Ciao
sezioneadoratadisherlockbbc!
Ho lasciato passare sei giorni dall’ultima storia! Shame
on
me!
Comunque, oggi pubblico qualcosa di diverso dalle solite, non
è una commedia
(adoro scriverne, ma variare fa sempre bene, ogni tanto) ma qualcosa di
un po’
meno leggero (ma non pesante, sia chiaro! Almeno spero!) e
più introspettivo,
anche se la vena romantica non manca, ovviamente, ma che spero gradiate
ugualmente!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
Tre
piccoli passi
*
[…]“Was
it a vision, or a waking dream?
Fled is that music: -Do I wake or sleep?”
Erano passati tre anni, e Sherlock non era più nulla di
solido, di materiale,
di corporeo ma solo un rumore, un suono, un lento trascinarsi di suole
appena
udibile, ma chiaro nella sua indecisione.
John
però non si rassegnava a quella perdita, a quel drastico
cambiamento,
nonostante il tempo fosse passato e i giorni, gli anni, le stagioni si
fossero
alternate inevitabili, una dietro l’altra.
John preparava ogni giorno il tè, con metodica precisione,
come tanto piaceva
al suo coinquilino.
Sorrideva
quando scaldava la teiera con dovizia, mettendo due buoni cucchiai di
infuso in
essa e riempiendola d’acqua, ripensando ai mille pomeriggi
passati a
bisticciare con Sherlock su quanto lo servisse bollente.
John
non mancava mai a quell’appuntamento soltanto loro,
così intimo, privato. John
continuava a bere quello stesso tè e a lasciare una tazza
per lui, accanto alla
sua poltrona.
Una tazza di tè per un fantasma, all’inizio, e
più tardi, una tazza di tè per
tre piccoli passi.
John aveva cominciato a vivere per quei passi, per quel suono che a lui
sembrava una musica, una melodia lenta e triste, eppure piena di un
fascino a
lui misterioso.
Erano cominciati tre mesi prima, e continuavano ancora, giorno dopo
giorno,
pomeriggio dopo pomeriggio, alla stessa precisa ora.
La prima volta John era seduto sul divano, con un libro in grembo che
non stava
realmente leggendo. Fissava le parole con vacuo interesse,
più per il bisogno
di qualcosa con cui tenersi occupato che per un reale interesse per la
trama.
Il tè di Sherlock era sul tavolino, perfettamente allineato
con il bracciolo della poltrona, la superficie
ambrata che rifletteva il pallido sole del pomeriggio.
E
ad un certo punto, li aveva sentiti.
Uno,
due, tre.
Un intervallo di due secondi l’uno dall’altro,
seguiti da un fruscio, come di
piedi trascinati a forza sulla moquette delle scale. I passi di un uomo
esitante, impaurito, spaventato da qualcosa che John non conosce. I
passi di un
marito fedifrago ma roso dai sensi di colpa che ritorna a casa da sua
moglie, i
passi di uno scolaro impenitente che marcia verso la maestra conscio di
non
aver studiato, i passi esitanti di una ragazzina davanti al suo primo
amore. I
passi di un condannato a morte negli ultimi metri della sua esistenza.
Tre
passi, sempre e solo tre passi.
John si era alzato dalla poltrona, con il cuore che batteva talmente
forte da
riempire il silenzio della stanza, da assordarlo talmente da
confondergli i
pensieri. Sapeva che non poteva essere la Signora Hudson, da sua
sorella per
tutta l’estate, ne la Signora Turner, in viaggio con
chissà quale dei suoi
svariati corteggiatori. Aveva scorto un’ombra dietro quella
porta, e
all’improvviso nessuna carriera militare, nessun sangue
freddo da buon medico e
soldato erano riusciti a infonderlo del coraggio necessario a porre la
sua mano
sulla maniglia della porta. Si era fermato li, a meno di un metro dal
pianerottolo, totalmente incapace di pensare e di agire. Era rimasto
fermo,
immobile come una buffa statua di cera, con la mano tesa in un gesto
mai
compiuto, aveva chiuso gli occhi e quando li aveva riaperti,
l’ombra non c’era
più.
John
si era sentito come svuotato di qualcosa, come attraversato da una
folata di
vento caldo che lo aveva fatto sentire bene, vivo, per la prima volta
dopo tre
anni. Una scarica di adrenalina, di pura vita.
Si era accasciato nuovamente sul tessuto morbido del divano, con la
mente in
iperattività, a pensare, riflettere e ponderare su
ciò che aveva visto. Senza
giungere a nessuna conclusione razionale.
Il
giorno dopo però, la tazza di tè era sempre al
solito posto, dove sarebbe
rimasta fino al pomeriggio successivo in attesa di essere rimpiazzata
con una
nuova.
E quei tre passi, quei tre semplici tac tac tac
erano tornati, puntuali
come il più preciso degli orologi.
§
“E’
frutto della tua immaginazione, John” Ella gli
parlò sinceramente, annotando
qualcosa sulla sua cartella con una penna ad inchiostro nero. John
sorrise,
comprendendo lo scetticismo della dottoressa, e non prevedendo affatto
un
comportamento diverso.
“Può darsi. Lo so. Ma mi fa stare bene”
replicò con voce calma, persino dolce.
La dottoressa lo guardò impensierita.
“Potrebbe trasformarsi in un comportamento compulsivo, John.
Lo sai, sei un
medico” fu il suo ulteriore commento.
John però scosse la testa, totalmente sicuro di
sé stesso, come poche altre
volte nella sua vita.
“Non succederà”.
“Non puoi saperlo. Non puoi vivere per qualcosa di effimero,
per una fantasia.
Per un rumore di passi davanti alla tua porta”. Ella infranse
quel muro di
professionalità e strinse una sua mano nella propria, con
calore. John le era grato,
nonostante lei si rifiutasse di capire.
“Almeno ora vivo, Ella”.
§
E
ogni volta, ogni pomeriggio di quella mite estate inglese, John li
aspettava.
Aspettava quei passi ogni giorno, godendosi l’attesa, la
consapevolezza che
qualcosa stava per accadere, anche se magari solo nella sua mente,
rompendo il
dolore, infrangendo quella barriera di sofferenza e annullamento in cui
si era
costretto a vivere, o meglio sopravvivere fino a
qualche tempo prima.
Quell’ombra
era la sua forza, nonostante non osasse aprire la porta, nonostante non
riuscisse ad annullare quell’ostacolo che lo separava dalla
verità. Temeva che
tutto potesse svanire, se solo avesse provato a vedere,
a conoscere una
realtà che avrebbe potuto solamente ferirlo.
Perché in fondo al cuore conosceva
quella parte di verità che gli diceva che Sherlock non
sarebbe tornato, mai
più. La morte era ineluttabile, anche per
l’imprevedibile Sherlock Holmes. Ma
John, in cuor suo aveva una certezza ancora più grande,
forte. Sherlock non era
capace di compiere prodigi e questo lo sapeva. Ma sapeva altrettanto
bene che
Sherlock stesso era un miracolo.
Il suo.
E
continuava nella sua lenta quotidianità, ma non gli pesava,
neanche un po’.
Erano di nuovo le cinque, quando John si sollevò leggermente
dalla poltrona in
religiosa attesa. Strofinò le mani tra loro, godendosi il
calore tra di esse,
immaginando il calore di altre mani, la dolcezza di
un altro tocco mai
goduto, ma spesso sognato, desiderato.
Non
fece in tempo ad approfondire quel pensiero, non fece in tempo a
perdersi in
quell’immagine mentale così dolce e dolorosa che
li sentì ancora, puntuali come
un orologio.
Uno, due, tre. Un’ombra. Alta, scura,
senza nome ne identità.
John si alzò come ogni volta, tre passi dalla porta e si
fermò, felice e
spaventato, una furiosa lotta tra razionalità e pazzia che
si consumava dentro
di lui facendogli bene e male, riempiendolo di una dolcezza amara.
Nessun
movimento. L’ombra era immobile, come sempre, e John non era
da meno, come se
fosse speculare alla figura dall’altro lato del vetro. Chiuse
gli occhi,
ancora, e quando li riaprì, ecco che il pianerottolo era
nuovamente vuoto,
solitario.
Un altro giorno, un altro secondo. John aveva avuto un ulteriore
respiro.
Un’ulteriore frammento di vita.
§
Al
ritorno dal lavoro, John non trovò un taxi, e il 74 guasto
alla fermata di
Liverpool Street lo costrinse ad infilarsi nel trafficato tunnel della
Tube e a
mescolarsi alla folla frenetica e frettolosa che correva per non
perdere l’ultimo
treno della sera. John era stanco, quella sera aveva coperto il turno
di un
collega, e oltretutto aveva mancato al suo appuntamento.
Si
sentiva in colpa per aver lasciato tè stantio e freddo ai
tre piccoli passi. Il
giorno dopo avrebbe comprato un vassoio dei biscotti preferiti di lui,
quelli
metà affogati nel cioccolato. Ricordò
l’espressione felice negli occhi del suo
migliore amico quelle volte in cui tornava a casa e li trovava sul
tavolo ad
aspettarli. Faceva finta di niente, manteneva la sua facciata austera e
disinteressata ma quando pensava di non essere visto, era come un
bambino la sera
di Natale.
John si unì ad un gruppo di turisti all’entrata
della Bakerloo, impaziente di
rifugiarsi nelle tranquille mura di casa. Ella gli consigliava sempre
di stare
in mezzo alla gente, di frequentare più persone, gli diceva
che l’isolamento
avrebbe solamente potuto nuocergli ma John non voleva
nient’altro che quel
suono. Quel suono gli sarebbe bastato sempre, per sempre.
All’improvviso
poi, qualcosa visto di sfuggita in un tunnel secondario chiuso per
lavori,
attirò la sua attenzione.
Uno
sventolare di stoffa attirò il suo sguardo, riportandogli
alla mente ricordi
lontani e sbiaditi, che John pensava di aver rimosso, di aver relegato
nell'angolo della sua mente riservato ai momenti di poca importanza.
Sherlock che scendeva le scale dell'appartamento infilandosi il
cappotto al
volo, Sherlock che gettava via la giacca sul divano correndo in cucina
a dedicarsi
a qualche esperimento.
Fu un qualcosa della durata di un secondo, il tempo di un battito di
ciglia ma
a John il cuore sembrò fermarsi, in quell'istante. Corse
verso quel tunnel,
contrastando l'onda di gente che gli veniva contro e si sporse,
aspettandosi di
vedere qualcosa, di vedere quello stesso sventolio di stoffa scura, la
stessa
stoffa scura del cappotto di lui. Gli era sembrato chiaro, chiarissimo
pochi
istanti prima, e quella visione l'aveva colpito come un deja-vu,
qualcosa che
aveva visto mille e mille volte e che la sua mente aveva ormai
archiviato sotto
la voce 'Sherlock'.
Quando
però guardò attentamente, scavalcando la
transenna di sbarramento, non vide
nulla, se non il lungo corridoio vuoto che risuonava dell'eco dei passi
degli
ultimi pendolari.
Un
peso salì sul suo cuore, nella sua gola, impedendogli di
emettere un qualunque
suono. Sorrise, però, senza allegria. Era curioso pensare a
quale speranza
aveva cercato di aggrapparsi. Una speranza fugace come un sventolio di
stoffa
scura.
Arrivato davanti a casa, dopo un viaggio sembrato lungo quanto l'intera
notte,
crollò sul divano, accanto alla tazza di tè, che
però aveva qualcosa di diverso.
La
osservò con attenzione e notò il manico spostato
sulla sinistra, quando lui lo
lasciava sempre verso destra, e la base della tazzina era leggermente
fuori
asse rispetto al solco del piattino. Il cuore di John parve rallentare,
a
quella scoperta.
Si ritrovò a pensare a cosa potesse essere successo,
escludendo la Signora
Hudson ancora fuori di casa, ed escludendo probabili intrusi dato che
almeno a
prima vista, nulla era stato sottratto, spostato o infranto.
"Sono uscito di corsa dopo la chiamata di Sarah, ho messo la
tazza sul
tavolino senza controllare che fosse a posto" pensò,
cercando di dare
a quella scoperta insignificante eppure così importante una
spiegazione
razionale.
Annuì
fra sé e sé e cercò di rilassarsi tra
i cuscini, non trovando però pace in
quella misera giustificazione. Non quadrava. Certamente esisteva una
risposta
razionale, perfettamente terrena, ma John non
riusciva a non
rammaricarsi di quell'insicurezza, di quel non
sapere. Se solo...non fosse andato al lavoro, quel
giorno. Avrebbe dato
oro per poter tornare indietro e vivere diversamente quella giornata.
John chiuse gli occhi, aveva veramente bisogno di dormire, di non
pensare, di
spegnere il cervello per qualche ora. Aveva le braccia doloranti, le
gambe
ridotte peggio e la testa gli pulsava dolorosamente. E quei pensieri
non
facevano che peggiorare la situazione. Gemette, nel silenzio pacifico
dell'appartamento, ascoltando solo il lontano ronzio della lampadina
fulminata
della cucina, fastidioso e ripetitivo.
Si trovò a pensare a quando Sherlock aveva cambiato quella
stessa lampadina
tempo prima e sorrise, incapace di provare tristezza a quel ricordo,
nonostante
riguardasse lui. Era la prima volta che si cimentava in un lavoretto
domestico
e dopo aver brillantemente superato la missione si era sentito potente
come se
avesse appena sventato un'attentato nel pieno centro di Londra.
Sherlock era
fatto così, unico nella sua stranezza. Ed era anche quella
sua particolarità
che aveva spinto John ad innamorarsi di lui in quel modo. Intenso,
perfetto, totale.
Poi,
mentre John ancora sorrideva, impedendo ad una coltre di nostalgia e
dolore di
impossessarsi del suo cuore e dei suoi ricordi, fu costretto ad
riaprire gli
occhi di colpo, improvvisamente.
Uno,
due, tre.
"Oh
mio Dio" sussurò il medico all'improvviso, sconvolto,
impietrito. Era la
prima volta che succedeva, la prima volta che li sentiva di sera, o
meglio, al
calar della notte.
Il medico volse lo sguardo verso la porta, ma non c'era luce nel
pianerottolo,
o almeno non abbastanza perchè lui potesse scorgere l'ombra.
Ma quei passi
erano stati chiari, chiarissimi e lui era abbastanza sveglio e lucido
da sapere
di non averli affatto immaginati.
Si chiese cosa potessero significare, si domandò se... se i
passi avessero
atteso il suo ritorno. Pensò a come fossero
indissolubilmente legati, in
qualche modo, in un legame che John non riusciva a spiegarsi. Ma
sapeva, in
cuor suo, di non voler conoscere la risposta a tutti i costi. Gli
sarebbe bastato quel suono, sempre.
La testa di John girava, in un vortice di confusione e di colori, la
vista
quasi annebbiata dalla forte tensione che provava, in quel momento. La
bocca
era impastata ed era sicuro che se solo avesse provato a pronunciare
una sola
parola non ne sarebbe venuta fuori nemmeno una sillaba. Si
alzò e percorse la
strada verso l'ingresso, che quella sera gli sembrò
più lunga che mai.
Non aveva mai avuto il coraggio di aprirla, di vedere, capire. Aveva
sempre
avuto paura di quello che avrebbe potuto vedere, di quello che sarebbe
potuto
succedere. Aveva sempre avuto il timore che tutto sarebbe potuto
cessare, se
solo avesse voluto spingersi oltre.
Quella sera però, John doveva fare qualcosa.
Si avvicinò cautamente, mentre il cuore batteva
così forte da rimbombargli
quasi nella testa come un tamburo suonato con troppa violenza. A tre
passi
dalla porta si fermò e fissò lo stipite, in
attesa, attendendo che il coraggio
necessario ad allungare la mano verso la maniglia lo colgliesse, lo
investisse.
Sospirò, e il suo respiro tremò, inevitabilmente.
Un pugno invisibile gli
strinse lo stomaco, e respinse un doloroso senso di nausea, di vuoto, e
si
costrinse a tener saldo lo sguardo verso quella porta.
Mai come in quel momento John sentì che Ella poteva aver
ragione, e la sua convinzione
e la possibilità che lui stesse realmente impazzendo
lottarono nel suo
cervello per prevalere.
"Tu sei reale" ripeté, a voce bassa, sorpreso di riuscire a
mormorare
qualcosa. "So che lo sei". Quelle parole lo smossero, lo investirono
come un treno.
Un
brivido scivolò lungo la sua schiena quando finalmente, dopo
tanto, troppo
tempo, riuscì a compiere un ulteriore passo. Un piede
davanti all'altro, solo
questo, ma per lui un notevole traguardo. Un altro passo ancora, uno
strisciare
di suole lento e faticoso, come se nelle scarpe avesse cemento solido.
Alla
fine però arrivò, dopo minuti lunghi come ore
intere, davanti alla porta.
Strinse la mano a pugno, come per darsi coraggio, come per spingersi a
toccare
la maniglia e mettere fine a quella lunga attesa, ormai destinata ad
avere la
sua degna conclusione.
Tremante allungò la mano e fremette quando questa venne a
contatto con il
freddo metallo. John sentiva che qualcosa stava per accadere, qualcosa
di
grande, di unico, di inspiegabile. Non riusciva a dare un nome a quello
che
sentiva, non riusciva a descrivere il calore che lo avvolgeva, il suono
del suo
cuore che batteva forte, veloce, frenetico. John aspettava,
ed era tutto quello che che voleva fare. John aspettava
qualcosa di bello, di sconvolgente. John aspettava un miracolo. Il suo.
Chiuse
gli occhi stringendoli, come se si aspettasse di essere investito da
una luce
fortissima e accecante nonostante fosse buio nell'androne delle scale.
Chiuse
gli occhi, impaurito, nonostante fosse un uomo fiero, coraggioso,
forte. Ma non
esisteva nessuna forza, a volte, nell’amore.
Abbassò
la maniglia piano, stringendo la mano libera in un pugno, cercando di
scaricare
la tensione e il palpabile nervosismo. Aprì la porta con un
cigolio familiare
eppure stridente nel silenzio che imperava nella stanza.
John sentì.
Non
poteva vederla, ma sapeva, sentiva che qualcosa era li, che qualcosa
era
presente di fronte a lui, ma non aveva il coraggio di guardare.
"Svanirà" ripeteva a se stesso. "Se apro gli occhi
scomparirà". E non voleva, era l'ultima cosa che desiderava.
All'improvviso qualcosa si mosse ancora, un minuscolo impercettibile
cambiamento mutò l'atmosfera nella stanza.
Altri tre flebili passi, gli stessi di poco prima, convinsero John ad
aprire
finalmente gli occhi.
E quando lo fece, i suoi occhi color dell'ambra, con quella sfumatura
d'azzurro
che li rendeva tanto profondi, incontrarono altri due occhi altrettanto
meravigliosi, del colore del mare assolato, color del cielo nei
pomeriggi
d'estate.
John dimenticò come respirare, come muovere le labbra e la
bocca, dimenticò di
avere gambe e braccia da poter muovere. Rimase li, fermo e immobile,
senza
alcun desiderio di essere da un'altra parte, senza nessuna voglia di
fuggire in
nessun'altro luogo.
Si sorprese di essere ancora vivo.
Pensò a quando sognava Sherlock, le prime notti dopo la sua
morte. Il suo viso,
nei suoi sogni, gli sembrava sempre il più bello che avesse
mai visto. Tutto di
Sherlock gli sembrava meraviglioso, oltre ogni ragione, ogni minima
parte di
lui gli sembrava troppo splendida per essere descritta con le semplici
parole
di un uomo. Si era ripetuto che era l'amore, quel sentimento lacerante
e
squassante che provava per lui a farglielo ricordare in quel modo, come
qualcosa di etereo e meraviglioso. Ma in quel momento, mentre osservava
l'uomo
di fronte a lui come un tesoro d'incommensurabile valore, gli occhi che
si muovevano
freneticamente su ogni frammento della sua persona come a non voler
tralasciare
nessun particolare, John maledisse ognuno di quei pensieri, quando si
accorse
di quanto fosse stato stupido a pensare di averlo...sopravvalutato.
L'uomo alla porta non disse niente, nè si mosse. John
sembrava la sua immagine
riflessa in uno specchio, nonostante fossero completamente differenti e
perfetti
nella loro diversità. John non voleva sapere, John non
voleva alcuna
spiegazione in quel momento. John stava bene così, e sarebbe
rimasto su quella
soglia per tutta la vita, cibandosi della dolcezza di quegli occhi e di
quella
bocca appena schiusa, con parole sospese sulle labbra che non avrebbero
mai
avuto vita, o voce.
John sentì di essere fortunato, di essere l'uomo
più fortunato del mondo, allo
scoccare di quella fresca mezzanotte. Dimenticò qualunque
cosa attorno a lui
mentre realizzava per la millesima volta in quei pochi minuti che quei
passi
adesso avevano gambe, braccia, occhi, labbra e mani. Quel suono ora
aveva un
corpo. Un volto. Una vita, legata
indissolubilmente ad esso.
Sherlock
fece un passo avanti dopo secondi eterni, e John poté quasi
sentire il suo
respiro accarezzargli le guance, con la dolcezza di un'amante.
Gli sembrò tutto un sogno, un sogno di quelli da cui non ci
si vorrebbe mai
svegliare. Uno di quelli che al risveglio tenti in tutti i modi di
continuare
cercando un sonno ormai perso. Un sogno di quelli che ti lasciano con
il cuore
pesante ma felice. E sapeva bene che poteva esserlo, che tutto poteva
essere
frutto della sua immaginazione, ma John era felice, felice come non lo
era mai
stato, felice come non lo era da troppo tempo.
Nessuno parlava, ma nessuno dei due ne sentiva il bisogno, nessuno dei
due
aveva la forza di aprire bocca e dar voce al proprio pensiero.
Bastavano i loro
sguardi, solo quelli.
John non voleva sapere nulla, voleva solo continuare a guardarlo.
"John" un sussurro appena accennato infranse il
silenzio e
quella voce roca, così familiare e calda costrinse John a
stringere gli occhi
per impedire alle lacrime di cadere.
John riuscì finalmente a riprendere il controllo del proprio
corpo e allungò
una mano verso il viso del detective, del suo migliore amico,
sfiorandolo con
affetto, un amore tenero e profondo. Sherlock piegò appena
le labbra, in
un'espressione serena, e baciò il palmo della sua mano,
provocandogli un
brivido caldo lungo la schiena.
"Sei sempre in ritardo, Sherlock. Hai lasciato freddare il tuo
tè".
Anche
il mormorio di John fu flebile ma Sherlock lo sentì
ugualmente. Gemette, con un
leggero sorriso e non potè fare a meno di stringere a
sè John con tutta la
forza che possedeva, premendo le labbra contro le sue come se ne avesse
un
bisogno incolmabile, come se dovesse nutrirsi del suo respiro e della
sua bocca
per vivere. John ricambiò quell'abbraccio bisognoso,
esigente, pieno di
passione troppo a lungo repressa e strinse la sua camicia fra le dita
fino a
farsi male, ma il dolore era l'ultimo dei suoi pensieri in quel
piccolo,
perfetto frangente della sua esistenza.
Non esisteva più un mondo al di fuori del piccolo salotto
del 221b, non esisteva
una metropoli in continuo e frenetico movimento, nè una
nazione, nè un
continente, un pianeta, una galassia al di fuori dei vetri della
finestra
dell'appartamento.
Esistevano
solo loro due. Sherlock e John, John e Sherlock.
John non voleva niente, pensò ancora, nessuna spiegazione,
nessun perché.
E sulla possibilità che tutto potesse essere frutto della
sua fantasia,
sull'eventualità che davvero Ella non si fosse sbagliata sul
suo comportamento
compulsivo riguardo a quella faccenda, John voleva rimanere ignaro.
Era lucido e perfettamente cosciente che in quel momento poteva essere
profondamente addormentato sul suo divano, o nel suo letto, o
addirittura
caduto in un sonno tormentato sulla scrivania della sua saletta visite
con le
braccia a mo di cuscino, ma al dottore non interessava minimamente,
neanche un
po'.
La sola cosa che voleva, che desiderava con tutto il cuore era che il
suo
miracolo, il suo sogno non svanisse come un pugno
di sabbia fra le dita.
La sola cosa che John voleva era non svegliarsi.
*PS.
Il brano è tratto da una poesia di
Keats, Ode to a Nightingale, che
è
uno dei più bei componimenti che io abbia mai letto. Se
avete la
possibilità, e volete passare dieci piacevoli minuti,
leggetela, non ve ne
pentirete. E se avete anche qualche minuto in più vi
consiglio di ascoltarla
letta dalla voce meravigliosa di Benedict Cumberbatch (si, voi del
fandom! Il
nome vi dice qualcosa? :P) …è qualcosa di
positivamente disumano.