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Autore: SAranel    13/04/2012    11 recensioni
Se non hai seguito la seconda stagione, non aprire, mi raccomando!
Sono passati tre anni dall'ultima volta che John ha visto Sherlock, e adesso John vede, sente il suo migliore amico in qualcosa che non riesce a spiegarsi, qualcosa che accade ogni giorno, sempre alla stessa ora, qualcosa di cui John non riesce quasi più a fare a meno. Cosa sarà?
"La prima volta, John era seduto sul divano, con un libro in grembo che non stava realmente leggendo. Fissava le parole con vacuo interesse, più per il bisogno di qualcosa con cui tenersi occupato che per un reale interesse per la trama. Il tè era sul tavolino, perfettamente allineato con il bracciolo della poltrona, la superficie ambrata che rifletteva il pallido sole del pomeriggio.
E ad un certo punto, li aveva sentiti.
Uno, due, tre".[...]
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao sezioneadoratadisherlockbbc!
Ho lasciato passare sei giorni dall’ultima storia!
Shame on me!
Comunque, oggi pubblico qualcosa di diverso dalle solite, non è una commedia (adoro scriverne, ma variare fa sempre bene, ogni tanto) ma qualcosa di un po’ meno leggero (ma non pesante, sia chiaro! Almeno spero!) e più introspettivo, anche se la vena romantica non manca, ovviamente, ma che spero gradiate ugualmente!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.



Tre piccoli passi
*

 

 

 

[…]“Was it a vision, or a waking dream?
Fled is that music: -Do I wake or sleep?”

 Ode to a nightingale – John Keats*

 

 

 


Per John, Sherlock era solo tre passi davanti ad una porta.
Erano passati tre anni, e Sherlock non era più nulla di solido, di materiale, di corporeo ma solo un rumore, un suono, un lento trascinarsi di suole appena udibile, ma chiaro nella sua indecisione.

John però non si rassegnava a quella perdita, a quel drastico cambiamento, nonostante il tempo fosse passato e i giorni, gli anni, le stagioni si fossero alternate inevitabili, una dietro l’altra.
John preparava ogni giorno il tè, con metodica precisione, come tanto piaceva al suo coinquilino.

Sorrideva quando scaldava la teiera con dovizia, mettendo due buoni cucchiai di infuso in essa e riempiendola d’acqua, ripensando ai mille pomeriggi passati a bisticciare con Sherlock su quanto lo servisse bollente.

John non mancava mai a quell’appuntamento soltanto loro, così intimo, privato. John continuava a bere quello stesso tè e a lasciare una tazza per lui, accanto alla sua poltrona.
Una tazza di tè per un fantasma, all’inizio, e più tardi, una tazza di tè per tre piccoli passi.
John aveva cominciato a vivere per quei passi, per quel suono che a lui sembrava una musica, una melodia lenta e triste, eppure piena di un fascino a lui misterioso.
Erano cominciati tre mesi prima, e continuavano ancora, giorno dopo giorno, pomeriggio dopo pomeriggio, alla stessa precisa ora.
La prima volta John era seduto sul divano, con un libro in grembo che non stava realmente leggendo. Fissava le parole con vacuo interesse, più per il bisogno di qualcosa con cui tenersi occupato che per un reale interesse per la trama. Il tè di Sherlock era sul tavolino, perfettamente allineato con il bracciolo della poltrona, la superficie ambrata che rifletteva il pallido sole del pomeriggio.

E ad un certo punto, li aveva sentiti.

Uno, due, tre.
Un intervallo di due secondi l’uno dall’altro, seguiti da un fruscio, come di piedi trascinati a forza sulla moquette delle scale. I passi di un uomo esitante, impaurito, spaventato da qualcosa che John non conosce. I passi di un marito fedifrago ma roso dai sensi di colpa che ritorna a casa da sua moglie, i passi di uno scolaro impenitente che marcia verso la maestra conscio di non aver studiato, i passi esitanti di una ragazzina davanti al suo primo amore. I passi di un condannato a morte negli ultimi metri della sua esistenza.

Tre passi, sempre e solo tre passi.
John si era alzato dalla poltrona, con il cuore che batteva talmente forte da riempire il silenzio della stanza, da assordarlo talmente da confondergli i pensieri. Sapeva che non poteva essere la Signora Hudson, da sua sorella per tutta l’estate, ne la Signora Turner, in viaggio con chissà quale dei suoi svariati corteggiatori. Aveva scorto un’ombra dietro quella porta, e all’improvviso nessuna carriera militare, nessun sangue freddo da buon medico e soldato erano riusciti a infonderlo del coraggio necessario a porre la sua mano sulla maniglia della porta. Si era fermato li, a meno di un metro dal pianerottolo, totalmente incapace di pensare e di agire. Era rimasto fermo, immobile come una buffa statua di cera, con la mano tesa in un gesto mai compiuto, aveva chiuso gli occhi e quando li aveva riaperti, l’ombra non c’era più.

John si era sentito come svuotato di qualcosa, come attraversato da una folata di vento caldo che lo aveva fatto sentire bene, vivo, per la prima volta dopo tre anni. Una scarica di adrenalina, di pura vita.
Si era accasciato nuovamente sul tessuto morbido del divano, con la mente in iperattività, a pensare, riflettere e ponderare su ciò che aveva visto. Senza giungere a nessuna conclusione razionale.

Il giorno dopo però, la tazza di tè era sempre al solito posto, dove sarebbe rimasta fino al pomeriggio successivo in attesa di essere rimpiazzata con una nuova.
E quei tre passi, quei tre semplici tac tac tac erano tornati, puntuali come il più preciso degli orologi.

 

§

 

“E’ frutto della tua immaginazione, John” Ella gli parlò sinceramente, annotando qualcosa sulla sua cartella con una penna ad inchiostro nero. John sorrise, comprendendo lo scetticismo della dottoressa, e non prevedendo affatto un comportamento diverso.
“Può darsi. Lo so. Ma mi fa stare bene” replicò con voce calma, persino dolce. La dottoressa lo guardò impensierita.
“Potrebbe trasformarsi in un comportamento compulsivo, John. Lo sai, sei un medico” fu il suo ulteriore commento.
John però scosse la testa, totalmente sicuro di sé stesso, come poche altre volte nella sua vita.
“Non succederà”.
“Non puoi saperlo. Non puoi vivere per qualcosa di effimero, per una fantasia. Per un rumore di passi davanti alla tua porta”. Ella infranse quel muro di professionalità e strinse una sua mano nella propria, con calore. John le era grato, nonostante lei si rifiutasse di capire.
“Almeno ora vivo, Ella”.

 

§

 

E ogni volta, ogni pomeriggio di quella mite estate inglese, John li aspettava.
Aspettava quei passi ogni giorno, godendosi l’attesa, la consapevolezza che qualcosa stava per accadere, anche se magari solo nella sua mente, rompendo il dolore, infrangendo quella barriera di sofferenza e annullamento in cui si era costretto a vivere, o meglio sopravvivere fino a qualche tempo prima.

Quell’ombra era la sua forza, nonostante non osasse aprire la porta, nonostante non riuscisse ad annullare quell’ostacolo che lo separava dalla verità. Temeva che tutto potesse svanire, se solo avesse provato a vedere, a conoscere una realtà che avrebbe potuto solamente ferirlo. Perché in fondo al cuore conosceva quella parte di verità che gli diceva che Sherlock non sarebbe tornato, mai più. La morte era ineluttabile, anche per l’imprevedibile Sherlock Holmes. Ma John, in cuor suo aveva una certezza ancora più grande, forte. Sherlock non era capace di compiere prodigi e questo lo sapeva. Ma sapeva altrettanto bene che Sherlock stesso era un miracolo. Il suo.

E continuava nella sua lenta quotidianità, ma non gli pesava, neanche un po’.
Erano di nuovo le cinque, quando John si sollevò leggermente dalla poltrona in religiosa attesa. Strofinò le mani tra loro, godendosi il calore tra di esse, immaginando il calore di altre mani, la dolcezza di un altro tocco mai goduto, ma spesso sognato, desiderato.

Non fece in tempo ad approfondire quel pensiero, non fece in tempo a perdersi in quell’immagine mentale così dolce e dolorosa che li sentì ancora, puntuali come un orologio.
Uno, due, tre. Un’ombra. Alta, scura, senza nome ne identità.
John si alzò come ogni volta, tre passi dalla porta e si fermò, felice e spaventato, una furiosa lotta tra razionalità e pazzia che si consumava dentro di lui facendogli bene e male, riempiendolo di una dolcezza amara.

Nessun movimento. L’ombra era immobile, come sempre, e John non era da meno, come se fosse speculare alla figura dall’altro lato del vetro. Chiuse gli occhi, ancora, e quando li riaprì, ecco che il pianerottolo era nuovamente vuoto, solitario.
Un altro giorno, un altro secondo. John aveva avuto un ulteriore respiro. Un’ulteriore frammento di vita.

 

§

 

Al ritorno dal lavoro, John non trovò un taxi, e il 74 guasto alla fermata di Liverpool Street lo costrinse ad infilarsi nel trafficato tunnel della Tube e a mescolarsi alla folla frenetica e frettolosa che correva per non perdere l’ultimo treno della sera. John era stanco, quella sera aveva coperto il turno di un collega, e oltretutto aveva mancato al suo appuntamento.

Si sentiva in colpa per aver lasciato tè stantio e freddo ai tre piccoli passi. Il giorno dopo avrebbe comprato un vassoio dei biscotti preferiti di lui, quelli metà affogati nel cioccolato. Ricordò l’espressione felice negli occhi del suo migliore amico quelle volte in cui tornava a casa e li trovava sul tavolo ad aspettarli. Faceva finta di niente, manteneva la sua facciata austera e disinteressata ma quando pensava di non essere visto, era come un bambino la sera di Natale.
John si unì ad un gruppo di turisti all’entrata della Bakerloo, impaziente di rifugiarsi nelle tranquille mura di casa. Ella gli consigliava sempre di stare in mezzo alla gente, di frequentare più persone, gli diceva che l’isolamento avrebbe solamente potuto nuocergli ma John non voleva nient’altro che quel suono. Quel suono gli sarebbe bastato sempre, per sempre.

All’improvviso poi, qualcosa visto di sfuggita in un tunnel secondario chiuso per lavori, attirò la sua attenzione.

Uno sventolare di stoffa attirò il suo sguardo, riportandogli alla mente ricordi lontani e sbiaditi, che John pensava di aver rimosso, di aver relegato nell'angolo della sua mente riservato ai momenti di poca importanza.
Sherlock che scendeva le scale dell'appartamento infilandosi il cappotto al volo, Sherlock che gettava via la giacca sul divano correndo in cucina a dedicarsi a qualche esperimento.
Fu un qualcosa della durata di un secondo, il tempo di un battito di ciglia ma a John il cuore sembrò fermarsi, in quell'istante. Corse verso quel tunnel, contrastando l'onda di gente che gli veniva contro e si sporse, aspettandosi di vedere qualcosa, di vedere quello stesso sventolio di stoffa scura, la stessa stoffa scura del cappotto di lui. Gli era sembrato chiaro, chiarissimo pochi istanti prima, e quella visione l'aveva colpito come un deja-vu, qualcosa che aveva visto mille e mille volte e che la sua mente aveva ormai archiviato sotto la voce 'Sherlock'.

Quando però guardò attentamente, scavalcando la transenna di sbarramento, non vide nulla, se non il lungo corridoio vuoto che risuonava dell'eco dei passi degli ultimi pendolari.

Un peso salì sul suo cuore, nella sua gola, impedendogli di emettere un qualunque suono. Sorrise, però, senza allegria. Era curioso pensare a quale speranza aveva cercato di aggrapparsi. Una speranza fugace come un sventolio di stoffa scura.
Arrivato davanti a casa, dopo un viaggio sembrato lungo quanto l'intera notte, crollò sul divano, accanto alla tazza di tè, che però aveva qualcosa di diverso.

La osservò con attenzione e notò il manico spostato sulla sinistra, quando lui lo lasciava sempre verso destra, e la base della tazzina era leggermente fuori asse rispetto al solco del piattino. Il cuore di John parve rallentare, a quella scoperta.
Si ritrovò a pensare a cosa potesse essere successo, escludendo la Signora Hudson ancora fuori di casa, ed escludendo probabili intrusi dato che almeno a prima vista, nulla era stato sottratto, spostato o infranto.
"Sono uscito di corsa dopo la chiamata di Sarah, ho messo la tazza sul tavolino senza controllare che fosse a posto" pensò, cercando di dare a quella scoperta insignificante eppure così importante una spiegazione razionale.

Annuì fra sé e sé e cercò di rilassarsi tra i cuscini, non trovando però pace in quella misera giustificazione. Non quadrava. Certamente esisteva una risposta razionale, perfettamente terrena, ma John non riusciva a non rammaricarsi di quell'insicurezza, di quel non sapere. Se solo...non fosse andato al lavoro, quel giorno. Avrebbe dato oro per poter tornare indietro e vivere diversamente quella giornata.
John chiuse gli occhi, aveva veramente bisogno di dormire, di non pensare, di spegnere il cervello per qualche ora. Aveva le braccia doloranti, le gambe ridotte peggio e la testa gli pulsava dolorosamente. E quei pensieri non facevano che peggiorare la situazione. Gemette, nel silenzio pacifico dell'appartamento, ascoltando solo il lontano ronzio della lampadina fulminata della cucina, fastidioso e ripetitivo.
Si trovò a pensare a quando Sherlock aveva cambiato quella stessa lampadina tempo prima e sorrise, incapace di provare tristezza a quel ricordo, nonostante riguardasse lui. Era la prima volta che si cimentava in un lavoretto domestico e dopo aver brillantemente superato la missione si era sentito potente come se avesse appena sventato un'attentato nel pieno centro di Londra. Sherlock era fatto così, unico nella sua stranezza. Ed era anche quella sua particolarità che aveva spinto John ad innamorarsi di lui in quel modo. Intenso, perfetto, totale.

Poi, mentre John ancora sorrideva, impedendo ad una coltre di nostalgia e dolore di impossessarsi del suo cuore e dei suoi ricordi, fu costretto ad riaprire gli occhi di colpo, improvvisamente.

Uno, due, tre.

"Oh mio Dio" sussurò il medico all'improvviso, sconvolto, impietrito. Era la prima volta che succedeva, la prima volta che li sentiva di sera, o meglio, al calar della notte.
Il medico volse lo sguardo verso la porta, ma non c'era luce nel pianerottolo, o almeno non abbastanza perchè lui potesse scorgere l'ombra. Ma quei passi erano stati chiari, chiarissimi e lui era abbastanza sveglio e lucido da sapere di non averli affatto immaginati.
Si chiese cosa potessero significare, si domandò se... se i passi avessero atteso il suo ritorno. Pensò a come fossero indissolubilmente legati, in qualche modo, in un legame che John non riusciva a spiegarsi. Ma sapeva, in cuor suo, di non voler conoscere la risposta a tutti i costi. Gli sarebbe bastato quel suono, sempre.
La testa di John girava, in un vortice di confusione e di colori, la vista quasi annebbiata dalla forte tensione che provava, in quel momento. La bocca era impastata ed era sicuro che se solo avesse provato a pronunciare una sola parola non ne sarebbe venuta fuori nemmeno una sillaba. Si alzò e percorse la strada verso l'ingresso, che quella sera gli sembrò più lunga che mai.
Non aveva mai avuto il coraggio di aprirla, di vedere, capire. Aveva sempre avuto paura di quello che avrebbe potuto vedere, di quello che sarebbe potuto succedere. Aveva sempre avuto il timore che tutto sarebbe potuto cessare, se solo avesse voluto spingersi oltre.
Quella sera però, John doveva fare qualcosa.
Si avvicinò cautamente, mentre il cuore batteva così forte da rimbombargli quasi nella testa come un tamburo suonato con troppa violenza. A tre passi dalla porta si fermò e fissò lo stipite, in attesa, attendendo che il coraggio necessario ad allungare la mano verso la maniglia lo colgliesse, lo investisse. Sospirò, e il suo respiro tremò, inevitabilmente. Un pugno invisibile gli strinse lo stomaco, e respinse un doloroso senso di nausea, di vuoto, e si costrinse a tener saldo lo sguardo verso quella porta.
Mai come in quel momento John sentì che Ella poteva aver ragione, e la sua convinzione e la possibilità che lui stesse realmente impazzendo lottarono nel suo cervello per prevalere.
"Tu sei reale" ripeté, a voce bassa, sorpreso di riuscire a mormorare qualcosa. "So che lo sei". Quelle parole lo smossero, lo investirono come un treno.

Un brivido scivolò lungo la sua schiena quando finalmente, dopo tanto, troppo tempo, riuscì a compiere un ulteriore passo. Un piede davanti all'altro, solo questo, ma per lui un notevole traguardo. Un altro passo ancora, uno strisciare di suole lento e faticoso, come se nelle scarpe avesse cemento solido. Alla fine però arrivò, dopo minuti lunghi come ore intere, davanti alla porta.
Strinse la mano a pugno, come per darsi coraggio, come per spingersi a toccare la maniglia e mettere fine a quella lunga attesa, ormai destinata ad avere la sua degna conclusione.
Tremante allungò la mano e fremette quando questa venne a contatto con il freddo metallo. John sentiva che qualcosa stava per accadere, qualcosa di grande, di unico, di inspiegabile. Non riusciva a dare un nome a quello che sentiva, non riusciva a descrivere il calore che lo avvolgeva, il suono del suo cuore che batteva forte, veloce, frenetico. John aspettava, ed era tutto quello che che voleva fare. John aspettava qualcosa di bello, di sconvolgente. John aspettava un miracolo. Il suo.

Chiuse gli occhi stringendoli, come se si aspettasse di essere investito da una luce fortissima e accecante nonostante fosse buio nell'androne delle scale. Chiuse gli occhi, impaurito, nonostante fosse un uomo fiero, coraggioso, forte. Ma non esisteva nessuna forza, a volte, nell’amore.

Abbassò la maniglia piano, stringendo la mano libera in un pugno, cercando di scaricare la tensione e il palpabile nervosismo. Aprì la porta con un cigolio familiare eppure stridente nel silenzio che imperava nella stanza.
John sentì.

Non poteva vederla, ma sapeva, sentiva che qualcosa era li, che qualcosa era presente di fronte a lui, ma non aveva il coraggio di guardare.
"Svanirà" ripeteva a se stesso. "Se apro gli occhi scomparirà". E non voleva, era l'ultima cosa che desiderava. All'improvviso qualcosa si mosse ancora, un minuscolo impercettibile cambiamento mutò l'atmosfera nella stanza.
Altri tre flebili passi, gli stessi di poco prima, convinsero John ad aprire finalmente gli occhi.
E quando lo fece, i suoi occhi color dell'ambra, con quella sfumatura d'azzurro che li rendeva tanto profondi, incontrarono altri due occhi altrettanto meravigliosi, del colore del mare assolato, color del cielo nei pomeriggi d'estate.
John dimenticò come respirare, come muovere le labbra e la bocca, dimenticò di avere gambe e braccia da poter muovere. Rimase li, fermo e immobile, senza alcun desiderio di essere da un'altra parte, senza nessuna voglia di fuggire in nessun'altro luogo.
Si sorprese di essere ancora vivo.
Pensò a quando sognava Sherlock, le prime notti dopo la sua morte. Il suo viso, nei suoi sogni, gli sembrava sempre il più bello che avesse mai visto. Tutto di Sherlock gli sembrava meraviglioso, oltre ogni ragione, ogni minima parte di lui gli sembrava troppo splendida per essere descritta con le semplici parole di un uomo. Si era ripetuto che era l'amore, quel sentimento lacerante e squassante che provava per lui a farglielo ricordare in quel modo, come qualcosa di etereo e meraviglioso. Ma in quel momento, mentre osservava l'uomo di fronte a lui come un tesoro d'incommensurabile valore, gli occhi che si muovevano freneticamente su ogni frammento della sua persona come a non voler tralasciare nessun particolare, John maledisse ognuno di quei pensieri, quando si accorse di quanto fosse stato stupido a pensare di averlo...sopravvalutato.
L'uomo alla porta non disse niente, nè si mosse. John sembrava la sua immagine riflessa in uno specchio, nonostante fossero completamente differenti e perfetti nella loro diversità. John non voleva sapere, John non voleva alcuna spiegazione in quel momento. John stava bene così, e sarebbe rimasto su quella soglia per tutta la vita, cibandosi della dolcezza di quegli occhi e di quella bocca appena schiusa, con parole sospese sulle labbra che non avrebbero mai avuto vita, o voce.
John sentì di essere fortunato, di essere l'uomo più fortunato del mondo, allo scoccare di quella fresca mezzanotte. Dimenticò qualunque cosa attorno a lui mentre realizzava per la millesima volta in quei pochi minuti che quei passi adesso avevano gambe, braccia, occhi, labbra e mani. Quel suono ora aveva un corpo. Un volto. Una vita, legata indissolubilmente ad esso.

Sherlock fece un passo avanti dopo secondi eterni, e John poté quasi sentire il suo respiro accarezzargli le guance, con la dolcezza di un'amante.
Gli sembrò tutto un sogno, un sogno di quelli da cui non ci si vorrebbe mai svegliare. Uno di quelli che al risveglio tenti in tutti i modi di continuare cercando un sonno ormai perso. Un sogno di quelli che ti lasciano con il cuore pesante ma felice. E sapeva bene che poteva esserlo, che tutto poteva essere frutto della sua immaginazione, ma John era felice, felice come non lo era mai stato, felice come non lo era da troppo tempo.
Nessuno parlava, ma nessuno dei due ne sentiva il bisogno, nessuno dei due aveva la forza di aprire bocca e dar voce al proprio pensiero. Bastavano i loro sguardi, solo quelli.
John non voleva sapere nulla, voleva solo continuare a guardarlo.
"John" un sussurro appena accennato infranse il silenzio e quella voce roca, così familiare e calda costrinse John a stringere gli occhi per impedire alle lacrime di cadere.
John riuscì finalmente a riprendere il controllo del proprio corpo e allungò una mano verso il viso del detective, del suo migliore amico, sfiorandolo con affetto, un amore tenero e profondo. Sherlock piegò appena le labbra, in un'espressione serena, e baciò il palmo della sua mano, provocandogli un brivido caldo lungo la schiena.
"Sei sempre in ritardo, Sherlock. Hai lasciato freddare il tuo tè".

Anche il mormorio di John fu flebile ma Sherlock lo sentì ugualmente. Gemette, con un leggero sorriso e non potè fare a meno di stringere a sè John con tutta la forza che possedeva, premendo le labbra contro le sue come se ne avesse un bisogno incolmabile, come se dovesse nutrirsi del suo respiro e della sua bocca per vivere. John ricambiò quell'abbraccio bisognoso, esigente, pieno di passione troppo a lungo repressa e strinse la sua camicia fra le dita fino a farsi male, ma il dolore era l'ultimo dei suoi pensieri in quel piccolo, perfetto frangente della sua esistenza.
Non esisteva più un mondo al di fuori del piccolo salotto del 221b, non esisteva una metropoli in continuo e frenetico movimento, nè una nazione, nè un continente, un pianeta, una galassia al di fuori dei vetri della finestra dell'appartamento.

Esistevano solo loro due. Sherlock e John, John e Sherlock.
John non voleva niente, pensò ancora, nessuna spiegazione, nessun perché.
E sulla possibilità che tutto potesse essere frutto della sua fantasia, sull'eventualità che davvero Ella non si fosse sbagliata sul suo comportamento compulsivo riguardo a quella faccenda, John voleva rimanere ignaro.
Era lucido e perfettamente cosciente che in quel momento poteva essere profondamente addormentato sul suo divano, o nel suo letto, o addirittura caduto in un sonno tormentato sulla scrivania della sua saletta visite con le braccia a mo di cuscino, ma al dottore non interessava minimamente, neanche un po'.
La sola cosa che voleva, che desiderava con tutto il cuore era che il suo miracolo, il suo sogno non svanisse come un pugno di sabbia fra le dita.
La sola cosa che John voleva era non svegliarsi.






*

 

*PS. Il brano è tratto da una poesia di Keats, Ode to a Nightingale, che è uno dei più bei componimenti che io abbia mai letto. Se avete la possibilità, e volete passare dieci piacevoli minuti, leggetela, non ve ne pentirete. E se avete anche qualche minuto in più vi consiglio di ascoltarla letta dalla voce meravigliosa di Benedict Cumberbatch (si, voi del fandom! Il nome vi dice qualcosa? :P) …è qualcosa di positivamente disumano.

  
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