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Autore: Jazz Hyaenidae    13/04/2012    0 recensioni
Ecco un mio piccolo e breve esperimento ambientato in un mondo alternativo. Proprio perché un breve racconto non ricco di particolari non ho voluto mettere in evidenza degli elementi "fantasy". Pubblico il breve pezzo così come mi è uscito per poi riprenderlo un domani qualora l'idea si rivelasse buona. Ringrazio già da ora tutti quelli che vorranno scrivermi il loro parere.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Delle Macchine

Delle Macchine 



-La gente non si ferma mai a pensare della vita o della morte. La gente ama il pettegolezzo più che altro,  quindi, quando si va dal prete a richiedere l'ultima unzione del proprio caro, diventa un infido preteso per creare l'ennesima riunione di famiglia. Ecco il funerale: l'ennesimo ritrovo dove parenti, amici e delegazioni aggiunte si ritrovano per parlare dei fatti propri. Il morto? Il morto giace inerme con un sorriso beffardo,ascolta quei discorsi che nulla hanno a che vedere della vita e della morte, se potesse... li scaccerebbe via tutti.  


Fluidità di pensiero, un torrente d'acqua gelata che va a pungermi l'estremità della colonna vertebrale.
Mi alzai puntualmente alle 5.30 del mattino, feci un leggera colazione composta da due uova, carne di maiale e pancetta. Sentivo che, se avessi voluto, avrei potuto combattere contro un camion in corsa; non accadde un vero scontro fisico ma una gara di velocità: dovetti correre più in fretta che potevo, superare il camion ed entrare nella stazione dove il treno, fortunatamente, stava partendo con due minuti di ritardo. Mi accasciai sul primo sedile sfatto e finito, il mio metabolismo da chilometrista aveva già digerito.
Sollevando lo sguardo mi accorsi che vi era Alise che rideva del mio volto pallido e in carenza di ossigeno, aveva potuto notare la mia corsa contro il tempo (e contro il camion) dal finestrino del vagone.  
-Ciao, Montrace.- Mi salutò lei.  
Io in un primo momento non risposi, fissai i suoi occhi grandi, il volto scarno, i capelli corti e neri, una faccia sorridente e macabramente allegra come suo solito.
-Come stai, Alise?
Timidamente  rivolgeva lo sguardo fuori dove vi erano ancora cantieri edili abbandonati a loro stessi, caseggiati, coperture di lamiere, reti in ferro: contorno da devastazione futuristica.
Dietro di noi gente che parlava una lingua francofona, irripetibile, indecifrabile per me, direi anche fastidiosa.  
-Tutto bene Montrace, tranne che questa notte ho fatto un sogno alquanto bizzarro.
-Bizzarro?- Risposi io.
-Un gatto mi entrava dentro... -
La ragazza continuava il discorso arrossendo, non che lo avesse continuato dinanzi a chiunque, tra me ed Alise correva un rapporto di estrema fiducia, benché ci vedessimo molto poco, per i miei  e per i suoi impegni.
 -...un gatto entrava nel lembo del mio ventre e procreava dentro di me. Non intendo dire che il gatto penetrava in parte il mio corpo: no, no... il gatto entrava con tutto il suo pelo e le sue ossa dentro la mia pancia. Bizzarro no?  Così sentivo la strana sensazione di dover esser per la prima volta madre, Montrace. Mi sono svegliata ridendo, esattamente come ora... un gatto che si agitava dentro di me, depositando il suo seme. Non trovi che sia una cosa buffa? Anche il senso di responsabilità che mi ha lasciato è enorme.  
Alise
aveva alle orecchie delle cuffie di un lettore audio: presi una delle due e me la portai all'orecchio. Mozart,  sonata in Mi Minore k.304.
Fuori si muovevano a gran passo muri in cemento e pannelli solari; solo in lontananza qualche chiazza di verde nato per errore tramite le fessure  lasciate involontariamente da qualche operaio edile.  Pensai che se Alise quel giorno non stesse andando a lavorare in una sudicia lavanderia, avrebbe potuto darmi lezioni di pianoforte. Dimenticai quale fosse la mia destinazione, fu per qualche momento. Quando ripresi coscienza lei era già scesa dal treno, il sedile in pelle marrone, squarciato e sanguinante spugna giallognola, era fermo: assente.
Quando arrivai a destinazione ero nella grande Montréal, non quella canadese però, una Montréal più piccola situata come capoluogo di una provincia europea.
Nel sottopassaggio c'era sempre da guardarsi le spalle, poteva capitarti chiunque, dal grassone armato di coltello, al libico che ti piazza la dose in tasca e più avanti una serrata di finanzieri in squadra cinofila. Puttane, studenti, operai, evasori dello Stato, poliziotti in borghese, donne che per il proprio sostenimento e quello dei propri figli andavano allo sbaraglio per pulire le case della borghesia, o qualsiasi altra cosa fosse passata di lì: l'odore era quello, puzzavamo tutti della stessa miseria. Quella situazione mi dava sempre un certo calore, più di un giaccone ereditato da mio zio dal valore di trecento franchi.  Mio zio non aveva lasciato nulla a nessuno, né case, né terreni; solo qualche oggetto a me e al mio caro cugino Foster che a lui era figlio.  La nuova peste lo aveva portato via come successe a molti, a dire il vero innumerabili le vittime che potevi trovare stese sul ciglio di una strada di periferia... dormienti anime perpetue.
Dio non passava mai di lì, per quelle strade che sembravano piloni di ghiaccio ma che ghiaccio non erano: cemento bianco, la soluzione all'igiene... e venne l' igiene per le strade, era l'igiene della razza, quella proletaria... e vennero quelli della nuova borghesia a picchiarci con i nostri stessi forconi,perché noi eravamo la razza stupida. 

Quelli come noi del resto con i forconi in mano c'erano nati, un po' per eredità, un po' per dedizione. La cattiveria ci era sempre mancata, il senso di ribellione ce lo avevano tolto i nostri padri all'età di otto anni, era per il quieto vivere che lo si faceva; il quieto vivere dei nostri padri ci ha letteralmente lasciati in pasto agli avvoltoi. Niente cattiveria quindi, non eravamo dei Franz Moor ma, purtroppo per noi, neanche dei masnadieri. Noi eravamo carcassa e in quanto carne morta puzzavamo e basta. Persino la letteratura morì in un giorno di primavera, la milizia volle disinfestare le librerie ma non le biblioteche. In quelle potevano ancora avere accesso i benestanti, così che la cultura divenne nuovamente un discorso di élite sociale: il popolo era tornato ad essere ignorante come un cane bastardo che si faceva portare al guinzaglio dal suo tanto odiato padrone.
Non ero stanco, ero demotivato a crescere. Andavo avanti giorno per giorno chiedendomi non più cosa fosse giusto ma cosa mi avrebbe fatto andare avanti, e allora trovavo un spiraglio di speranza nel domani in cose che, oggettivamente, mi portavano all'autodistruzione.
Io probabilmente sarei nato come il terzo fratello Moor, quello stupido, quello tonto, quello idiota. Me ne sarei altamente infischiato del potere a cui ambiva il fratello cattivo Franz ma, certamente  nei confronti del valoroso  Karl, avrei covato i sentimenti della rabbia e dell'invidia. Ecco cosa fa il terzo fratello, quello né cattivo né buono: rosica e non sa fare altro.  

Il colore della mia carta era di un marroncino chiaro, odorava di muffa troppo spesso, non mi era rimasto altro su cui scrivere. Scrivevo tutto ciò che mi passava per la testa, ma da un po' di tempo mi vennero strane idee. Iniziai ad appuntarmi i movimenti delle persone che incontravo a Montréal.
A furia di appuntarmi orari e movimenti potevo conoscere gli spostamenti di molti individui, così era nato il mio nuovo mestiere, quello dello stalker, la guida illegale. L'assassinio in se era diventato un atto anche facile da eseguire, ciò che era ben più arduo era avere tutte le condizioni necessario per arrivare a tu per tu con la propria vittima, a questo serviva lo stalker: far si che la vittima capitasse nell'orario giusto, nel posto giusto.  
Venne a trovarmi nel mio appartamento la contessa Deportuase dicendomi che aveva ingaggiato un certo sicario rozzo e senza scrupoli per uccidere il proprio marito. L'uomo che sarebbe stato poi la vittima lo seguivo già da tempo per altri incarichi, aveva una fabbrica  a Montrèal,un'azienda che costruiva pistoni per macchine pesanti dietro la quale si celava un traffico illecito di carburante per veicoli  a basso costo.  
In un modo o nel l'altro il marito della contessa sarebbe dovuto morire ed io ero quella fatalità che lo avrebbe condotto nel vicolo della morte.
Né buono né cattivo ripeto è il terzo fratello, più che altro un scherzo del destino, una definizione più vicina al mio senso di giustizia.  

Camminavo ormai giunto nei presi del porto quando da dietro qualcuno mi chiamò:
-Montrace Lesage!
Mi voltai e vidi un uomo in mantello nero e con un cilindro in testa.
- Sì sì proprio cercavo,Lesage.
Pensai che  in quel porto di gente brutta ne avevo già incontrata, ma nessuno mi aveva mai chiamato per nome e cognome, un cattivo presagio passò di lì, mi sfiorò la fronte ad asciugò una goccia di sudore. Sapevo che la città non aspettava altro che farmi fuori, in cuore mi pesavano ormai un centinaio di omicidi, complotti e sabotaggi di ogni tipo.  Ero uno stalker ed era normale per me temere il peggio.
-Lei chi è, scusi?
-Dammi pure del "tu" caro Lesage, perché non c'è niente di formale in questo nostro incontro. Mi manda il conte...
-Il conte chi? Domandai io facendo finta di nulla...
-Chi ignobile essere sei Lesage, sai bene di chi parlo, sai anche di star per morire...eppure non ti perdi d'animo, pensi di potermela fare?

Sapevo che stava parlando di Aubert, marito della contessa Deportuase.  Non erano borghesi, erano aristocratici, da sempre nella battaglia erano stati al di sopra delle parti, mentre lui, il loro vasallo mi puntava contro una carabina con l'intenzione di freddarmi lì.
Cercai di fare in fretta, aggrapparmi al volo ai ricordi, giri di gente, incontri notturni e luci soffocate di botteghe puzzolenti.
Lo vidi e lo riconobbi come un'ombra che mi seguiva da mesi. Cosa lo aveva portato a me ormai mi era chiaro, non mi era chiari però perché non mi avesse ucciso prima.
Si avvicinò con l'arma ancora puntata dritta alla mia fronte, mi frugò sotto la giacca e tirò fuori il mio coltello. Avevo con me anche dei franchi in oro ma  a lui non interessavano.
-Se pensi che questa sia una lotta tra te e qualcuno, se pensi che qualcuno ti abbia fatto torti in passato, se pensi di aver diritto a metter giustizia o a farti giustizia, se pensi che l'ordine delle cose possa dipendere da un fantasma che si nasconde da parassita nei luoghi di questa società... se pensi seriamene tutte queste cose io dovrei ucciderti per davvero in questo giorno maledetto.  

Il cuore mi pulsava interrottamente ad altissime frequenze; uno la morte per arma da fuoco se la immagina grossomodo come uno stacco brusco ed improvviso della corrente, una cosa veloce. Il passare degli attimi invece era eterno, grondavo sudore e iniziavo già a puzzare come un cadavere, per me era già morto da qualche minuto. Lui non sorrideva, non accennava a nessuna smorfia teatrale, era freddo e serio; iniziai a pensare che stava dispiacendosi in qualche modo per qualche cosa.
-Allora non mi ucciderai.- Dissi a voce tremula.
-Vedi Montrace, c'è una grossa differenza tra quelli come te che farneticano ideologie e farebbero di tutto per mettere in atto qualche rivoluzione e quelli che come me invece tengono a bada il quieto vivere. Io sono l'ordine delle cose e non cerco la violenza... io qui per te sono la grazia.
-Tu non sei un bel cazzo invece...-  Lo interruppi io quasi arrabbiato. -Uccidimi piuttosto ma non posso proprio tollerare che tu sia qui a crederti un'entità superiore. Sei solo il servo del tuo padrone, mettitelo bene in testa amico. Io so chi sei, sei la guarda persona del conte, sei colui che mi pedina da quando mi hanno incaricato di ucciderlo. Scopi con sua moglie, dimmi la verità? E' quella donna a provare pena per me, non certo. E tu cosa sei in fin dei conti? Non sei neanche la metà di un borghese e non sarai mai nulla.  Ora uccidimi perché sono nauseato dai vostri comportamenti, sono disgustato dai vostri piani e dai vostri complotti. L'ordine delle cose appartiene a Dio mentre voi siete solo feccia.
-Tu credi a Dio, Montrace?
-Certo che no, ma in questo momento mi aggrapperei a tutto pur di farti sentire la merda che sei.  
-Plebeo nasci, plebeo muori...

Diedi un ultimo sguardo al porto, lì alcuni commercianti stavano ancorando le loro navi e scaricavano le merci. Avrei voluto navigare nella mia vita, aver a che fare con il mare anziché mangiare la terra ferma, questi uomini spregevoli e le discriminanti leggi. L'ordine delle cose,diceva San Tommaso, risiede nell'amore e per l'amore ogni singolo individuo è spinto a vivere nel rispetto dell'uomo.
Mi chiamo Montrace Lasage non ho mai creduto in niente se non alla crudeltà di Franz Moore, rappresenta il mondo così come è sempre stato e così come sempre sarà, quelli come Karl, il fratello rivoluzionario, muoiono e se va bene vengono lasciati per terra con la testa spaccata dall'urto contro il bianco cemento.
Ecco cosa siamo: solo dei grandissimi sassi.























   
 
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