno di riprendere fiato, e le tratteneva sedute intorno al tavolo per un’ora, senza chiedersi se lo stessero ascoltando veramente, e capì, oltre a darsi la risposta alla domanda che si era posta molte e molte volte: “Perché mette a disposizione la sua casa e il suo tempo per i ragazzi stranieri, visto che di certo non lo fa per soldi?”. Quell’uomo era solo, maledettamente solo, e quella sera, come chissà quante altre prima d’allora, si era attaccato ai suoi ricordi, l’unica cosa che gli rimaneva.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autore: Ciao a tutti! :) Eccomi qui, sono ricascata dal mondo delle nuvole giusto per lasciarvi questa oneshot nata all’improvviso e scritta in pochissimo tempo, intensamente (rischiando la strigliata dei miei genitori che, come al solito, dicono che sto troppo tempo al computer a “cazzeggiare”). Quindi spero che il mio rischio e ciò che ne è venuto fuori sia piaciuto! ;D
Vi dico solo che ho mescolato la mia vera esperienza di stage in Germania (sono tornata circa una settimana fa!) e un po’ di fantasia… Okay, molta fantasia xD
Credo di aver detto tutto :) Non mi resta che augurarvi buona lettura!

I Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del loro carattere, né offenderli in alcun modo. 

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The heart has a language of its own

 

1° giorno, sabato

Beatrice aveva le cuffiette dell’mp3 nelle orecchie e stava ascoltando il suo gruppo coreano preferito, ma i suoi occhi castani ed attenti non si perdevano nulla di ciò che accadeva intorno a lei.

Federica, la sua unica compagna di classe in quella comitiva di studenti nonché sua futura compagna di stanza, era seduta accanto a lei e con la testa posata sul finestrino continuava a sbuffare, borbottando ogni cinque minuti che non ne poteva più del pullman e di Luigi, l’autista, che con le sue soste inutili e lunghissime li aveva costretti ad un viaggio di dodici ore strazianti.
Anche le tre professoresse accompagnatrici, sedute tutte intorno a loro due, ne avevano fin sopra i capelli ed erano piuttosto scocciate di aver dovuto chiamare la preside della scuola in cui avrebbero dovuto seguire un corso di dieci giorni per avvertirla del ritardo.
“I tedeschi erano sempre così puntuali! Gli italiani, invece, dovevano sempre farsi riconoscere”.

La prof che aveva tenuto i contatti con la scuola ospitante ed organizzato la maggior parte dei dettagli del soggiorno studio, quella che le altre due prof chiamavano “la nostra Reiseleiterin” (guida, in pratica), si alzò in piedi e barcollò fino al microfono posizionato sul cruscotto.

«Allora, ragazzi… un attimo di attenzione, per favore».

Beatrice spense l’mp3 e si tolse le cuffie, stiracchiandosi come un gatto sul sedile e sbadigliando. La prof la guardò ed arricciò il naso, allora lei si affrettò a portarsi una mano di fronte alla bocca e a tornare composta, un sorrisino imbarazzato sulle labbra.

«Siamo quasi arrivati alla scuola. Prima che scendiate in massa come delle capre vi avverto già che dovrete pazientare ancora un po’ e stare seduti ai vostri posti, perché la preside salirà sul pullman e vi chiamerà uno ad uno per consegnarvi gli abbonamenti per i mezzi di trasporto. Poi saremo noi a chiamarvi ancora, questa volta per camera, e vi affideremo alle vostre famiglie. Mi raccomando…», sospirò e lasciò in sospeso la frase, portandosi una mano sulla fronte. Poi riprese: «Domani mattina, visto che è domenica, inizieremo a visitare la città. Non è un paesino, quindi per favore fatevi spiegare bene la strada per arrivare fino alla scuola e fate attenzione a non prendere i mezzi sbagliati, o potreste anche finire dalla parte opposta».

«Rassicurante come al solito», mormorò Beatrice sorridente, rivolgendosi alla compagna, la quale annuì con un cenno del capo.

«Ricapitolando, domani ci vediamo di fronte alla scuola alle nove. Puntuali, okay?».

Un coro omogeneo di voci prevalentemente femminili intonò: «Sì, prof!».

La professoressa mise a posto il microfono, che come al solito fischiò, e poi tornò a sedersi.

Beatrice iniziò a prepararsi, infilandosi le maniche del giubbotto e mettendo nelle tasche tutti i suoi oggetti personali, tra cui il suo preziosissimo mp3, per essere sicura di non dimenticarsi nulla. Poi cercò di rilassarsi guardando fuori dal finestrino oltre la testa di Federica, ma la sua mente e il suo stomaco in subbuglio, sia per il viaggio che per l’eccitazione di scoprire come fosse la famiglia a cui era stata destinata, non le permisero di staccare la spina, anzi la fecero sentire ancora di più sulle spine.

Kaulitz. Sapeva soltanto quello, il loro cognome.
Molte volte, ancor prima della partenza, aveva provato ad immaginarsi un viso, se appartenesse ad un lui o una lei, se avesse dei figli o meno… E ogni volta aveva sperato cose diverse, senza giungere ad un risultato definitivo. A quel punto si era detta che si sarebbe adattata a tutto, a patto che fossero persone disponibili e simpatiche.

«Oddio, sono quelli?».

Beatrice levò il capo ed osservò la sua compagna mettersi in ginocchio sul sedile per vedere meglio fuori dal parabrezza, poi la imitò. Il suo sguardo si posò immediatamente sul capannello di persone di fronte ad un edificio in stile art-deco, la scuola, e il cuore iniziò a batterle più velocemente nel petto, mentre anche tutti gli altri studenti si alzavano in piedi per guardare fuori dai finestrini e scambiarsi i loro pareri e le loro speranze.

«No, il bambino io non lo voglio! Guarda come strilla!», gridò una ragazza qualche sedile dietro Beatrice, che voltò subito il capo e lo vide in braccio ad una donna robusta e coi capelli biondi lunghi fino alla schiena.

«Speriamo non sia la nostra», disse Federica, torturandosi il labbro. «Vorrei dormire la notte».

Beatrice represse una risata e continuò la sua ispezione tra i volti, incurante del pullman che si era fermato e delle professoresse che salivano e scendevano per coordinare le varie operazioni. Oltre alla madre con il bambino, c’erano due coniugi anziani, un uomo piuttosto giovane con un bel labrador legato al guinzaglio, due uomini a cui non diede più di cinquant’anni che stavano bevendo un caffè appoggiati al tavolino fuori da una specie di panetteria, tre signore anziane che parlottavano tra loro e ricambiavano incuriosite gli sguardi che gli stavano rivolgendo alcune ragazze sul pullman.

«Silenzio!», gridò la professoressa Rüfer, nata a Düsseldorf e da qualche anno insegnante di conversazione nel liceo di Beatrice.

Federica tirò giù a sedere la compagna e quest’ultima si rese conto della persona di mezz’età che si era piazzata a fianco a loro con un pacco di tessere in mano e il microfono: la preside del DID-Deutsch Institute di Amburgo.

Quando ci fu abbastanza silenzio, la preside sorrise ed iniziò a parlare in tedesco senza preoccuparsi di farsi capire dai poveri ragazzi italiani che avevano viaggiato per quasi tredici ore. Beatrice afferrò qualcosa, ma la curiosità di vedere in faccia la persona con cui avrebbe vissuto per le prossime due settimane era decisamente troppa per prestare la massima attenzione. E poi le prof avrebbero sicuramente ripetuto quelle stesse cose, in italiano, un altro milione di volte!
Finito il discorso di benvenuto, la preside distribuì le tessere e gli abbonamenti per i mezzi di trasporto. Conclusa anche quella confusionaria operazione, le prof presero in mano la situazione e chiamarono per cognome tutti i ragazzi per consegnarli come pacchi alle famiglie.

Beatrice, impaziente, chiuse gli occhi e sperò con tutte le sue forze di non essere l’ultima. Qualcuno evidentemente l’ascoltò, perché il suo fu il quinto o il sesto urlato dalla professoressa.
«Sì, siamo qui!», gridò alzandosi in piedi e raggiungendo per prima la professoressa Rüfer giù dal pullman, che le avvolse un braccio intorno alle spalle ed incitò lei e Federica a seguirla tra la folla.

Beatrice osservò tutti i visi che incontrò, sorridendo a quelli che le sembravano rispecchiare le caratteristiche della sua “famiglia perfetta” e chiedendosi ogni volta se era di fronte a quella o quell’altra persona che si dovevano fermare.
Alla fine il momento tanto atteso arrivò e Beatrice incrociò gli occhi nocciola di uno dei due uomini che aveva visto col caffè al tavolino fuori dalla panetteria. 
L’uomo si passò una mano tra i capelli tirati all’indietro sulla testa e le sorrise, per poi fare lo stesso con la sua compagna, mentre la prof le presentava: «Herr Kaulitz, ecco qua le sue ragazze: Beatrice e Federica».

«Piacere di conoscervi», disse in modo affabile e gentile, stringendo la mano prima ad una e poi all’altra. Beatrice, non sapendo come ricambiare la cortesia in tedesco, gli rivolse un sorriso.

«Adesso scusatemi, ma devo occuparmi degli altri ragazzi», disse la prof Rüfer. Poi si rivolse alle due ragazze: «Siete in buone mani, non preoccupatevi».

L’uomo sorrise e salutò la professoressa, ringraziandola. Ora la sua attenzione si sarebbe posata interamente su di loro e Beatrice avrebbe avuto l’onore di capire un po’ meglio che persona fosse in base alla prima cosa che gli avrebbe detto senza la presenza della prof, ma questo non accadde perché il signor Kaulitz guardò oltre le loro spalle e sorrise. Fu un sorriso completamente diverso rispetto a quello che aveva rivolto a loro o alla prof, più carico d’amore. Beatrice si voltò, chiedendosi per chi fosse, e scorse l’uomo che aveva visto fargli compagnia prima che la preside salisse sul pullman.

Non mi dire che ci è capitata la coppia gay, pensò osservando attentamente anche il sorriso dell’uomo che una volta attraversata la strada aprì il pacchetto di sigarette nuovo.

«Sono arrivate, finalmente!», esclamò e nonostante la sigaretta che si era infilato fra le labbra e il fatto che si fosse messo a ridacchiare, Beatrice riuscì a capirlo. Come capì la frase seguente, accompagnata da un sorriso malizioso: «Questa volta due ragazze carine, eh?».

«Mi è andata bene», rispose il signor Kaulitz scrollando le spalle.

«Oh mio Dio, ma che cosa vogliono questi da noi?», piagnucolò a bassa voce Federica, prendendo il braccio della compagna.

Beatrice, stufa di stare ad ascoltare i loro discorsi e di essere presa come quella che tanto non capiva, si schiarì la voce e cercò lo sguardo del signor Kaulitz, che subito scosse il capo e disse: «Lui è mio fratello gemello Tom. Tom, loro sono…».

«Beatrice e Federica», disse Beatrice, stringendo la mano all’altro signor Kaulitz e notando che, in effetti, si somigliavano parecchio ed avevano gli stessi intensi occhi color nocciola.

«Bene. Hai bisogno di una mano con i loro bagagli? Altrimenti me ne andrei a casa…».

Il signor Kaulitz ancora senza nome guardò le due ragazze e notò che non avevano con loro alcun bagaglio. «Sarà meglio che andiate a prendere le vostre valigie».

«Oh, sì», disse Federica, che aveva afferrato il significato delle sue parole un momento prima di Beatrice. 

Insieme si avviarono verso il pullman e si fecero spazio tra i loro compagni, poi con un po’ di fatica tirarono giù i loro trolley, di modeste dimensioni ma pieni fino all’orlo, e li trascinarono dai gemelli, i quali le condussero fino all’auto, un’Audi bianca molto elegante che fece subito ben sperare Federica sull’agiatezza economica del loro “papà tedesco”.
I Kaulitz li caricarono nel baule, che ovviamente non si chiuse, e dopo aver salutato le professoresse ed averle avvertite della loro partenza, le ragazze si misero sedute comode sui sedili di pelle: Beatrice al posto del passeggero e Federica sul sedile posteriore.

Anche il signor Kaulitz si stava per mettere al volante, ma il fratello lo prese per una spalla e scoppiò a ridere guardandolo in faccia: «Che fai, non mi saluti?». Lo abbracciò, dandogli qualche pacca sulla schiena, poi si sporse dentro l’auto per salutare Beatrice e Federica.
«È stato bello conoscervi! Magari ci vedremo qualche altra volta. Spero che Amburgo vi piaccia!».

«Grazie, arrivederci», risposero in coro. Poi, finalmente, il signor Kaulitz entrò in auto e mise in moto.

In un primo momento fu strano per Beatrice sentire lo speaker alla radio parlare in tedesco, ma si abituò presto e non vi fece neanche più caso, con lo sguardo perso fuori dal finestrino, ad ammirare gli edifici, i negozi, i condomini, le villette, simili ma così diversi da quelli che era abituata a vedere nel suo paese.

Ad un certo punto il signor Kaulitz disse qualcosa, ma Beatrice non capì e gettò uno sguardo a Federica per sapere se almeno lei aveva decifrato qualche parola, ma niente. Imbarazzata, tentò di spiegare che non aveva capito.

L’uomo allora si espresse con altre parole, più semplici: «Non parlate. Siete sempre così silenziose?».

«Ah!», esclamò Beatrice. Ora aveva capito. «No, no… non so cosa dire».

Il signor Kaulitz sorrise. «Quanti anni avete?».

«Diciotto. Lei diciannove».

«E dove abitate?».

«Milano. Non in centro, ma…».

«In un paese vicino?».

«Sì».

«Ho capito. C’è qualcosa che non potete mangiare, qualcosa a cui siete allergiche?».

Beatrice e Federica si guardarono, ma a differenza di Federica che era quasi sconvolta dal modo in cui il signor Kaulitz saltava di pane in frasca, Beatrice era molto divertita e rispose col sorriso sulle labbra: «No, siamo a posto».

«Perfetto! Anzi no».

Federica aggrottò la fronte. «Perché?».

«Perché anche io adesso non so cosa dire».

Beatrice scoppiò in una risata sincera e a quanto pare anche contagiosa, perché il signor Kaulitz la imitò. Lo guardò coprendosi la bocca con una mano e decise: gli stava decisamente simpatico.

 

Il signor Kaulitz aprì la porta della sua villetta e si fece da parte per farle entrare per prime.
«Eccoci a casa. Benvenute».

Beatrice e Federica trascinarono i loro bagagli all’interno e si fermarono nel bel mezzo dell’ampio corridoio da cui si vedevano la cucina, il salotto e la scalinata che portava al piano superiore.
Beatrice osservò le scale e sospirò, giusto un momento prima che il signor Kaulitz dicesse loro: «La vostra camera si trova al piano di sopra».

«Ecco, lo sapevo», biascicò Federica, mentre cercava di sollevare il suo trolley per la maniglia. L’uomo, vedendola in difficoltà, l’aiutò; Beatrice, invece, riuscì a portarsela da sola, anche se rischiò un’ernia o qualcosa del genere.

Il signor Kaulitz aprì una tra le diverse porte che davano sul corridoio, quella volta più stretto, e gli mostrò la loro camera da letto. Si trattava di una stanza di grandezza normale, forse un po’ più grande di quella di Beatrice a casa sua, ma i letti erano a castello. Un grande armadio era posizionato contro una parete e contro l’altra c’era una scrivania con una lampada e una sedia girevole.

«Scusatemi, ma oggi non ho avuto tempo di fare i vostri letti. Riuscite a farveli da sole?».

Beatrice e Federica scrollarono le spalle, annuendo. Il signor Kaulitz tirò fuori da un ripiano dell’armadio un paio di federe, due coprimaterasso e quelle che a prima vista sembrarono lenzuola.

«Poi… Ah, la porta qui a sinistra è il bagno. Io non lo uso mai, perché io ho il mio nella mia camera, quindi potete usarlo come e quando volete».

«Okay, grazie».

«Magari dopo vi mostro il resto della casa, adesso rilassatevi». Con un sorriso di commiato fece per uscire dalla camera e chiudersi la porta alle spalle, quando aggiunse all’improvviso: «A che ora preferite cenare? So che in Italia si mangia più tardi…».

Beatrice non aveva afferrato proprio tutto quello che aveva detto, ma aveva capito che voleva sapere l’ora della cena, quindi rispose: «Sette e mezza, otto?».

«Uhm, va bene. Vi chiamo quando è pronto».

«Bene, grazie».

Una volta rimaste sole, Federica e Beatrice fecero una rapida ispezione della camera e la trovarono pulita. Poi decisero di iniziare a fare i letti, ora che ne avevano ancora la forza necessaria.

«Nemmeno i letti ci ha fatto», borbottò Federica. Sollevò quelle che avevano scambiato per lenzuola e le guardò, confusa. «Ma queste cosa sono?».

Beatrice si avvicinò e le esaminò. «Sono aperte, mi sa che qui dentro ci devi mettere il piumone…».

«Oh, fantastico. Hai visto il cuscino? È quadrato!».

«Ed è mollissimo», constatò Beatrice, affondandoci dentro una mano. «Si piega in due!».

«Sarà scomodissimo comunque».

Beatrice ridacchiò, tirando su un coprimaterasso. «Uh, velluto rosa!».

«Idiota. Chi dorme sopra? Io ho paura dell’altezza».

«Okay, ci dormo io». Beatrice salì la scaletta e la struttura iniziò a cigolare e a dondolare in maniera poco rassicurante. Solo quando raggiunse il materasso e vi fu seduta sopra, ferma immobile, quella specie di terremoto si arrestò.

«Wow, di bene in meglio!», esclamò Federica. «Speriamo che almeno a cucinare sia bravo».

«Beh, sembra vivere da solo, quindi in qualche modo dovrà pur cavarsela, no?». Beatrice si mise in equilibrio sulla scaletta ed allungò una mano verso la compagna, quando il suo sguardo si posò fuori dalla finestra, nel giardino: il signor Kaulitz, piegato sulle ginocchia, rideva e faceva la coccole al suo cane, un Weimaraner dal pelo nero e corto.

«Bea? Ehi, ti sei incantata?».

La ragazza scosse il capo e borbottò, ancora soprappensiero: «Passami il coprimaterasso, va’».

 

*

 

6° giorno, giovedì

Beatrice si mosse troppo nel letto e il cigolio fu talmente forte che si svegliò di colpo, aggrappandosi con una mano alla ringhiera paracadute. Quando si rese conto di quello che era successo e constatò che era ancora notte fonda, sbuffò e si passò le mani sul viso e fra i capelli arruffati, stanca.

Erano passati già sei giorni dal loro arrivo ad Amburgo e fino ad allora non avevano mai avuto del tempo libero, sempre impegnate con la scuola alla mattina e con le visite alla città, ai musei e a tutto ciò che poteva venire in mente alle prof, al pomeriggio. Una volta a casa avevano soltanto la forza di cenare, farsi la doccia ed infilarsi sotto le coperte, anche se ci mettevano sempre un po’ ad addormentarsi.

Il signor Kaulitz, che Beatrice aveva subito preso in simpatia, si era dimostrato un padrone di casa molto disponibile e comprensivo, nonché un cuoco niente male. Il suo unico difetto – perché la sua stravaganza in fatto di vestiti non poteva di certo contare! – era la logorrea: quando iniziava a parlare, infatti, non la finiva più. Una volta le aveva tenute a tavola per un’ora, o qualcosa di più, e per i tre quarti del tempo aveva parlato lui. Ovviamente, se le ragazze avevano spiaccicato solo qualche parola, era perché ci avevano capito poco o niente di tutto il suo monologo.

Beatrice chiuse gli occhi e provò e riprovò a riaddormentarsi, cercando di trovare la posizione più comoda senza fare troppo rumore e sistemandosi in continuazione il cuscino sotto la testa, ma appena sembrò riuscirci capì di avere la gola secca e un irrefrenabile bisogno d’acqua.

«Oh, merda», biascicò e si levò con rabbia le coperte di dosso, poi con la massima cautela si avventò a scendere la scaletta illuminando un po’ l’ambiente con il cellulare. I cigolii e i dondolii non ebbero fine, ma Federica fortunatamente non si svegliò.

Beatrice raggiunse il proprio zainetto e tirò fuori la bottiglietta d’acqua per portarsela alle labbra e finalmente tornare a dormire, ma scoprì con irritazione che era vuota. Allora si tirò su in piedi ed uscì dalla camera stringendosi nel suo stesso abbraccio, desiderosa del calore del suo letto. Scese lentamente le scale e notò una luce soffusa provenire dal salotto. Si portò immediatamente le mani sui capelli, per renderli un po’ più presentabili, ma la vergogna non se ne andò: era comunque in pigiama! Ebbe la forte tentazione di tornare indietro, ma ormai tanto valeva chiedere direttamente al signor Kaulitz se poteva darle un bicchier d’acqua.

Lo vide seduto sul divano, avvolto in una vestaglia di seta blu, che alla luce di una lampada da terra e con gli occhiali sul naso sfogliava un grande album fotografico. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso appena accennato, ma Beatrice capì subito che era venato di malinconia. Ne ebbe la piena conferma quando l’uomo si accorse della sua presenza ai piedi delle scale e la osservò stupito, togliendosi gli occhiali dal viso: anche i suoi occhi, di solito così caldi e solari, erano ombreggiati da un velo di tristezza, di lacrime.

«Io, io…», balbettò Beatrice, sentendosi così in imbarazzo, tanto che ebbe la sensazione di avere il viso in fiamme. Il signor Kaulitz cambiò completamente espressione, dopo quell’attimo di sorpresa, e le rivolse un sorriso dolce.

«Hai bisogno di qualcosa? Freddo?».

«No, io… acqua».

«Ah, hai sete!», la corresse divertito e si alzò dal divano, le passò accanto e si diresse in cucina, seguito da Beatrice. Prese due bicchieri dalla credenza e li riempì d’acqua, poi ne passò uno alla ragazza, mentre l’altro se lo portò con sé in salotto e lo appoggiò al tavolino, accanto all’album.

Beatrice bevve un poco, ma essendo acqua di frigorifero fu costretta a tenerla fra le mani, aspettando che diventasse tiepida. Intanto posò di nuovo lo sguardo sull’uomo che, proprio come se lei non ci fosse, aveva ripreso a sfogliare le pagine con la stessa aria nostalgica.
Avrebbe potuto benissimo mettere il bicchiere nel lavello, ringraziarlo, augurargli una buona notte, tornare in camera sua e mettersi di nuovo sotto le coperte, ma sapeva benissimo che non sarebbe riuscita a chiudere occhio, col rimorso di non avergli nemmeno chiesto se stava bene, se aveva bisogno di compagnia.

All’improvviso lo rivide mentre guardava il fratello gemello e gli sorrideva con amore, mentre accarezzava il suo cane e rideva, mentre parlava, talmente in fretta che sembrava non avesse nemmeno bisogno di riprendere fiato, e le tratteneva sedute intorno al tavolo per un’ora, senza chiedersi se lo stessero ascoltando veramente, e capì, oltre a darsi la risposta alla domanda che si era posta molte e molte volte: “Perché mette a disposizione la sua casa e il suo tempo per i ragazzi stranieri, visto che di certo non lo fa per soldi?”. Quell’uomo era solo, maledettamente solo, e quella sera, come chissà quante altre prima d’allora, si era attaccato ai suoi ricordi, l’unica cosa che gli rimaneva.

Beatrice chiuse gli occhi e sospirò lievemente, poi si fece coraggio e lo raggiunse in salotto. Si fermò in piedi al suo fianco, il bicchiere ancora mezzo pieno tra le mani, e gettò un’occhiata all’album: non era un album fotografico, o almeno non erano tutte fotografie quelle all’interno delle pagine trasparenti, ma anche articoli di giornale ritagliati minuziosamente, piccoli poster, cartoline, un’elica probabilmente appartenente ad un aeroplanino telecomandato…

Distolse lo sguardo ed incrociò quello del signor Kaulitz, che la stava già osservando senza capire ciò che potesse volere ancora. Mai, mai si sarebbe immaginato che in realtà era solo preoccupata per lui.

«Tutto okay?», gli chiese, perché chiedergli se stava bene era fin troppo complicato a quell’ora di notte. Sperò soltanto che capisse ciò che intendeva.

L’uomo guardò l’album aperto sul tavolino e si fece forza per non commuoversi. «È molto tardi, domani dovete alzarvi presto per andare a scuola, dovresti…».

Beatrice lasciò il bicchiere sul tavolino e si sedette al suo fianco quasi con irruenza, interrompendolo: «Chi sono i…», si chinò in avanti per leggere meglio i caratteri piccoli a descrizione di un poster, «Tokio Hotel?».

Il signor Kaulitz chiuse gli occhi sentendo quel nome e poi accennò un sorriso amaro. «Sono così vecchio che non riesci a riconoscermi?».

Beatrice credette di aver capito male, ma quando riportò lo sguardo su quei quattro ragazzi in posa per il fotografo, l’occhio le cadde inevitabilmente sul ragazzo in centro, con una capigliatura bizzarra, da porcospino, un sorriso dolce ed ampio e due occhi caldi, color nocciola.

«Lei è… Questo ragazzo è…», balbettò Beatrice, incredula ma ormai sicura al cento per cento che si trattasse proprio dell’uomo che le aveva accolte in casa sua.

«Bill Kaulitz, cantante e leader dei Tokio Hotel, band pop-rock tedesca famosa in tutto il mondo quando forse i tuoi genitori erano adolescenti. Eccomi qua».

Mille interrogativi nacquero nella mente di Beatrice, ma il primo che riuscì a tradurre in parole fu: «Questo è suo fratello?», indicando il ragazzo dagli stessi occhi castani accanto a lui.

«Da cosa l’hai riconosciuto?», domandò Bill ridacchiando.

Beatrice pensò che fosse un vero peccato che in tedesco non fosse in grado di dare la stessa sfumatura rispetto a ciò che avrebbe detto in italiano, ovvero che l’aveva riconosciuto grazie a quel suo sorriso malizioso che gli aveva visto anche la prima ed unica volta in cui l’aveva incontrato. Quindi si portò le dita ai lati delle labbra e si allargò un sorriso. Bill scoppiò in una risata più sincera, davvero divertito, e la ragazza fu felice di averlo distratto dai suoi ricordi che sembravano più che altro affliggerlo, per un motivo a lei ancora sconosciuto.

«Vieni, voglio farti vedere una cosa».

Bill si alzò e Beatrice lo seguì lungo il corridoio buio, incuriosita e per nulla spaventata dalla situazione. Giunsero di fronte alla porta che aveva sempre visto chiusa e l’uomo l’aprì, spostandosi per farla entrare per prima. Il suo viso estasiato non ebbe bisogno di traduzioni.
Alle pareti laterali erano appesi decine e decine di dischi d’oro e di platino per tutti gli album venduti, la grande libreria alla parete di fronte a loro si era trasformata in una grande teca per conservare l’infinità di premi ricevuti, tutti diversi l’uno dall’altro e provenienti da parti diverse del mondo. 
“La stanza dei trofei”, così avrebbe dovuto chiamarla, con tanto di targhetta sopra la porta, ma Beatrice ebbe la sensazione che l’avesse aperta solo per lei dopo anni ed anni in cui aveva tentato di rinchiudervi lì dentro un’altra valanga di ricordi dolorosi.

Posò lo sguardo sul signor Kaulitz, che si era avvicinato alla libreria ed aveva iniziato a sfiorare con le dita alcune delle mensole, sporcandosi le dita di polvere.

«La band…», iniziò a dire Beatrice, con voce incerta. «Herr Kaulitz, i Tokio Hotel…».

«Chiamami Bill, per favore». Si voltò di scatto verso di lei e la prese delicatamente per un polso, poi la portò con sé fuori dalla stanza e chiuse la porta con forza, sbattendosela alle spalle.

Beatrice, scossa, lo guardò mentre si dirigeva di nuovo verso il salotto e le sembrò improvvisamente più magro ed ingobbito, come se un nuovo peso si fosse depositato sulle sue spalle già fragili.

La ragazza lo raggiunse quasi di corsa, col viso rosso d’imbarazzo, ed aprì la bocca per scusarsi e correre a rifugiarsi nella sua camera, ma il signor Kaulitz, di nuovo seduto sul divano e con gli occhi posati nelle mani, disse: «La band si è sciolta molti anni fa. Io l’ho sciolta, io ho distrutto la vita che amavo con le mie stesse mani».

Beatrice, con le lacrime agli occhi nel cogliere il suo dolore ora senza alcun velo, si avvicinò e si sedette di fianco a lui sul divano, posandogli delicatamente una mano sulla spalla. Bill vi appoggiò sopra la propria e la strinse forte.

«E la cosa peggiore è che ho perso i miei migliori amici».

 

*

 

8° giorno, sabato

«Bea? Ehi, Bea, dobbiamo scendere».

Beatrice si riscosse e seguì velocemente Federica giù dall’autobus.

«Pazzesco, sei riuscita ad addormentarti nonostante da casa alla scuola ci siano solo tre fermate! Non hai dormito bene nemmeno questa notte, vero?».

La ragazza annuì e si massaggiò gli occhi stando attenta a non sbavare tutto il trucco.
Federica pensava che non dormisse bene a causa del letto scomodo e del cuscino troppo molle, per non parlare poi del cane del signor Kaulitz che a volte si metteva ad ululare nel cuore della notte – cosa del tutto falsa, inventata per dare più credibilità alla sua evidente stanchezza e al suo morale non proprio alle stelle. Il vero motivo per cui non riusciva a dormire bene, o non dormiva affatto, era la confessione che Bill le aveva fatto due notti prima, il rimpianto che aveva visto nei suoi occhi… Quegli occhi l’avevano colpita tanto a fondo da farle pensare incessantemente a cosa potesse fare lei, una ragazza qualunque arrivata in Germania per uno stage linguistico e che era finita, per puro caso, nella casa di un’ex rock-star, un uomo solo che avrebbe fatto qualsiasi cosa solo per avere i suoi migliori amici accanto e che aveva aperto il suo cuore ferito proprio a lei.

 

«Tutto è iniziato quando mio fratello ed io ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, a Los Angeles per la precisione. Avevamo deciso di andare via da Amburgo per via di alcune fan che si erano trasformate in stalker e poi anche per seguire da più vicino il processo di produzione del nostro nuovo album; pensavamo che sarebbe stata una cosa momentanea, ma alla fine non siamo più tornati indietro. Il rapporto con gli altri due componenti della band, Georg e Gustav, si è lentamente deteriorato, oltre che per la distanza per… sì, a causa nostra. Io e Tom eravamo cambiati – soprattutto io ero cambiato, pensavo di avere il mondo ai miei piedi – e abbiamo messo un po’ da parte il nostro lavoro, nonostante avessimo loro due e i nostri fan a cui pensare… Siamo andati un po’ fuori strada, ecco. Quando finalmente è uscito il nuovo album, nessuno ne era pienamente soddisfatto. Ovviamente io, essendo un perfezionista di natura, ero quello più scontento e dolente, mi lamentavo per qualsiasi cosa e alla fine sono arrivato a criticare il lavoro dei miei amici. Abbiamo litigato come non avevamo mai fatto, con così tanta rabbia, dicendoci delle cose orribili, e mio fratello… ah, Tom, quello stupido, mi ha difeso».

Beatrice aspettò qualche secondo, in attesa che il suo racconto riprendesse, ma gli occhi di Bill erano fissi sul poster nell’album fotografico, nonostante fossero colmi di lacrime. Allora con delicatezza disse: «Quindi anche Tom non parla più con loro?».

«Uhm? No, Tom… Tom ha fatto pace con loro dopo un anno e mezzo, quasi subito se facciamo un paragone con me».

«E perché lei non…?».

«All’inizio fu per orgoglio, un maledetto orgoglio che non aveva mai raggiunto quelle dimensioni prima d’allora. Poi, quando ho visto mio fratello fare un passo indietro e rivolgersi ai nostri vecchi amici mi sono sentito tradito, ma allo stesso tempo ferito, perché ero certo che loro non mi avrebbero mai perdonato, non dopo tutto quello che gli avevo detto e come mi ero comportato… Gli anni sono passati velocemente e anche quando mi dicevo che probabilmente il tempo aveva fatto il suo corso e rimarginato le ferite, tanto da poter fare un tentativo, capivo che non avrei mai potuto farcela: prima di chiedere scusa e far pace con loro dovevo fare pace con me stesso, cosa che tutt’ora… non sono riuscito a fare».

«Io penso…», Beatrice si morse la lingua perché non sapeva come dirlo e sospirò, poi iniziò a dire tutte le parole che conosceva sperando che il suo interlocutore riuscisse a costruire un discorso di senso compiuto: «Tu non puoi da solo. Con gli amici. Loro possono…», indicò il petto dell’uomo con un dito, poi fece finta di sospirare di sollievo con un sorriso sulle labbra, raccogliendo entrambe le mani all’altezza del cuore.

Bill rimase in silenzio per un po’, gli occhi fissi di fronte a sé. All’improvviso sorrise e le posò una mano sul ginocchio, dandogli qualche pacchetta. «È tardi, vai a dormire adesso».

Beatrice sospirò e si alzò dal divano, prese il suo bicchiere d’acqua dal tavolino e lo svuotò, poi si diresse verso le scale. Salì i primi due gradini e voltando il capo verso di lui lo vide ancora alle prese col suo album, del quale sfogliava instancabilmente le pagine.

«Buona notte», sussurrò.

 

Il suo continuo rimuginarci sopra aveva dato i suoi frutti, o almeno una qualche specie, ma non era certa della loro reale attuazione. Aveva pensato di chiedere aiuto al fratello gemello di Bill, Tom, così da reperire con più facilità i numeri di cellulare dei vecchi amici dell’ex-cantante, ma anche se li avesse ottenuti – non era detto che Tom sarebbe stato d’accordo e glieli avrebbe dati senza alcun problema – restavano diversi piccoli ma enormi problemi da risolvere, primo di tutti la lingua. Sì, insomma, il tedesco lo capiva abbastanza bene e poteva snocciolare qualche frase, ma sostenere un’intera conversazione con persone che tra l’altro non conosceva per convincerli a fare pace col suo “papà tedesco”, a cui si era affezionata più di quanto avrebbe realmente voluto, solo perché glielo chiedeva lei, una ragazzina sconosciuta piombata nelle loro vite per puro caso… Beh, si rendeva pienamente conto che c’era la possibilità, se non la certezza, che la mandassero a quel paese. Ma doveva provarci, doveva fare assolutamente qualcosa, o avrebbe continuato a sentire quel peso sul cuore per il resto della sua vita.

Beatrice alzò il viso verso il cielo illuminato dal sole e si fece ombra sugli occhi con un braccio, poi si guardò intorno respirando profondamente e seduto all’interno di un bar, che faceva tranquillamente colazione con un caffè e una brioche, riconobbe Tom.

Non è possibile… Questo è un segno del destino!

Federica la guardò aggrottando la fronte. «Bea, che ti prende? Perché adesso ti sei fermata?».

«Ahm… devi farmi un favore».

«Un favore? E quale?».

«Coprimi». Detto questo Beatrice attraversò la strada di corsa ed entrò nel bar, senza badare alle urla della sua compagna che, incredula, aveva tentato di fermarla appellandosi al fatto che rischiava di arrivare in ritardo alle lezioni.

La ragazza si sistemò lo zainetto sulle spalle, trovando conforto nel piacevole calore all’interno del locale, e facendosi coraggio raggiunse il tavolo a cui era seduto Tom.
«Buon giorno!», esclamò quando fu al suo fianco, facendolo spaventare un po’.

«Ehi, ma tu sei… Beatrice, vero?».

Lei annuì e con nonchalance si sedette di fronte a lui, sorridendo.
Tom, notando il suo comportamento fin troppo sicuro, sollevò un sopracciglio e disse: «Che cosa ci fai qui? Dovresti essere a scuola, per quanto ne so…».

«L’ho vista e…».

«Sei venuta a salutarmi? Oh, come sei carina!».

Beatrice si strinse nelle spalle, finta modesta, poi si fece più attenta e diede inizio alla prima fase del suo piano, sperando che andasse in porto.
«Ehm… Do you speak english?», domandò schiarendosi la voce.

Tom strabuzzò gli occhi. «Scusa, sei in Germania, perché mi chiedi se so parlare in inglese?».

Beatrice sospirò e si fece ancora più ardita, guardando verso il soffitto e dicendo, in inglese: «Lei ha viaggiato intorno al mondo con la sua band, dovrebbe saperlo l’inglese».

«Come…? Chi te l’ha detto, è stato Bill?». Il suo viso era paonazzo e gli occhi gli si erano improvvisamente accesi, allora Beatrice unì le mani di fronte al viso e bisbigliò, implorante: «Per favore, mi ascolti. Bitte».

«E va bene», borbottò infastidito l’ex-chitarrista, anche se piuttosto incuriosito.

Beatrice gli rivolse un sorriso carico di speranza, ringraziandolo. In qualche modo gli spiegò il suo piano e ciò che voleva da lui, ma proprio mentre si accingeva a motivare tutto quello che stava facendo per Bill, Tom la interruppe bruscamente: «Senti, sono davvero molto colpito dalla tua fiducia e dalla tua determinazione, ma sarebbe del tutto inutile. È assurdo quello che vuoi fare».

La ragazza strinse forte i pugni sulle gambe, ferita dalle sue parole e dal suo atteggiamento categorico. «Dobbiamo solo provare, non costa nulla».

L’uomo scosse energicamente il capo e ripeté: «Ti ho detto che sarebbe inutile. Credi che in tutti questi anni io non abbia provato a far riappacificare Bill con Gustav e Georg? Non ci sono riuscito io, pretendi di riuscirci tu?!».

«Io non pretendo proprio nulla. Voglio solo provarci, perché Bill…».

Tom la interruppe di nuovo, alzando ancora di più la voce, tanto che Beatrice sentì gli occhi di tutti i presenti bruciare su di lei. 
Travolto dalla rabbia, aveva iniziato ad inveirle contro in tedesco e la ragazza non riuscì a capire una sola parola di tutto quello che urlò, ma se avesse dovuto tradurre in parole le sue espressioni facciali, avrebbe sicuramente detto: “Sei solo una ragazzina”, “Non sai niente” e per finire “Adesso levati dalle palle”.
Quando Tom pose la parola fine a quella sfuriata, Beatrice si massaggiò il naso con la mano ma non riuscì a trattenere una lacrima di nervosismo che le scavò un solco sulla guancia. Incrociò il suo sguardo per un istante, trovandolo perplesso e dispiaciuto, ed annuì meccanicamente, poi lo salutò con la voce incrinata ed uscì in fretta dal bar, per poi correre verso l’edificio scolastico.

Salì le scale già col fiatone ed ancor prima di arrivare alla porta della sua aula vide Federica andarle incontro con una faccia arrabbiata e al contempo preoccupata.

«Si può sapere che cosa ti è preso così all’improvviso? Dove sei stata fino ad adesso?».

Beatrice deglutì per mandare via il bruciore alla gola e pregò perché non notasse il trucco sbavato a causa delle poche lacrime a cui aveva permesso di cadere dai suoi occhi.
«Le prof hanno fatto domande perché non c’ero?».

Federica sospirò, lasciando cadere l’argomento. «No, non sono ancora arrivate per fortuna. Sarebbe stato un vero casino se…».

«E la prof tedesca? Ha già fatto l’appello? Un momento, se tu sei fuori…».

«Quando è arrivata le ho detto che eri in bagno perché non ti sentivi bene. Visto che non arrivavi più mi ha mandato ad assicurarmi che non ti fosse successo qualcosa».

Beatrice l’abbracciò piano. «Grazie». Le sorrise e poi tornarono in classe.

 

«Buono?», domandò Bill con un lieve sorriso sulle labbra, lasciando la forchetta nel proprio piatto vuoto e pulendosi la bocca con il tovagliolo.

«Sì, ma io sono a posto», disse Federica appoggiandosi allo schienale della sedia, come se finire quel piatto fosse un’impresa epica impossibile da superare.

Beatrice la imitò, prendendo in mano il bicchiere d’acqua. «Anche io».

Il signor Kaulitz le rivolse uno sguardo indagatore, ma non disse nulla e si rivolse a Federica, seduta di fronte a lui: «Cosa preferite fare? Volete vedere un po’ di TV?».

La ragazza scambiò uno sguardo con la compagna, che non diede segno né di approvazione né di diniego, per l’ennesima volta immersa nei suoi pensieri, ed annuì, anche se incerta.
Entrambe si alzarono per raggiungere il salotto, dove Bill gli avrebbe acceso la televisione, ma prima che anche Beatrice si allontanasse, lui la chiamò. La ragazza si voltò e lo guardò con un enorme punto di domanda in faccia.

«Tutto okay?», le chiese, sinceramente preoccupato. «Non ti ho mai vista così silenziosa ed è la prima volta che lasci qualcosa nel piatto. Ti senti bene?».

«Sì, sì… Tutto okay», si sforzò per sorridergli e fargli credere così che andasse davvero tutto bene.
Era ancora arrabbiata e delusa per quello che era successo quella mattina con Tom, per le sue parole dure e la sua scenata, ma si disse di fare più attenzione d’ora in avanti: quello che si erano detti quella notte e ciò che ancora si nascondevano a vicenda era sufficientemente triste per tutti e due.

Beatrice raggiunse Federica sul divano e fecero un po’ di zapping non trovando nulla di interessante. Alla fine lasciarono su un documentario in cui dei sub andavano alla ricerca di coccodrilli. Bill si unì a loro una decina di minuti dopo, una volta sistemata la cucina ed avviata la lavastoviglie, e si accomodò sulla sua poltrona.
Vedendo le due ragazze annoiate da ciò che loro stesse avevano scelto, ne approfittò per informarle: «Domani viene mio fratello a pranzo, con sua moglie e Hans, suo figlio. Ha la vostra età, sapete?».

Federica sorrise per mostrare il suo interesse. «Ha solo un figlio?».

«No, ha anche una figlia, che però ha già ventotto anni».

La ragazza si voltò verso Beatrice, che fissava come incantata lo schermo della TV, e le diede una lieve gomitata nel fianco. «Dici che si offende se gli chiedo se è sposato?».

«Non ne ho idea, prova».

«Come si dice “sposato”?».

«Ververdatet, qualcosa del genere».

Federica borbottò e gli mostrò l’anulare della mano sinistra, iniziando la domanda: «Lei è…?».

Bill ridacchiò. «Sposato?».

«Si dice verheiratet, non verdatet come dicevi tu!», l’ammonì Federica, dandole un’altra gomitata.

«Entschuldigung!», ribatté Beatrice, lasciandosi andare ad una risata. Il suo sguardo e quello del signor Kaulitz si incrociarono ed entrambi furono felici di vedere uno sprazzo di gioia negli occhi dell’altro, sentendosi subito meglio come se avessero appena ricevuto una boccata d’ossigeno puro.

«Sono stato sposato. Due volte», rispose alla fine Bill, lasciandole di stucco. «Sia la prima che la seconda volta pensavo di aver trovato la donna giusta per me, ma evidentemente io non ero l’uomo giusto per loro, visto che sono state sempre le mie ex-mogli a chiedere il divorzio».

«Oh. Mi dispiace», disse Federica, davvero dispiaciuta per la gaffe che aveva fatto.

«Io no. Meglio così, piuttosto che stare con una persona che non ti ama. Giusto?», scoccò un sorriso a Beatrice ed aggiunse: «Per fortuna ho lei, l’unica donna della mia vita! Tesoro? Ehi, vieni qui».
La cagna di Bill, rimasta fino ad allora acciambellata ai piedi del divano, si alzò e scodinzolando andò dal suo padrone, che la riempì di coccole e di parole affettuose.

Beatrice provò un’infinita tenerezza di fronte a quella scena, ma anche un po’ di amarezza per il povero Bill che da quando aveva visto crollare di fronte ai suoi occhi tutta la sua vita, inevitabilmente legata ai Tokio Hotel, ne aveva passate di tutti i colori.
Ancora una volta le tornarono alla mente le parole di Tom e anche quel pizzico di allegria che aveva fatto così fatica a trovare dentro di sé fu spazzato via, facendola sentire ancora impotente e perciò inutile.

Finirono di guardare il documentario sui coccodrilli in silenzio e poi Federica le chiese se volesse andare a dormire. Beatrice annuì e si stiracchiò, accorgendosi solo in quel momento che Bill si era addormentato sulla poltrona. Guardandolo un sorriso le nacque in modo spontaneo sulle labbra, ma fu costretta a seguire Federica su per le scale quando la esortò a darsi una mossa.

«Vado prima io in bagno, tanto faccio in fretta», disse Federica, arraffando il suo beauty-case e l’asciugamano.

Beatrice annuì e si sedette sul letto della sua compagna, in attesa. All’improvviso qualcosa le morse lo stomaco e fu costretta ad alzarsi e a sgattaiolare fuori dalla camera. Scese le scale di soppiatto e una volta in salotto trovò Bill come lo avevano lasciato poco prima. Prese la coperta appoggiata sul bracciolo del divano e con cautela, per paura di svegliarlo o di pestare la coda alla cagna ai suoi piedi, gliela sistemò sopra. Poi lo guardò sorridendo e spense la TV col telecomando.

 

*

 

9° giorno, domenica

«Oddio, sono distrutta. Non vedo l’ora di andare a casa, di farmi una bella doccia calda e di…».

«Che ne dici di andare a fare un po’ di shopping, invece?».

Federica guardò Beatrice strabuzzando gli occhi. «Stai scherzando? Abbiamo visitato mezza città a piedi e tu hai ancora la forza per andare a fare shopping? E poi sicuramente Bill ci starà aspettando, stamattina gli abbiamo detto che saremmo tornate presto…».

Beatrice si sistemò meglio lo zainetto sulle spalle e sospirò. Non poteva dirle la verità, ovvero che non voleva tornare a casa per paura di trovare ancora Tom e tutta la sua famigliola felice – rischiava seriamente di insultarlo, quella volta, pensando che lui si era arreso, nonostante tenesse tantissimo a suo fratello e sapesse da sempre quello che pativa. Non poteva dirle tutto quello anche perché non le aveva mai detto nulla del suo incontro notturno con Bill e della sua confessione, anche se una volta aveva avuto la forte tentazione, quando tutti i loro compagni avevano iniziato a parlare delle loro famiglie, elencandone i pregi e i difetti. Avrebbe voluto dire che il suo “papà tedesco” era stata una rock-star di importanza mondiale e lodarlo per questo, ma si era trattenuta perché era gelosa di quel suo segreto così prezioso, gelosa del fatto che l’avesse svelato solo a lei.

Beatrice tentò e ritentò, ma non riuscì a convincerla. Quindi, mestamente, la seguì fino alla fermata del pullman, che presero per un soffio. Dopo un altro pezzo a piedi, finalmente arrivarono a casa.
Beatrice aprì la porta di casa con il doppione della chiave che Bill aveva gentilmente dato loro e appena fu nell’ingresso rimase in ascolto, rendendosi conto che, come temeva, Tom si era trattenuto più a lungo del previsto.

«Ragazze! Ciao, siete arrivate!», esclamò Bill, alzando una mano. 
Beatrice aveva subito adocchiato Tom, spaparanzato sul divano, e gli aveva lanciato uno sguardo che aveva dimostrato perfettamente quanto fosse felice di rivederlo – per niente, – ma il sorriso del suo adorato signor Kaulitz, così felice e bello, le fece ingoiare l’astio e riuscì persino a sorridere.
«Vi ricordate di Tom, vero?».

«Sì!», esclamò subito Beatrice, stringendogli la mano con fin troppa forza.

«Lei invece è la signora Kaulitz», continuò Bill nelle presentazioni, indicando la donna bionda e sorridente seduta al fianco dell’ex-chitarrista. «E lui è Hans, mio nipote».

Le ragazze strinsero la mano pure al ragazzo, che aveva gli stessi occhi dei due gemelli, poi usarono la scusa di lasciare giù zaino e cappotto e si ritirarono nella loro stanza.

«Oh, ma sai che è proprio carino Hans?», esclamò Federica. «Se non fossi già fidanzata…». Beatrice scosse il capo. «Cosa, non lo trovi carino?».

Ha lo stesso sorrisino malizioso di suo padre. Lo odio! «Non è semplicemente il mio tipo».

«Mmh, sarà…».

Un pugno leggero bussò sulla loro porta e dopo aver avuto il permesso Bill mise la testa dentro la stanza. Con un sorriso raggiante, disse: «Ragazze, mi è venuta un’idea. Vi va di andare tutti insieme a prendere un gelato? Così magari fate anche conoscenza con Hans… È carino, vero?».

Beatrice scoppiò a ridere e il sorriso di Bill si ampliò, anche se non capì il motivo di tutto il suo divertimento.

«No, grazie. Non sono fatta per gli amori a distanza», disse, anche se un po’ in tedesco e un po’ in inglese.

Il signor Kaulitz sollevò un sopracciglio. «Per i gelati invece?».

Beatrice e Federica si scambiarono uno sguardo e per non essere maleducate accettarono.

 

«Il gelato! Col freddo che fa!», bisbigliò Federica, sbirciando dietro di sé Bill, Tom e Hans che, ancora dentro la gelateria, in attesa che anche la moglie dell’ex-chitarrista ricevesse il suo, si stavano già gustando i loro coni.

«Perché, quello che abbiamo preso noi alla fine che cos’è?», chiese sarcasticamente Beatrice, girando tra le mani il bicchiere alto dell’Eiscafè che stavano condividendo.

«Beh, qui almeno c’è un po’ di caffè che riscalda!».

«Sì, ma in pratica è tutto gelato alla vaniglia con dei biscotti sotto e della polvere di cacao sopra».

«Per favore Bea, mi stai facendo venire freddo!».

Beatrice ridacchiò, poi si appoggiò allo schienale della sua sedia ed osservò il panorama. Non aveva mai visto il porto d’Amburgo a quell’ora di sera, col sole sulla via del tramonto e le luci dei lampioni già tutte accese, ad illuminare le grandi navi cargo ormeggiate e cariche di container che da lontano sembravano tanti mattoncini del Lego. Aveva un fascino tutto particolare e fu grata a Bill che aveva avuto la splendida idea di portarle proprio in quella gelateria.

 

Intanto, all’interno della gelateria, Tom si voltò verso Bill e lo vide intento ad osservare Beatrice seduta ad un tavolino all’aperto, stretta nel suo stesso abbraccio ed avvolta nella sua sciarpa a causa del vento freddo che tirava. Osservava il porto con sguardo perso, immersa in mille pensieri, e Tom si rese conto che il suo gemello aveva la stessa espressione assente. Capì immediatamente che si era legato a quella ragazza in un modo quasi incomprensibile e pensò che fossero una coppia davvero strana, ma complementare.

«Ehi», gli diede un colpetto sul braccio e Bill rinvenne, accennando un sorriso nella sua direzione. «Che ti prende?».

Bill sospirò lievemente e tornò a guardare le spalle della ragazza. «Sono preoccupato. È da un po’ di tempo che Bea si comporta in modo strano».

«Bea? Adesso è così che la chiami? Bill…».

L’ex-cantante scrollò le spalle e si rifiutò di ascoltarlo. «Sono entrambe delle brave ragazze, forse le migliori che io abbia ospitato fino ad adesso, ma lei… lei è diversa. Le ho raccontato della band, sai?». Le sue labbra si stesero in un sorriso amaro e i suoi occhi si posarono sul cono gelato che aveva in mano. «Non so quanto abbia capito di tutto quello che le ho detto, ma…».

Oh, ha capito più di quanto tu possa credere, pensò Tom.

«Ma non ero mai riuscito a parlarne con nessuno, nemmeno con te ho mai ripreso l’argomento… Ci dovrà pur essere un motivo per cui ci sono riuscito proprio con lei!».

«Forse avevi raggiunto il limite e avevi soltanto bisogno di sfogarti, tutto qui», disse Tom lapidario, desideroso di chiudere quella questione, ma Bill non si arrese.

«Mentre le raccontavo quella storia è sempre rimasta al mio fianco. Anche se magari non capiva, l’ho sempre sentita partecipe, come se comprendesse davvero il mio dolore e il suo cuore fosse vicino al mio. E la semplicità e l’innocenza con cui ha cercato di dirmi che dovevo provare a far pace prima con i miei amici, prima che con me stesso… oh, dovevi vederla Tomi».

L’uomo posò anche il proprio sguardo sulla ragazza e sospirò, timoroso che quella storia potesse finire male per il suo fratellino, illuso e ferito da quell'improvvisa quanto stupefacente ventata di speranza.

«Sabato sera, quando è tornata a casa e l’ho vista, ho capito subito che doveva esserle successo qualcosa. A scuola, in giro con le sue professoresse… non lo so, ma qualcosa dove esserle sicuramente successo».

Tom sgranò un po’ gli occhi, rendendosi conto che sabato era stato il giorno in cui Beatrice l’aveva raggiunto nel bar e gli aveva raccontato del suo folle piano di far riappacificare Bill con Georg e Gustav.

«Da allora è più silenziosa, sempre distratta ed immersa nei suoi pensieri, giù di morale… Pensa che ha persino perso l’appetito, lei che era la buona forchetta di casa!».

Che se la fosse presa per la scenata che aveva fatto? Che fosse davvero intenzionata a fare qualcosa per Bill, a provarci? Tom sentì i sensi di colpa salirgli dallo stomaco fino alla gola, rendendogliela improvvisamente secca, e si chiese cosa fosse meglio fare: lasciar perdere o dare una chance a quella ragazza italiana così decisa ad aiutare Bill?

Sentì la voce di sua moglie chiedere il conto e si voltò, dicendo: «Tesoro lascia, faccio io. Voi raggiungete pure le ragazze».

Bill, sua moglie e Hans uscirono dalla gelateria e Tom pagò il conto. Una volta che li vide tutti seduti al tavolo con Beatrice e Federica, si sporse verso il ragazzo che gli aveva appena consegnato lo scontrino e gli disse: «Scusa, ce l’ha una penna?».

 

«Domani dovete andare a scuola?», domandò Bill, rivolgendosi alle sue ospiti.

«No, le nostre professoresse hanno programmato una crociera sull’Elba domani mattina», disse Federica. «Il pomeriggio è libero, ma abbiamo intenzione di fare un po’ di shopping per comprare un po’ di souvenir».

«Oh, shopping… Solo perché sono troppo vecchio per fare ancora queste cose, altrimenti…».

«E chi lo dice?», chiese Beatrice, con la fronte corrugata. «C’è un’età per lo shopping?».

Tutti al tavolo restarono in silenzio e si scambiarono occhiate perplesse. Beatrice ridacchiò, divertita dalla situazione che aveva creato lei stessa, e Bill la seguì quasi subito, dicendo: «Se si trattava di un invito, non vorrei disturbarvi…».

«No!». Beatrice guardò l’amica per trovare la sua approvazione, ma Federica sembrava scioccata dal suo comportamento. Beatrice non vi fece caso e continuò: «Tu conosci meglio i negozi in zona, puoi aiutarci!».

«Allora è fatta, Bill: domani sarai di nuovo catapultato nel tuo mondo glitterato», esclamò Tom battendo le mani e ridacchiando quando ricevette un pugnetto dal fratello.

«Sarà meglio andare a casa, adesso», disse il signor Kaulitz alzandosi, subito imitato dalla moglie di Tom e da Hans.

Beatrice e Federica seguirono Bill fino alla sua Audi. Federica entrò per prima, nei sedili posteriori, mentre Beatrice fece il giro per sedersi davanti. Giusto un momento prima che aprisse la portiera, però, Tom si avvicinò a lei e le infilò un foglietto nella mano. Beatrice levò lo sguardo su di lui, confusa, poi lo abbassò per aprire il foglietto. Si trattava dello scontrino della gelateria, ma dietro in penna c’era scritto qualcosa: due numeri di telefono con accanto due nomi e poi un altro numero senza niente scritto vicino.

«Cosa…?».

«Non so se riuscirai, ma… l’importante è provarci, no?». Tom le fece l’occhiolino e le indicò il terzo numero: «Se hai bisogno, chiamami».

Il viso di Beatrice si fece più bello grazie ad un sorriso e una nuova luce le brillò negli occhi. Tom la fissò per qualche secondo, sentendo un piacevole calore invadergli il petto, e ricambiò con naturalezza. Poi tornò alla propria auto, in cui l’aspettavano moglie e figlio.

«Grazie!», gridò Beatrice prima che chiudesse la portiera; lui la salutò con la mano.

«Che cosa vi siete detti?», le domandò Bill, sollevando un sopracciglio com’era solito fare.

Beatrice non rispose, si limitò a sorridere, e questo bastò anche all’ex-cantante, che come se avesse visto il sole brillare di notte entrò nell’auto spensierato come un bambino.

 

«Posso andare?». Beatrice, impaziente, si alzò dal letto e raccattò tutto ciò che le serviva per prepararsi alla notte. E sarebbe stata una lunga, lunghissima notte.

«Tutto tuo», rispose Federica, in pigiama e con gli occhiali sul viso, pronta per ficcarsi sotto le coperte ed aspettare la telefonata del suo fidanzato.

Beatrice si chiuse a chiave in bagno e lasciò il beauty-case, l’accappatoio e l’asciugamano sul bordo della vasca, poi tirò fuori dalla tasca dei jeans lo scontrino stropicciato con i numeri di telefono di Georg e Gustav e si mise in ginocchio sull’asse del cesso, rivolta verso la finestra che dava sulla strada. Compose il primo numero sulla tastiera del suo cellulare, poi chiuse gli occhi e prese un bel respiro profondo per farsi coraggio, infine premette il tasto di chiamata.
Furono i tre squilli più lunghi della sua vita, in cui sentì i battiti del suo cuore rimbombarle nella testa, ma alla fine una voce maschile, profonda, disse: «Pronto, chi parla?».

 

«Ehi, va tutto bene? Hai gli occhi gonfi ed arrossati…».

Beatrice fece finta di essere sorpresa. «Davvero? Mi deve essere finito un po’ di shampoo negli occhi». Salì la scaletta per raggiungere il suo letto e si coprì fin sopra la testa con il piumone, affondando la faccia nel cuscino e lottando per non far scorrere altre lacrime. Quelle che aveva affogato sotto il getto caldo della doccia bastavano.

«Spengo la luce?», domandò ancora Federica.

«Sì. Buona notte».

«Buona notte, Bea».

Il buio calò nella stanza e Beatrice non riuscì proprio ad arrestare le lacrime, ripensando alle due telefonate che aveva fatto, l’una peggiore dell’altra, in cui probabilmente l’avevano presa per una pazza o una fan di mezz’età che non si era arresa allo scioglimento della propria band preferita e in cui era riuscita ad esprimersi a malapena a causa della paura di sprecare il suo unico tentativo.

Fece del suo meglio per strozzare i singhiozzi nel cuscino e fare il meno rumore possibile, ma sperò ugualmente che Federica non si accorgesse di nulla: non aveva voglia di dare spiegazioni e sarebbe stato fin troppo complicato, nonostante la sua amica parlasse la sua stessa lingua. O quasi. Se avesse davvero dovuto spiegarle il motivo per cui si era comportata in maniera così strana in quegli ultimi giorni, il motivo per il quale era arrivata a chiamare due perfetti sconosciuti per convincerli che il signor Kaulitz aveva bisogno di loro, avrebbe dovuto tradurre la lingua del suo cuore, una lingua unica nel suo genere e non sempre compatibile con quella del cuore delle altre persone.

Con la mano raggiunse il suo cellulare, posato sopra l’armadio – che le faceva un po’ da comodino, – e cercò in rubrica il numero di Tom, salvato poco prima. Lo chiamò istintivamente, ma dopo nemmeno uno squillo mise giù, dandosi della deficiente. Lui gliel’aveva detto subito che non ci sarebbe mai riuscita, ma lei aveva voluto provarci a tutti i costi e adesso stava addirittura peggio di prima, sentendosi una povera ragazzina che si era illusa di potersi intromettere in questioni che non la riguardavano e di poterle risolvere con l’uso della bacchetta magica – che tra l’altro non possedeva.

Il suo cellulare iniziò a vibrare improvvisamente. Aprì gli occhi di scatto, le ciglia incollate tra loro dalle lacrime, e si chiese se si fosse addormentata e quella fosse la sveglia. Ma appena gettò uno sguardo sul display e lesse il nome di Tom, il cuore le balzò in gola. Afferrò il cellulare e rimase per un attimo ad osservare lo schermo, chiedendosi se dovesse rispondere o meno, ma alla fine se lo portò all’orecchio.

«Sì?», disse con voce flebile, sia per il pianto che per paura di svegliare Federica.

«Ehi, mi hai chiamato? Che è successo?».

Beatrice deglutì il groppo che le si era formato in gola e disse: «Scusa, non volevo. Ho sbagliato numero».

«Sei sicura?».

Chiuse gli occhi e sospirò. «Sì, grazie».

«Okay, allora. Buona notte, Bea».

«Buona notte. Scusa ancora».

Beatrice pose fine alla comunicazione e mise a posto il cellulare, poi si sistemò il cuscino sotto la testa e chiuse gli occhi, sforzandosi di dormire.

 

*

 

12° giorno, mercoledì

Beatrice, seduta accanto al finestrino sull’autobus che le avrebbe portate a casa Kaulitz, chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla canzone che stava ascoltando con il suo amato mp3. I suoi pensieri però, inarrestabili come un fiume in piena, la riportarono a domenica, quando si era giocata il tutto per tutto e aveva chiamato Gustav e Georg. Non ricordava perfettamente le parole che avevano usato, anche piuttosto gentilmente, per dirle di non infastidirli più, ma ogni volta che ci ripensava sentiva una fitta nel petto, all’altezza del cuore.
Aveva fatto davvero di tutto per non tornarci più sopra e il giorno in cui in assoluto ci era riuscita meglio era stato quello precedente. Un sorriso le nacque spontaneamente sulle labbra, ripensando a tutti i negozi che avevano girato con Bill – che non aveva per nulla perso il fiuto per gli acquisti azzeccati, nonostante l’età e il fatto che lo shopping non fosse più una sua priorità – ma soprattutto a tutte le risate che insieme si erano fatti. Anche Federica si era divertita molto e aveva scoperto un lato del signor Kaulitz che l’aveva a dir poco meravigliata.

Scesero dall’autobus alla loro fermata e camminarono con passo svelto fino a casa, visto che quella sera avrebbero dovuto cucinare loro come “regalo” alla famiglia ospitante, anche se da casa avevano già portato il Parmigiano e alcuni dolci tipici.

Entrarono in casa e la trovarono immersa in un insolito silenzio. Beatrice capì subito, e con rammarico, che Bill non era in casa. Ne ebbe la piena conferma quando entrò in cucina per posare la borsa con ciò che avevano comprato al supermercato e vide, sul tavolo, un bigliettino con su scritto, in una calligrafia frettolosa: “Mi dispiace, ma c’è stato un imprevisto. Può darsi che torni tardi, non aspettatemi per la cena”.

«Che cosa c’è scritto?», domandò Federica, raggiungendola. Beatrice le passò direttamente il foglietto ed iniziò a svuotare la borsa.

«Oh, carino! Noi organizziamo la cena italiana e lui non c’è!».

Nonostante si fosse sforzata di avere un’espressione neutra sul viso, gli occhi le si riempirono ben presto di lacrime e le mani le tremarono. Doveva allontanarsi, e in fretta, se voleva che Federica non la vedesse scoppiare a piangere. Era ovvio che la sua delusione era più grande di quella che avrebbe dovuto mostrare in pubblico; era ovvio che la sua assenza era stata un duro colpo, soprattutto perché non ne sapeva il motivo. Che tipo di imprevisto gli era capitato? Era stato talmente imprevisto da fargli rinunciare alla cena italiana, a cui Beatrice teneva così tanto?

«Devo andare in bagno», mormorò prima di correre fuori dalla cucina e precipitarsi al piano di sopra.

Entrò nella loro camera ed aprì la valigia per prendere il beauty-case per togliersi il trucco dal viso, quando si accorse che la tasca davanti, quella che non aveva mai toccato, era aperta. Infilò una mano all’interno e vi trovò un foglio piegato in quattro. Si lasciò cadere seduta a gambe incrociate sul pavimento e l’aprì, riconoscendo la stessa calligrafia del biglietto lasciato da Bill.
Il cuore iniziò a batterle all’impazzata nel petto appena lesse le prime righe, ma fu costretta comunque a prendere il dizionario: voleva comprendere alla perfezione tutto ciò che le aveva scritto.

 

Cara Bea,

non potrò mai ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto. Il motivo per cui non ci sarò stasera – mi dispiace infinitamente, spero tu possa capire – è perché Georg e Gustav sono venuti a bussare alla mia porta, accompagnati da Tom, e mi hanno chiesto di cenare con loro.
Ho avuto paura di avere un infarto quando li ho visti e mi sono accorto che non erano per niente cambiati… Ma soprattutto quando ho visto che nei loro occhi non c’era più rancore verso di me.
Mi hanno spiegato quello che è successo in questi giorni: la tua telefonata li ha stupiti parecchio, sia perché l’avevano ricevuta entrambi sia perché non pensavano che qualcuno potesse ancora ricordarsi di tutto ciò che era successo così tanti anni fa. Così hanno chiamato Tom, per chiedergli spiegazioni, per chiedergli se tu eri davvero chi dicevi di essere e volessi davvero una riappacificazione tra noi. Tom gli ha raccontato tutto, dicendogli anche che lui per primo, quando tu gli hai spiegato il tuo piano, era scettico e non ne voleva sapere, ma poi ha ceduto.
Ora capisco il motivo dei tuoi lunghi silenzi, dei tuoi occhi a volte spenti e pieni di segreti, e ti ringrazio, perché non solo i tuoi sentimenti hanno fatto breccia nel mio cuore, ma anche in quello di Tom e poi in quelli di Gustav e Georg, così colpiti dal tuo sincero desiderio di aiutarmi che hanno deciso di fare un passo verso di me.
Avevi ragione, avevi perfettamente ragione quando hai cercato di dirmi che solo grazie al perdono dei miei amici potevo davvero perdonare me stesso e sentirmi meglio.
Spero che un giorno qualcuno si occupi di te come tu hai fatto con me, perché te lo meriti. Sappi che se un giorno vorrai parlare ed annoiati un po’, non con una vecchia gloria del rock, ma con il tuo signor Kaulitz, ci sarò sempre.
Grazie, Bea.

Bill

Bea richiuse la lettera dopo averla letta ancora diverse volte e scoppiò in una leggera risata, portandosela al petto ed asciugandosi le guance rigate dalle lacrime con una mano.
Grazie a lei, signor Kaulitz.

 

Bill, con un sorriso felice stampato in faccia e sentendosi bene come mai si era sentito negli ultimi trent’anni, chiuse a chiave la porta di casa e camminò in silenzio verso la cucina deserta.
Accese la luce e vide che la tavola era apparecchiata, ma solo per una persona, e al centro di essa c’era una pirofila di ceramica coperta da un piatto, che sollevò per sbirciarne il contenuto: pennette al sugo con olive nere, prezzemolo e una foglia di basilico. Ne annusò estasiato il profumo e fece per prendere la forchetta per assaggiarne un boccone, nonostante fosse molto tardi, quando notò un bigliettino nascosto sotto le posate. Lo prese fra le mani e lo aprì, sorridendo alla vista di quel disegno: un grande cuore all’interno del quale c’era una faccina sorridente.
Aprì lo sportello di un armadietto e tirò fuori una bottiglia vino, poi prese un calice dalla credenza e si sedette a tavola, portando di fronte a sé la pirofila di pennette. Versò un po’ di vino rosso nel calice e sorridendo lo sollevò per brindare al cuore con lo smile, in piedi contro il bicchiere dell’acqua.

 

*

 

15° giorno, sabato

 

«Siete pronte?».

Federica guardò Beatrice, rimasta indietro ad osservare attentamente tutto ciò che le stava attorno: le scale che portavano al piano superiore, il corridoio, la cucina, il salotto, le vetrate che davano sul giardino… Tutto, tutto le sarebbe mancato.

«Sì, penso di sì», rispose alla fine, accennando un sorriso al signor Kaulitz.

Uscirono di casa e raggiunsero l’Audi bianca parcheggiata di fronte al vialetto e già calda. Caricarono le valigie nel bagagliaio e poi salirono, come al solito Federica dietro e Beatrice davanti.

Restarono in silenzio per quasi tutto il tragitto e Beatrice non spostò mai lo sguardo dal finestrino, consapevole che se avesse guardato Bill in viso e l’avesse visto sorridere con la stessa sua tristezza negli occhi sarebbe scoppiata a piangere come una fontana e aveva tutte le migliori intenzioni di trattenersi.

Di fronte alla scuola c’erano già diversi studenti che avevano abbandonato tutti i loro bagagli in mezzo alla strada e avevano preso d’assalto la panetteria per comprare da mangiare per il viaggio oppure i brezel da portare a casa. Del pullman, però, non ce n’era ancora traccia.

Il signor Kaulitz le aiutò a scaricare i bagagli e poi le guardò dolcemente. «È stato un piacere per me avervi come ospiti. Vi auguro tutto il bene possibile e spero di rivedervi, qualche volta. Tanto sapete dove abito».

Federica lo ringraziò e fu la prima ad abbracciarlo, baciandogli le guance. Beatrice nel frattempo si preparò psicologicamente per affrontare quel momento e fece un respiro profondo, ma quando Federica si scostò per lasciarle il posto e correre anche lei alla panetteria prima che i brezel finissero, la sua attenzione fu catturata da un’auto dall’aspetto familiare che si fermò all’altro lato della strada e da cui scese Tom, ma non era solo: con lui c’erano anche quelli che dovevano essere i famosi Georg e Gustav. L’ex-chitarrista incrociò il suo sguardo e le rivolse un sorriso solare, mentre attraversava la strada e li raggiungeva, proprio come il primo giorno in cui si erano incontrati.

«I Tokio Hotel al completo per salutarti», mormorò Bill, ridacchiando.

Beatrice lo guardò negli occhi e lo abbracciò di slancio, sorprendendolo. L’uomo ricambiò la stretta dopo qualche secondo, posandole una mano sui capelli. La ragazza non riuscì più a trattenersi e scoppiò in lacrime, mordendosi le labbra per non singhiozzare.

«Ehi, ehi…». Bill si ritrasse per guardarla in viso e le accarezzò una guancia, sorridendole teneramente. «Questo non è un addio: ci sentiremo via e-mail, mi potrai chiamare a casa… Non piangere, per favore, altrimenti rischio anche io».

Beatrice accennò un sorriso ed annuì, asciugandosi le lacrime sotto gli occhi. Tom, che nel frattempo li aveva raggiunti, salutò la ragazza e le rivolse il suo tipico sorrisino malizioso, ma ciò che le disse andò contro ogni sua previsione: «So di aver dubitato di te, ma alla fine ce l’hai fatta, quindi… credo di doverti delle scuse e dei ringraziamenti. Senza di te non avrei mai rivisto il mio fratellino tornare a sorridere col cuore».

Beatrice fissò la mano che le aveva offerto in segno di pace. Al diavolo! La tolse di mezzo e si gettò anche fra le sue braccia, affondando il viso nel suo cappotto. D’altronde senza il suo aiuto non avrebbe mai potuto dare il via al meccanismo che aveva portato al chiarimento tra Bill e il resto della band. Tom ricambiò l’abbraccio dandole qualche pacca sulla schiena, in evidente imbarazzo.

Beatrice si scostò e guardò i due gemelli negli occhi, poi sorrise e si voltò sentendo la voce di Federica che, avvicinandosi, le mostrò un sacchetto: «Ne ho presi un paio anche per te, sono andati a ruba!».

«Grazie». Prese il sacchetto con i brezel ancora caldi e si voltò verso Gustav e Georg, appoggiati al cofano dell’auto di Tom, che la salutarono con una mano ed un sorriso sulle labbra. Beatrice ricambiò e poi finalmente arrivò il pullman che li avrebbe riportati tutti a casa, in Italia.

Beatrice e Federica aspettarono che i loro bagagli venissero caricati, poi salutarono ancora una volta il signor Kaulitz e salirono sul pullman. Beatrice si mise subito in ginocchio sul sedile e non perse mai di vista Bill, Tom, Gustav e Georg, continuando a sorridergli e a comunicargli con i gesti.

Quando le professoresse fecero l’appello e le porte del pullman si chiusero, Beatrice sentì di nuovo le lacrime pungerle gli occhi. 
Si appoggiò con le mani al finestrino, infastidendo tra l’altro la sua compagna, e continuò a salutare i quattro uomini fino a quando non scomparvero dalla sua vista, puntini lontani in fondo alla strada.

Alla fine si sedette composta sul sedile e, nonostante una lacrima solitaria fosse sfuggita dalla gabbia delle sue ciglia, il suo animo si placò rendendosi conto che mai, mai sarebbero scomparsi dal posticino che gli avrebbe sempre riservato nel suo cuore.

   
 
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