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Autore: Mia Swatt    14/04/2012    9 recensioni
Per il centenario dell’affondamento del transatlantico Titanic, ho deciso di scrivere una piccola one-shot per omaggiare la storia, ispirandomi alla più grande e pluripremiata pellicola di James Cameron.
Protagonisti di questo piccolo, ma soprattutto non pretenzioso tributo, sono la giovane e ricca Isabella Marie Dwyer Swan e lo scapestrato Edward Masen. Il viaggio per l’inaugurazione del più grande transatlantico mai creato prima di allora, li farà incontrare ed innamorare. Quello che non sanno, però, è che il loro amore farà da scenario ad una catastrofe ben più grande. Nella notte tra il 14 e il 15 Aprile, la nave, entrerà in collisione con un iceberg, intorno alle 23:40, che ne causerà l’affondamento – con innumerevoli morti – nelle prime ore del mattino, 2:20 per la precisione. Amore, disperazione, paura, panico… Tutto questo è ciò che è stato allora e che rivivrà adesso.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Mike Newton
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Buon pomeriggio a tutti!
Per chi non mi conoscesse, diciamo che sono un'habitué di questo fandom, ma non è di Twilight che voglio parlarvi in questo momento. Prima di lasciarvi alla lettura, perciò, ci tengo a dirvi alcune cose... Per il primo centenario dell’affondamento del transatlantico Titanic, ho decido di fare un piccolo omaggio al suo ricordo.
Sono in pochi a sapere che questa tragedia non portò solo morte e dispiacere, ma segnò anche la fine di un’epoca. L’affondamento della nave RMS Titanic, ha influito in maniera piuttosto incisiva nella storia e sulla coscienza dell’Europa e dell’intero globo. Non a caso, alla vicenda del Titanic, sono stati dedicati innumerevoli titoli bibliografici e almeno una dozzina di pellicole cinematografiche. Ho deciso di ambientare la storia nel fandom di Twilight, solamente perché - a MIO parere - sarebbe stato un po' assurdo scrivere un'originale, quando la seguente flash-fic, è stata volutamente ispirata, non copiata, riadattata, all'indimenticabile film di James Cameron, prendendo informazioni REALI dell'accaduto.
Spero apprezzerete questo piccolo omaggio - a cui tengo davvero moltissimo - a questa triste, quanto evitabile, tragedie di cento anni fa.

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TITANIC
Una data da ricordare


« Sai qual è l'errore che si fa sempre?
Quello di credere che la vita sia immutabile,
che una volta preso un binario lo si debba percorrere fino in fondo.
Il destino invece ha molta più fantasia di noi.
Proprio quando credi di trovarti in una situazione senza via di scampo,
quando raggiungi il picco di disperazione massima,
con la velocità di una raffica di vento tutto cambia,
e da un momento all'altro ti trovi a vivere una nuova vita. »
Susanna Tamaro.



Era il 15 Aprile 1922 e come ogni anno, da dieci anni, tornavo nella mia città natale.
Southampton era una città della contea dell'Hampshire nella regione del Sud Est del Regno Unito. Situata sul bordo meridionale della Gran Bretagna, sul golfo del Solent di fronte all'isola di Wight, era sempre stata molto famosa per il suo grande porto – uno dei maggiori sulla costa meridionale. Fu proprio da qui che, il 10 Aprile 1912, salpò il transatlantico più grande al mondo: l’RMS Titanic.
Erano passati dieci anni, eppure ricordavo ancora tutto alla perfezione. La mia ricchezza, la mia testardaggine, la mia famiglia – troppo attaccata al denaro per comprendere altre cose. La maestosità di quella nave, il grande salone, i balli… Ma il dettaglio più vivido, che il tempo non aveva mutato di una virgola, era il colore dei suoi occhi. Due smeraldi liquidi. Era passato così tanto tempo, ormai, che era assurdo tutto quello che percepivo ancora quando chiudevo gli occhi: l’odore della vernice fresca, i servizi di porcellana mai stati usati, le lenzuola immacolate… Il Titanic era chiamato la nave dei sogni. E lo era, lo era davvero.
Cercai di riscuotermi da quella trance e di darmi un contegno. Il sole stava tramontando, dietro la linea dell’orizzonte, ed io dovevo tornare a casa.
Il fischio di una nave in partenza mi fece voltare di scatto e, come se fossi stata investita da una doccia fredda in pieno inverno, i ricordi tornarono con prepotenza, manifestandosi davanti ai miei occhi.

* * *

Mercoledì, 10 Aprile 1912.
Southampton, Inghilterra
.

Nonostante i miei capricci, non riuscii a far cambiare idea ai miei genitori.
Si erano convinti che, come famiglia ricca e benvista, fosse doveroso partecipare all’inaugurale viaggio del più grande transatlantico mai costruito prima di allora.
Arrivammo al porto di Southampton poco prima delle dodici, tempo accessibile perché i nostri bagagli potessero venire caricati sul Titanic.
Tutta l’Inghilterra – e non solo, da quel poco che avevo capito – era in agitazione per questo evento. La questione mi lasciava indifferente. Era una nave, non concepivo il motivo di tutto quel fracasso.
― Quindi è questo, il fantomatico Titanic. ― disse mio padre, scendendo dall’automobile.
― Sono impressionata. ― commentò mia madre, porgendo la mano a suo marito, affinché l’aiutasse a tornare con i piedi per terra.
― Non capisco il motivo di tutta questa meraviglia. ― esordii, visibilmente annoiata ― Non mi sembra molto più grande del Mauretania.
Si può essere blasé riguardo ad alcune cose, Bells, ma non riguardo al Titanic. ― mi rimproverò il mio futuro marito, tale Michael Newton ― È almeno trenta metri più lungo del Mauretania, e molto più lussuoso. Sua figlia è davvero impossibile da sbalordire, Renée. ― concluse, rivolgendosi a mia madre. Sbuffai accigliata. Erano molte le cose che odiavo, ma detestavo di gran lunga quando la gente parlava di me in mia presenza, senza però calcolarmi.
Presi un profondo respiro e mi concentrai sull’oggetto che mi era davanti.
Il Titanic era una nave passeggeri britannica dell’Olympic Class, costruito presso i cantieri Harland and Wolff di Belfast. Rappresentava la massima espressione della tecnologia navale ed era il più grande e lussuoso transatlantico del mondo, fino ad oggi, almeno, progettato e realizzato. Seconda, da quel che si diceva, di altre due navi gemelli, quali l’Olympic e il Brittanic. Fu progettato per offrire un collegamento settimanale di linea con l'America e garantire il dominio delle rotte oceaniche alla White Star Line.
Non lo avrei ammesso nemmeno sotto tortura, ma guardandolo meglio, e con occhio critico, risultava essere davvero mastodontico.
― Allora, Bells? ― domandò Mike, offrendomi il braccio sinistro ― Andiamo? ― annuii, e insieme ci incamminammo sul ponte, affinché salissimo a bordo.
Una volta entrati, ad attenderci, trovammo di tutto: dai più ricchi ai più poveri, e c’erano perfino dei cani. Mio padre si fece largo tra la gente e ci invitò a seguirlo. La prima classe era situata verso il ponte E.
― Le signore vogliono visitare la nave, prima della partenza? ― domandò Mike, richiamando il suo fidato Tyler Crowley, una sorta di guardia del corpo personale.
― Andate pure. ― disse mio padre ― Farò vedere io alla servitù dove sistemare i nostri bagagli. Mr. Crowley, venga con me e mi dia una mano. ― e detto ciò, sparirono tutti e due.
Io e mia madre, invece, seguimmo distrattamente Mike, che ci fece da guida.
L’interno era anche più splendido dell’esterno… L’arredamento era molto sfarzoso; sale, cabine e ponti erano davvero molto decorati. Il grande scalone di prima classe, una scala che collegava tutti i ponti riservati alla prima classe, dal ponte aperto al ponte E, era arredato in stile Luigi XVI ed era sormontato al ponte aperto da una grande cupola in vetro e ferro battuto che illuminava l'intero ambiente. Il corrimano del pianerottolo del ponte A era decorato da una grande lampada bronzea raffigurante un cherubino. Sui pannelli dei pianerottoli di mezzo ponte erano situati grandi quadri. La grande scala sfociava al ponte D nella sala della reception, con un grande candeliere di ventuno lampade. Sul retro della scala erano situati tre ascensori, decorati nello stesso stile. Un ambiente identico ma rivestito di pannelli di legno chiaro collegava i ponti A, B, e C, ed era utilizzato come sala di reception per i ristoranti del ponte B. Il salone, situato fra il secondo e il terzo fumaiolo, era stato ideato per i passeggeri che desideravano trascorrere il tempo leggendo, giocando a carte, bevendo il tea o ascoltando la musica dell'orchestra. La sala era decorata da grandi pannelli in quercia, secondo lo stile Luigi XV, i cui motivi ornamentali erano stati tratti dal palazzo di Versailles. Su un lato della sala era situato un piccolo camino in marmo, sul quale poggiava una statuetta di Artemide. Al centro, sul soffitto, un grande lampadario illuminava l'ambiente. La sala di scrittura e di lettura, era interamente ideata per le signore, che si potevano riunire a qualunque ora del giorno o della notte. Arredata in stile georgiano, era disposta in due ambienti separati da un grande arco sostenuto da colonne con capitelli corinzi. Non poteva mancare il salone per veri maschi, ovviamente. Essi potevano raggiungere la sala fumatori per tutta la giornata, ma soprattutto dopo cena. Era arredata in stile georgiano, con grandi pannelli in mogano scuro e intarsi di madreperla. A decorare la stanza vi erano anche grandi vetrate colorate, illuminate artificialmente. Le finestre, che davano sul ponte di passeggiata, erano ornate con scene di porti di tutto il mondo.
― Assolutamente sublime. ― disse mia madre, per l’ennesima volta.
― Adesso possiamo andare in camera? ― domandai, cominciando a sentire un doloroso fastidio ai piedi.
― Isabella, sei una guastafeste. ― mi accigliai. Ero una guastafeste? Insomma, stavamo andando su e giù per quella nave da almeno un’ora. Tra poco sarebbe partita, perfino! Non meritavamo un po’ di tranquillità, dopo aver fatto un lungo viaggio in automobile?
― Forse Bells è stanca, Renée. ― sussurrò Mike, baciandomi il dorso della mano.
― Esatto, sono solo molto stanca. ― affermai ― E credo di avere anche un leggero mal di testa, che non vorrei peggiorasse. Avremo molti giorni per visitare il Titanic, anche meglio di ora, perché non raggiungiamo la nostra suite?
― E va bene, Isabella. ― rispose Renée, sospirando. Il mio sorriso si allargò e ci apprestammo a raggiungere le nostre stanze.
Le cabine di prima classe erano le più eleganti di qualsiasi altro transatlantico. Erano arredate in vari stili – reggenza, olandese moderno, olandese antico, impero, Luigi XV, Luigi XVI, Regina Anna, georgiano e Rinascimento Italiano. Per i passeggeri più abbienti erano disponibili le suites: due Presidential suites e due Royal suites. La nostra, ovviamente, era la Royal suite. Decorata in stile Luigi XVI, comprendeva un soggiorno, tre camere da letto, due bagni privati, due guardaroba e un ponte di passeggiata privato.
Mentre camminavamo lungo i ponti e i lunghi corridoi, sentii il primo fischio della nave. Era un avvertimento per chi era ancora a terra, tra poco saremmo salpati.

Passata la giornata a cercare di rendere più accogliente la mia stanza, la sera era arrivata in un batter d’occhio. Mentre rimiravo l’oceano, dinanzi a me, attendevo che mia madre si decidesse ad uscire dalle sue stanze.
― Mike. ― chiamò mio padre, uscendo dalla suite ― Tu e Bells andate pure, io e mia moglie vi raggiungeremo a breve.
― La signora non trova il vestito, Charlie? ― lo punzecchiò il mio futuro marito, gentilmente. Mio padre lo adorava, come mia madre del resto. L’unica insoddisfatta di tutta quella situazione ero io.
Avevo diciassette anni, perciò ero in età da marito. Sposare Mike, però, non mi rendeva felice. D’altro canto, non potevo fare altrimenti. La mia famiglia aveva perso tutta la sua ricchezza e i Newton erano i magnati più ricchi di tutta la Gran Bretagna. Sposarmi con il loro primogenito – di diversi anni più grande di me – era risultata la scelta migliore e, secondo mia madre, più facile.
Eravamo fermi a Cherbourg, in Francia. Il Titanic stava sostando con tutte le luci accese davanti al grande porto, dopodiché sarebbe ripartito alla volta di Queenstown, in Irlanda.
Io e Mike ci stavamo dirigendo a cena, esattamente come aveva richiesto mio padre. A scortarci, come sempre, c’era Mr. Crowley – meglio conosciuto come scagnozzo tutto fare, o guardia privata, di Mike Newton.
Scendemmo dalla grande scalinata della prima classe, per dirigerci verso il salone ristorante.
Come tutta la nave, anche quella stanza era curata in ogni minimo dettaglio. Era lunga trentacinque metri, arredata in stile giacobiano e georgiano. L’ambiente era illuminato da una moltitudine di plafoniere; le sedie erano rivestite in pelle verde, mentre le pareti e il soffitto erano stuccati di bianco.
― È davvero bellissimo, tutto questo. ― dissi, sfortunatamente a voce alta. Mi morsi la lingua, maledicendomi per l’enorme errore. Dovetti ammettere a me stessa che il Titanic mi stava lasciando senza fiato.
― Noto che stai facendo trasparire finalmente il tuo apprezzamento, Bells. ― disse Mike, sorridendo a diversi uomini, mentre mi scortava al tavolo ― Ma comunque, tu sei molto più bella di questa nave, tesoro. ― arrossii leggermente. Nonostante non saltassi di gioia all’idea di sposarlo, dovevo ammettere che sapeva sempre cosa dire per elogiarmi e, di conseguenza, mettermi in imbarazzo.
Abbassai lo sguardo, per dare un’occhiata al mio abbigliamento. L’abito era intero, realizzato in seta giallo-oro con inserti in merletto verde scuro. L’acconciatura era curata; capelli arricciati alzati sulla nuca, tenuti fermi da una miriade di ferretti. Mike, invece, indossava uno smoking nero e una semplicissima camicia bianca, sotto. I capelli erano pettinati e tirati completamente all’indietro.
― Signor Newton! ― sentimmo chiamare. La voce proveniva da un tavolo circolare, piuttosto grande.
― Carlisle! Ma quale piacere trovarti qui! ― rispose Mike, dirigendosi verso l’uomo.
Era adulto, anche se dimostrava meno anni di quelli che realmente aveva. Alto, ben posato e di bell’aspetto, con capelli scuri e occhi chiari. Alla sua sinistra sedeva la signora Cullen, Esme, sua prima e unica moglie. Notai anche i figli: Mary Alice e Emmett Royce Cullen.
― C’è tutta l’alta borghesia, mio caro Mike. Come potevamo mancare? ― domandò Carlisle, invitandoci a sedere.
La famiglia Cullen era quella che mia madre considerava i “nuovi ricchi”. Persone nate povere che, dopo una grande fortuna, erano divenute molto ricche. A me non era mai importato nulla di tutto ciò. Al contrario, trovavo molto simpatici i loro figli – soprattutto la piccola Alice.
― Isabella, che piacere averla a bordo. ― disse Jasper Hale, spostandomi la sedia perché mi accomodassi ― Spero che il Titanic sia di vostro gradimento.
― Grazie mille, signor Hale. ― risposi, accomodandomi ― La nave è bellissima, davvero i miei complimenti. ― conclusi, ricambiando il suo sorriso.
Jasper Hale Jr. era un progettista irlandese, amministratore delegato e capo del reparto di architettura per la società di costruzioni navali Harland e Wolff di Belfast, Irlanda. Fu lui, infatti, il responsabile costruttore navale addetto alla realizzazione dei piani per la nave. Era a bordo con sua sorella minore, tale Rosalie Lillian Hale. Orfani di madre e padre, potevano contare solo su loro stessi e sull’enorme patrimonio che, proprio i genitori, gli avevano lasciato.
Pochi minuti dopo, anche mia madre e mio padre – seguiti da Mr. Crowley – riuscirono ad unirsi a noi. La tavola era, così, finalmente al completo.
Erano sempre pasti molto abbondanti, troppo forse. Come se avessimo bisogno di mangiare fino a scoppiare, con l’unico vero motivo di osteggiare in continuazione la nostra esorbitante ricchezza. Diversi tipi di antipasti, compresi di ostriche e caviale; una varietà eccessiva di portate principali, che andavano dall’agnello alla menta al filetto, controfiletto, pollo alla lyonnese, risotti; per non parlare, poi, delle innumerevoli varianti di contorni – dalle patate cucinare in qualsiasi modo possibile, fino alle creme di piselli - e di dessert.
― Dicono che questa nave sia inaffondabile, signor Hale. ― disse mio padre, mangiando il suo pudding.
― Ho cercato di creare una nave molto sicura. Il Titanic è stato varato e controllato con minuziosità… Si dice che nemmeno Dio in persona potrebbe affondare questa nave.
― E chi ha pensato al nome “Titanic”? ― domandò la signora Cullen, sorseggiando un bicchiere di punch ― È stato lei, vero Eric?
― Beh, a dire il vero, sì. ― rispose lui ― Volevo trasmettere grandezza pura. E grandezza significa stabilità, lusso, ma soprattutto, forza.
Ha mai sentito parlare del dottor Freud, signor Yorkie? ― domandai, palesemente annoiata da tutte quelle chiacchiere, ma soprattutto da tutta quella falsità ― Le sue teorie sulla preoccupazione del maschio riguardo alla grandezza potrebbero risultare particolarmente interessanti per lei. ― notai i miei genitori accigliarsi, soprattutto mia madre. Mentre a tutti gli altri, la mia piccola battuta sembrò essere stata particolarmente gradita. Emmett per poco non si strozzò col suo punch, mentre il signor Hale ridacchiava sotto i baffi.
― Isabella! ― mi riprese mio padre ― Ma cosa diavolo ti prende?
― Nulla. ― sussurrai, spostando la sedia all’indietro ― Con permesso.
Con la coda dell’occhio notai tutti i signori alzarsi, per galanteria e bon-ton; riuscii perfino a sentire la domanda più cretina che poteva essere fatta.
― Freud? E chi sarebbe, uno dei passeggeri? ― domandò il signor Yorkie, senza ricevere alcuna risposta.

Quella sera era piuttosto mite e le stelle si mostravano chiare, in tutto il loro splendore.
Lasciato il ponte E, ero risalita fino alla prua. Davanti a me – a tutti noi –, c’era solo l’oceano scuro.
La nave dei sogni… ― mormorai sarcastica ― La nave dell’ipocrisia e della falsità acuta! Dannati tutti! Mi sono proprio scocciata di stare qui.
Avevo davanti agli occhi tutta la mia vita, come se l'avessi già vissuta. Un'infinita processione di feste, balli di società, yacht, partite di polo… Sempre la stessa gente gretta, lo stesso stupido cicaleccio. Mi sentivo sempre come sull'orlo di un precipizio, e non c'era nessuno a trattenermi; nessuno a cui la cosa importasse o che se ne rendesse almeno conto.
― Ed io che pensavo che le signore di alto rango avessero un’educazioni senza pari. ― sentii mormorare, e mi voltai di scatto.
Dinanzi a me, sdraiato su una panchina di legno, con solo una maglietta nera e un pantalone con bretelle marroni, c’era un ragazzo. Dimostrava poco più di vent’anni ed era di una bellezza devastante. I capelli erano di un insolito colore bronzeo, gli occhi di un inaudito verde smeraldo… La sigaretta tra le labbra, poi, gli donava un’aria molto attraente.
― E lei chi sarebbe? ― chiesi, indispettita dal suo commento ― Non le hanno mai detto che è maleducazione ascoltare i discorsi della gente?
― Io ero qui da prima, signorina. ― rispose, buttando fuori un po’ di fumo ― È lei che ha parlato a sproposito, senza prima accertarsi che ci fosse qualcuno o meno, nei paraggi. ― la sua risposta mi fece fumare il cervello. Insomma, chi diavolo era questo ragazzino arrogante?
― Non mi ha ancora detto chi è lei.
― Mi chiamo Edward Masen. ― rispose, alzandosi, e venne verso di me. Spense la sigaretta e mi porse la mano destra.
Restai a fissarla per un po’, indecisa sulla mossa successiva da fare. Potevo fidarmi?
― A questo punto lei dovrebbe stringere la mia mano e presentarsi. ― incalzò, sfoggiando un sorriso sghembo che mi lasciò senza fiato. Il cervello si scollegò e l’istinto prese il sopravvento.
― Isabella Marie Dwyer Swan. ― risposi, con una voce da ebete ― Piacere di conoscerla.
― Caspita, che nome! Non mi chieda di ripronunciarlo perché sarebbe impossibile, per me. Mi sono fermato ad “Isabella”! ― lo fissai per un breve istante, dopodiché scoppiai a ridere.
Non so perché lo feci, ma mi fermai a parlare su quel ponte, con quel giovane, per quasi tutto il resto della serata.
Scoprii che Edward era un poveraccio – esattamente come aveva detto lui – e che era originario dell’America, ecco perché si trovava sul Titanic: stava tornando a casa. Viaggiava con un suo amico di infanzia, un certo Jacob Black, che al momento se ne stava ad una festicciola in terza classe a rimorchiare qualche bella donna.
― È mai stata nel Wisconsin? ― domandò Edward, improvvisamente.
― Ehm no, non ho mai viaggiato molto.
― Io sono vissuto lì, vicino ad un piccolo paesino che mai nessuno conosce davvero. ― sorrise, forse a causa di ricordi felici ― Ricordo che una volta, da bambino, andai a fare pesca sul ghiaccio con mio padre… Ehm, la pesca sul ghiaccio è quando… ― l’unica pecca era che mi considerava una perfetta imbecille.
So cos’è la pesca sul ghiaccio! ― lo interruppi bruscamente ― Edward, nonostante la mia ricchezza e il mio non aver girato molto il mondo, so molte più cose di quello che pensa.
― Mi scusi, davvero. Solo che lei ha tanto l'aria di, come dire, di una timorata di Dio… ― spiegò, facendomi sgranare gli occhi per lo shock ― Comunque, il ghiaccio ha ceduto e io sono caduto in acqua. E mi creda, cadere in acque gelide, come quelle laggiù, è come avere tutto il corpo trafitto da mille lame. Non riesci a respirare. Non riesci a pensare a nulla. E il pensiero di viaggiare su acque ancora più fredde di quelle mi mette un po’ d’ansia. Ma sono su una nave inaffondabile, no? ― domandò, facendomi un sorriso che contagiò anche gli occhi.
― Perché mi sta raccontando tutto questo? ― chiesi, senza sapere il motivo.
― Sinceramente non lo so. Mi sembrava solo una persona che volesse distrarsi un po’ e ho pensato di darle una mano… Mia madre sosteneva che fossi un ottimo lettore di anime, che capivo al volo le persone. Spero di non aver sbagliato proprio con lei.
― No, non ha sbagliato. ― risposi, arrossendo leggermente ― Sua madre sembra una donna molto saggia. Come si chiama?
Chiamava. Si chiamava Elisabeth. ― mi corresse, prima di rispondere ― È morta di crepacuore dopo l’assassinio di mio padre, quando avevo quindici anni. È per questo che sono andato via di casa… Dovevo trovare un modo di racimolare qualche soldo e così ho cominciato a suonare in qualche bettola. Il salario non era mai troppo, ma almeno mi consentiva di non dormire sotto i ponti.
― Oh, mi scusi. Non lo sapevo.
― Cosa? Che fossi uno scapestrato? Direi che il termine “poveraccio” poteva farglielo capire, non trova? ― mi stuzzicò sorridendo.
― No, quello si vede… ― dissi, ma mi porsi la lingua ― Nel senso… ― mi ero incartata come una cretina!
― Ho capito! ― disse, scoppiando a ridere ― La sto solo prendendo in giro, non si preoccupi.
― Mi dispiace davvero per lei, Edward. ― sussurrai, abbassando lo sguardo sulle mani ― Immagino che non sia stata una vita facile.
― Immagina? ― domandò, non smettendo mai di ridere ― Con tutto il rispetto che merita, signorina, non credo che lei possa immaginare una cosa del genere. ― mi spiazzò, lasciandomi la bocca secca. Forse aveva ragione, navigando nell’oro non potevo capire alcune cose. Ma ci stavo provando, non contava forse qualcosa?
Povera ragazzina ricca, che ne sa lei della miseria? ― sussurrai, continuando a guardare altrove ― È questo che sta pensando, dico bene?
― Veramente no. ― rispose deciso, costringendomi a guardarlo negli occhi ― Sto pensando, più che altro, a cosa è potuto succede a questa ragazza per arrivare a farle avere una luce così spenta negli occhi, ad avere un’aria così triste e malinconica. ― lo fissai per qualche istante, cercando di capire come fosse possibile che uno sconosciuto mi comprendesse più di tutte le persone che mi vivevano tutti i santi giorni. Era così palese la mia infelicità? E se così era, perché solo questo giovane si stava preoccupando di chiedermi quale fosse il problema?
Praticamente tutto! ― scoppiai, alzandomi in piedi, e cominciai a camminare avanti e indietro sul ponte ― L'intero mondo in cui vivo, e tutta la gente che ne fa parte! E l'inerzia della mia vita, che si tuffa in avanti, e io che non sono capace di fermarla. ― tornai di fronte a lui, facendogli vedere il mio anello di fidanzamento. Era un enorme diamante nero, incastonato in un fiore fatto di piccole pietre preziose.
― Miseria! ― urlò Edward, afferrando le mie dita ― Non ho mai visto una cosa del genere da questa distanza.
Sono stati inviati cinquecento inviti. ― ripresi, ignorando il suo commento ― Sarà presente tutta l'alta società di Philadelphia. E tutto il tempo mi sento come se stessi in una stanza affollata, urlando a squarciagola, senza che nessuno alzi nemmeno lo sguardo.
― Lo ama? ― domandò sfacciato.
― Come dice?
― Lo ama o no?
― Ma che gran maleducato. Non dovrebbe pormela una domanda del genere!
― Perché no? È una domanda facile. Lo ama quest’uomo, sì o no?
― Questa conversazione è inopportuna!
― Ma non può semplicemente rispondere alla domanda? ― continuò imperterrito, sghignazzando, mentre io rasentavo l’imbarazzo più sfacciato.
― È ridicolo. ― dissi, una volta ripreso il mio abituale contegno ― Lei non conosce me e io non conosco lei, e questa conversazione non sta avendo luogo. Lei è maleducato, rozzo e presuntuoso, e ora me ne vado. Edward, signor Masen anzi, è stato un piacere. ― conclusi, porgendogli nuovamente la mano, che lui afferrò ― L’ha ringrazio per la conversazione avvenuta, ma ora che l'ho ringraziata…
― E anche insultato, direi. ― disse, continuando a sghignazzare.
― Beh, sì. Ma se l’è meritato!
― Ovviamente.
― Ecco! ― dissi, senza muovermi di un passo ― Si può sapere cosa la fa ridere?
― Beh, ad essere sincero, lei. ― rispose schietto, procurandosi una nuova onda di ilarità.
― Lei è irritante, Edward! ― dissi, non rendendomi conto che stavo ridendo anche io.
― Però la faccio ridere, signorina. ― replicò, tornando serio.
Lo fissai a lungo, cercando di calmarmi anche io. La mascella dritta, i denti bianchi, la pelle chiara… Era assolutamente perfetto. I suoi occhi, poi, erano pieni di vita. Dovevo ammetterlo: invidiavo quegli occhi; invidiavo la sua vita.
― Sua madre aveva ragione. ― dissi, qualche minuto dopo ― Lei ha dono: sente le persone. ― Sento lei. ― rispose serio, fissandomi negli occhi.
Non avevo mai provato quelle sensazioni, e consideravo assurdo che fosse uno sconosciuto a donarmele.
Distolsi lo sguardo, sentendo il mio cuore battere come mai prima, e cercai di spostare il discorso su qualcosa di più frivolo. Decisi, quindi, di stuzzicarlo.
― Ah sì? E quindi, cosa sente? ― lo sfidai, alzando il mento per darmi un’aria da nobildonna.
― Crede nel destino, Isabella? ― domandò, lasciandomi spiazzata ― Io sì. E credo che sia stato il destino a farci incontrare, stasera. ― passai il resto del tempo a fissarlo, senza sapere cosa rispondere.
― Bells! ― sentii chiamarmi, ma la voce mi sembrava così lontana ― Isabella, sta’ lontana da quel giovane! Non vedi che è uno straccione? Potrebbe farti del male!
― Lei ha visto troppi film, signore. ― rispose Edward, indietreggiando di qualche passo. Mi voltai in direzione dei suoi occhi e notai Mike, accanto a me.
― Mike. ― lo salutai, sperando che non avesse sentito il commento sarcastico di Edward.
― Ti stavo cercando dappertutto. ― disse, mettendomi la sua giacca addosso ― Pensavamo ti fosse successo qualcosa, zuccherino.
― Perché mai, scusa? ― domandai, non capendo la sua preoccupazione ― Sono venuta sul ponte e il signor Masen si è intrattenuto qualche minuto con me. ― spiegai, cercando di restare calma ― È stato molto gentile, non credi?
― Gentilissimo. ― disse ironico, alzando gli occhi al cielo ― Beh, andiamo in camera?
― Certo. ― risposi, avvilita. Sapevo che non avrei mai vinto contro di lui. Inoltre, Mike, aveva un potente ascendente sui miei genitori; se non fossi andata con lui, probabilmente, li avrebbe mandati a cercarmi. Non volevo fare figuracce.
― Allora ci vediamo, Isabella.
Signorina Isabella, prego. ― lo ammonì Mike, facendo alzare un sopracciglio al ragazzo dagli occhi verdi.
― Non è necessario, Mike. ― dissi, spingendolo via ― Ci si vede, Edward. ― lo salutai, camminando verso l’interno della nave, con Mike che borbottava tra sé e sé.
Sospirai, rassegnandomi al fatto che la breve vacanza dalla mia vita fosse appena finita.

A Queenstown salirono altre persone, rendendo il Titanic finalmente completo di tutti i suoi passeggeri. Tra noi e l’equipaggio, a bordo, c’erano all’incirca 3550 persone.
Il Titanic era un gioiello di tecnologia ed era ritenuto “praticamente inaffondabile”– frase che avevo sentito più in due giorni che in tutta la mia vita. La sua stazione radio, poi, era considerata la più moderna e potente mai installata su un bastimento: la portata raggiungeva una distanza di quattrocento miglia e le antenne erano collocate sui due alberi maestri ad un'altezza di sessanta metri, distanti tra loro centottanta metri. La chiglia della nave aveva un doppio fondo cellulare e lo scafo era suddiviso in sedici compartimenti stagni, le cui porte a ghigliottina si potevano chiudere automaticamente dal ponte di comando. Questi comparti, però, non attraversavano tutta l'altezza dello scafo ma si fermavano al ponte E. Il Titanic, perciò, avrebbe potuto galleggiare anche con due dei compartimenti intermedi allagati, oppure con tutti i primi quattro compartimenti di prua allagati.
― Mi perdoni, signor Hale. ― dissi, rivolgendomi al mio cavaliere per quell’occasione. Stavamo visitando tutta la nave, insieme ai fratelli Hale, appunto ― Ho fatto un veloce calcolo del numero delle scialuppe moltiplicato per la capacità di ognuna. E mi perdoni, ma… Pare che non ce ne siano a sufficienza per tutti i passeggeri.
Solo per la metà. ― rispose, sorridendomi come se nulla fosse ― Ah, Bells, non le sfugge nulla, eh? Infatti feci installare questo nuovo tipo di gru – il modello "Welin", in grado di sostenere complessivamente trentadue scialuppe di salvataggio e ammainarne sessantaquattro – che può tenere una fila di scialuppe in più da questo lato. Ma c'era chi sosteneva che il ponte avrebbe avuto un aspetto troppo disordinato. Così la mia proposta fu bocciata, facendo montare soltanto sedici scialuppe.
― Uno spreco di spazio, infatti, signor Hale. ― intervenne Mike, con aria strafottente ― Questa nave è praticamente inaffondabile! ― questa frase stava cominciando a stancarmi.
― Dorma sogni tranquilla, piccola Bells. Le ho costruito un’ottima nave, forte e robusta. Ma la vera bellezza e il verso sostegno di essa e di questo viaggio inaugurale è lei, signorina. ― disse, sorridendomi caloroso.
― Fratello, ti dispiace se io e la giovane Isabella andiamo nella sala di lettura? ― domandò Rosalie, notando il mio improvviso malumore.
― Per me non vi è alcun problema. ― rispose il signor Hale, lasciandomi il braccio ― E lei, Mike? Lascerà andare la sua dolcissima futura sposa con mia sorella?
― Basta che non esca dalla prima classe. ― disse, lanciandomi uno sguardo piuttosto eloquente ― In quel caso, puoi andare tranquillamente, zuccherino.
Seguii Rosalie per i vari ponti e, anche se non ero una cima nell’orientarmi, capii che non ci stavamo dirigendo dove aveva detto.
― Stiamo andando al Café Parisien. ― disse, inaspettatamente ― Prima che mio fratello mi trascinasse in questo giro turistico, come se non conoscessi questa nave a memoria!, ho incontrato la signorina Cullen, Alice, e mi ha dato appuntamento qui per il tea delle cinque. Spero che non ti dispiaccia.
― Oh, no! Affatto. Anzi, ti devo molto.
― Lo sospettavo. ― disse, ridacchiando ― Non mi sembravi molto contenta nel fare il giro anche della sala macchine.
― Si vedeva molto? ― chiesi, cercando di ridarmi un tono. Erano un po’ troppe, ora, le persone che riuscivano a capirmi solo guardandomi in faccia. Che stessi diventando un libro aperto?
Il Caffè Parigino, era ideato per assomigliare ad una tipica passeggiata parigina, completa di piante rampicanti e mobili in vimini. L’ambienta era arioso e molto luminoso.
Raggiungemmo Alice ad un tavolino abbastanza in fondo. Era già lì e ci stava aspettando.
― Bene arrivate. ― disse, salutandoci ― Com’è stata la passeggiata sul ponte?
― Buon pomeriggio a te, Alice. ― salutò Rosalie, prendendo posto di fronte a lei ― Conosci mio fratello, quando comincia a parlare dei suoi gioielli non la smette più.
― Vero. Ma è adorabile. ― controbatté la ragazza che ricordava tanto un folletto.
Le due giovani donne, sedute ai miei lati, erano molto diverse l’una dall’altra. Mary Alice Cullen, era minuta; con un colorito chiaro e i capelli neri, i quali incorniciavano un viso rotondo, sul quale erano incastonati due occhi azzurri come il cielo. Rosalie Lillian Hale, invece, sembrava più matura per l’età che aveva. I capelli biondi, lunghi e lucenti, stavano alla perfezione su un viso lungo e sottile; gli occhi erano castani, e il sorriso di una tenerezza disarmante. Sotto quella debole parvenza di dolcezza, però, si avvertiva la presenza di una donna forte e temeraria.
― E lei, Isabella? ― mi domandò Alice, destandomi dai miei sciocchi pensieri ― Pronta per il gran giorno? Mio padre mi ha comunicato del vostro matrimonio con il venerante Newton. ― a quelle parole storsi il naso.
― Sì, pronta. Ma mi dia del “tu”, Alice, la prego.
― Come desideri, Isabella, ma questo vale anche per te. ― ribatté lei, sorridendomi.
― D’accordo, Alice.
Restammo a chiacchierare lì, nel Café Parisien, per almeno un’ora. Scoprii che la piccola Cullen era interessata al fratello di Rosalie, mentre quest’ultima aveva iniziato una frequentazione con Emmett, nonché fratello di Alice. Erano due persone particolarmente simpatiche, e mi piacque moltissimo stare in loro compagnia.
― Jake, stai attento!
― Non dovrei stare attento, se i passeggeri di prima classe evitassero di mandare qui giù i propri cani a fare le loro cagatine!
Mi bloccai all’istante, riconoscendo quella voce. Mi sporsi dal ponte e lo notai. Era al piano inferiore rispetto al mio. Sedeva su una panca, esattamente come la sera precedente, e aveva una sigaretta mezza consumata in bocca. I capelli sempre scompigliati e il sorriso in bella mostra.
― Isabella? Isabella? ― chiamò Rose, costringendomi a voltarmi ― Cosa stai guardando?
― Ehm, ecco… Sentite, ve la prendete se vi lascio qui? Ho visto una persona che conosco e vorrei andare a salutarla.
― Ma quello è il ponte di terza classe. ― disse Alice, senza ribrezzo nella voce ― Chi conosci in terza classe?
― Una persona. ― risposi, arrossendo.
― Non so se sia una buona idea. Mike mi ha pregato di… ― tentò Rosalie, ma la bloccai all’istante.
― Oh, e chissene frega di Mike! ― sbottai, vedendole sgranare gli occhi ― Voglio dire… Ho anche io una vita mia, no? Vorrei solo andare a salutare una persona che conosco, non mi sembra di commettere chissà quale affronto. ― Inoltre, lui mi soffoca, pensai, ma non lo dissi. Era vero, però. Per Mike ero una bambolina, un premio da osteggiare come il più importante o prezioso. Cominciavo ad esserne stufa.
― Va bene, Isabella. ― disse Rosalie, sospirando ― Ti aspettiamo nella sala di lettura, ma non metterci troppo. ― mi salutarono e si allontanarono, senza però smettere di lanciarmi occhiate interrogative.
Come una pazza, afferrai l’orlo della gonna del vestito, e mi precipitai verso il ponte di terza classe. La gente mi fissava stranita, chiedendosi dove stesse correndo una giovane altolocata come me. Non davo loro tutti i torti, il mio comportamento lasciava perplessa anche me.
― Questa sera suoni o no? Paul vuole saperlo. ― disse il ragazzo dai capelli neri, piuttosto abbronzato. Avevo sentito che Edward lo aveva chiamato Jake.
― Non lo so, Jake. Se mi va suono, altrimenti no. ― rispose Edward, dandogli le spalle.
Era appoggiato con i gomiti alla ringhiera e fissava le onde che, a causa della nostra velocità, si infrangevano contro la nave. La sua espressione era assorta e seria. Assolutamente affascinante.
― Devo mettermi a pregarti in cinese? ― domandò Jake, inginocchiandosi di fronte ad Edward ― Guarda che lo faccio! ― e dopo averlo detto, cominciò a mettere insieme parole senza senso. Il gesto, però, fece ridere Edward, che si voltò per parlare con il suo amico.
― E va bene, Jake! Adesso alzarti cortesemente!
― Fantastico! Vado subito a dirlo a Paul. Tu cosa fai? ― domandò, mentre si rimetteva in piedi.
― Vengo anche… Isabella? ― mi chiamò Edward, incrociando il mio sguardo.
― Chi? ― chiese Jake, voltandosi dalla mia direzione. Appena mi dive sgranò gli occhi, dopodiché fischio, dando una pacca sulla spalla al suo amico ― Bravo, amico! Così si fa! Adesso vi lascio. Signorina… ― sussurrò in saluto, mi superò e ci lasciò soli.
― Cosa porta una dama altolocata come te, qui nei bassifondi di terza classe? ― mi chiese Edward, appoggiandosi al cornicione bianco.
― Ti ho visto da sopra, stavo andando nella sala lettura e…
― Sala lettura? ― chiese fischiando ― Addirittura? Avete proprio un bel po’ di roba qui sopra, vero? ― arrossi, mordicchiandomi il labbro inferiore ― Scusa, non volevo mancarti di rispetto e… Oddio, le chiedo scusa! ― strillò quasi, dandosi una mana in faccia. Lo raggiungi, facendo tre grandi falcate, e gliela tolsi dal viso.
― Sono stata io la prima ad essere maleducata. Non siamo amici e mi sono rivolta a te, a lei!, come se ci conoscessimo da anni… Non so cosa mi sia preso, sono desolata.
Eravamo così assorti nel cercare di capire di chi fosse la colpa, che non ci accorgemmo che le nostre mani erano ancora intrecciate.
Le sue dita erano lunghe, affusolate e perfette, ma soprattutto calde. Le mie mani stavano alla perfezione nelle sue. Isabella!, mi ammonì la mia coscienza. Ma cosa diavolo stai facendo? Sei fidanzata con Mike, ti devi sposare con Mike! Inoltre, ai tuoi genitori verrebbe un infarto se sapessero che provi attrazione per un giovane squattrinato! A quel pensiero ritrassi le mie mani all’istante, come se mi fossi scottata.
― Mi perdoni. ― disse Edward, allontanandosi da me. Tornò a guardare l’oceano, e il suo viso assunse un’espressione che non riuscivo a decifrare. Dispiacere, forse?
― È immenso, non è vero? ― domandai, cercando di trovare un argomento di cui parlare.
― Ti fa sentire piccolo. ― rispose, mentre io speravo silenziosamente che continuasse a parlare.
― Cosa intendi? ― chiesi, ma questa volta evitai volontariamente il “lei”.
― Beh, guarda! ― disse, allungando la mano di fronte a lui ― È una distesa d’acqua infinita, e noi siamo solo degli esserini minuscoli che galleggiano su questa superficie. Eppure, nonostante tutto questo, ognuno di noi serve a qualcosa; ogni cosa serve a qualcosa. C’è chi offende il mondo ogni giorni, ma mi chiedo come non si rendano conto di quanto esso sia incredibile… Secondo me la vita è un dono, e non ho intenzione di sprecarla. Non sai mai quali carte ti capiteranno nella prossima mano. Impari ad accettare la vita come viene. Così ogni singolo giorno ha il suo valore.
― Come fai? ― gli chiesi improvvisamente.
― A fare cosa? ― domandò, voltandosi verso di me.
― A vivere con tutto questo ardore e tutta questa passione.
― È semplice, Bella. ― disse, chiamandomi in un modo tutto suo ― Quando non hai niente, non hai niente da perdere.
― Perché non posso essere come te, Edward? ― domandai, forse più a me stessa che a lui ― Dirigermi verso l'orizzonte quando ne ho voglia. Dimmi che un giorno faremo tutto quello che ci pare, che potrò fare tutto ciò che non ho mai potuto fare prima di adesso, anche se dovessero restare solo parole.
― No, lo faremo. ― rispose, sorridente ― Sei un’ottima compagnia, tralasciando alcune piccole pecche. ― sussurrò, sfiorando il mio orecchio con il suo fiato fresco ― Berremo della birra da quattro soldi, e andremo sulle montagne russe fino a vomitare! Poi cavalcheremo lungo la spiaggia, sopra le onde. Ma tu devi farlo da vero cowboy, niente cavalcata all'amazzone.
― Intendi con una gamba su ogni lato? ― domandai, non sapendo se ne fossi realmente capace ― E potremo anche aprire una pasticceria?
― Certo! Ma come mai quest’idea?
― Beh, amo cucinare dolci, anche se mia madre odia questa mia piccola passione. ― ammisi. Non lo avevo mai detto a nessuno… ― Sostiene che non sia nella nostra natura impastare e fare tutte queste cose, che cucinare sia qualcosa di molto frivolo che spetta solo alla servitù. ― non appena conclusi la frase, mi resi conto di quanto fosse sbagliato tutto quello. Era realmente possibile stabilire quali fossero le persone importanti o quali no, solo in base ai soldi che possedevano? La risposta era no, non c’era ombra di dubbio.
― Una tipetta decisa tua madre, eh?
― Perché non vieni a cenare con me? ― chiesi, quasi contemporaneamente alla sua domanda piuttosto sarcastica.
― Come, scusa?
― Ti invito a cena. Da me, in prima classe. ― ribadii, non consapevole del guaio in cui mi stavo per andare a cacciare ― Allora, ci stai?
― Certo, va bene. ― rispose sorridendo.
― Vieni allora, ti faccio fare un giro in prima classe! E ti mostro come raggiungere il ristorante.
Tra chiacchiere e risate, passò l’ennesima ora. Edward era uno spirito libero, una piuma nel vento, e il tempo in sua compagnia passava rapido, fino quasi a scivolare via dalle mani come acqua. Mi sentivo bene quando mi trovavo con lui; mi sentivo libera, come non mi ero mai sentita prima di allora. Come se fossi sempre stata malata e lui fosse la mia medicina, l’unica cosa che riuscisse realmente a farmi sentire me stessa.
― Isabella! ― mi sentii chiamare e mi voltai. Davanti a me, ritrovai la signora Cullen.
Era sempre molto bella, nella sua semplicità: indossava un lungo abito nero, abbinato al grande cappello che portava sul capo. Accanto a lei, c’era mia madre, insieme ad altre signore di alto rango.
― Signora Cullen. Mamma. ― salutai, notando lo sguardo terrorizzato di Edward, sentendo la seconda parola.
― Isabella, non eri con le ragazze? ― domandò Renée, squadrando il mio accompagnatore senza ritegno.
― Sì, ma ho incontrato un amico. ― risposi, con risolutezza ― Edward Masen, queste sono la signora Esme Cullen e mia madre, Renée Dwyer Swan.
Le altre erano cortesi e curiose verso l'uomo che consideravo all’altezza di starmi accanto – nonostante la classe sociale, visibilmente riconoscibile, anche a causa del suo poco curato abbigliamento. Ma mia madre lo guardava come se fosse un insetto. Un insetto pericoloso, che doveva essere schiacciato immediatamente.
― L’ho invitato a cena con noi, stasera. ― dissi di colpo, provocando un innaturale silenzio.
Stavo cercando di eludere lo sguardo di mia madre il più possibile, ma sapevo benissimo che non potevo evitarlo a lungo.
― Come hai detto, prego?
― Che ha invitato a cena con noi, questo bel giovanotto! ― rispose, al mio posto, Esme ― Sembra un tipo piuttosto interessante, Edward. Saremo contenti di averla tra di noi! Non è vero, Renée?
― Certamente. ― rispose mia madre, ovviamente sarcastica.
― Beh, noi andiamo a prepararci! ― urlai, cercando di smussare la tensione ― Edward, ci vediamo più tardi, ok? Signora Cullen. ― conclusi salutando, per poi trascinare via mia madre.

Mi trovavo dinanzi all’enorme specchiera della mia stanza. Jane, la mia cameriera personale, era riuscita a domare i miei ricci. Adesso avevo un’acconciatura perfetta, con un’infinità di boccoli curati, fissati sul capo con un leggero chignon. L’abito che indossavo era molto bello ed elegante, formato da due pezzi – corpino e gonna lunga – in velluto di seta e tulle, su fondo di taffetas, con ricami di perline di vetro e pailletes. Colore di fondo era un grigio tendente all’azzurro, come le rifiniture; la tinta vera e propria del vestito, invece, era blu cobalto.
― Sta’ benissimo, Miss.
― Grazie, Jane. ― risposi, mentre mi passavo un leggero strato di cipria sulle guance. Mi recai verso lo scrigno dei gioielli e ne estrassi un girocollo a festone, che sfoggiava – al centro del ciondolo ovale – una gemma di zaffiro lucentissima.
Proprio in quel momento la porta si aprì, venendo varcata dai miei genitori e Mike.
― Può andare. ― disse mia madre, congedando Jane in malo modo.
― Bells, sei incantevole, stasera. ― parlò Mike, avvicinandosi a me. Mi baciò la mano e mi sorrise, convinto che quello spettacolo fosse per lui.
― Grazie, Mike. ― risposi, sottraendomi alla sua presa ― Mamma, papà, anche voi siete un incanto.
― Come sempre, tesoro. ― rispose Charlie, sistemando i lunghi baffi neri – nello stesso colore di capelli.
― Siamo reali, Isabella. ― disse mia madre, perforandomi con lo sguardo ― Dobbiamo essere sempre presentabili e al meglio. Noi siamo la ricchezza di ogni paese, è nostro compito essere impeccabili. ― non risposi, percependo un brivido di freddo lungo la schiena.
― Com’è questa storia, zuccherino? ― mi domandò Mike ― Tua madre mi ha comunicato il tuo invito verso quel rozzo giovanotto di terza classe. Cosa ti ha spinta a concedergli il beneficio di sedere alla nostra tavola? Pietà, forse?
― Pietà. Certo, sarà stata sicuramente quella. ― dissi, in tono sarcastico. Ma nessuno lo notò.
― Visto, cara? ― si rivolse Charlie e mia madre ― Nostra figlia non ha perso il senno, ha voluto solo fare un’opera di carità! ― concluse, scoppiando a ridere. Io e Mike seguimmo la sua ilarità – ovviamente, io fingevo senza saperne il motivo. Mia madre, al contrario, non sorrise per niente e non mi spostò gli occhi di dosso nemmeno per un istante.
― Andiamo, Bells? ― chiese Mike, porgendomi il braccio. Annuii, non molto decisa, e lo seguii lungo quella miriade di corridoi, fino ad arrivare alla grandissima e lussuosa scalinata di prima classe.
― Io andrò al tavolo, ad intrattenermi col signor Yorkie e i fratelli Hale. ― annunciò mio padre, entrando nel salone.
― Spero che questo balordo sappia cosa sia la parola “puntualità”. ― sussurrò mia madre, rivolta a Mike. Stavo seriamente cominciando ad innervosirmi.
― Oh, guardate! ― disse Mike, indicando la scalinata ― Stanno arrivando anche i Cullen.
― Chissà dov’è Carlisle. ― commentò mia madre, vedendo solo Alice scortata da Emmett ed Esme sotto il braccio di… Non posso crederci!
Sotto i miei occhi sgranati, il suo sorriso sghembo concretizzò ogni mio dubbio. Era proprio lui, solo tirato a lucido. I capelli, sempre scompigliati, adesso erano ordinati e tirati indietro; i vestiti di strada, poi, erano stati sostituiti da uno smoking nero, che lasciava intravedere la camicia bianca. I due smeraldi liquidi, però, erano rimasti esattamente identici.
― Edward… ― mi sentii sussurrare, senza rendermene conto.
Come se avesse sentito quel sussurrò, Esme lasciò andare il ragazzo, prendendo sotto braccio suo figlio. Edward, dal canto suo, accelerò un po’ il passo e si parò di fronte a me; afferrò la mia mano destra e fece un perfetto baciamano.
L'ho visto fare una volta in un cinema di terza visione. ― disse, sollevandosi di poco ― Non vedevo l'ora di rifarlo. ― concluse, facendomi scoppiare a ridere.
― Sei irriconoscibile.
― Tutto merito di Esme. ― disse, indicandola con la testa ― Mi ha lasciato indossare un abito di suo marito, va un po’ largo, ma non mi lamento. ― sorrisi, ringraziando i Cullen con un cenno del capo, e lo trascinai da mia madre e Mike che, nel frattempo, si stavano intrattenendo con la contessa Lucille Duff-Gordon.
― Tesoro… ― dissi, chiamando Mike ― Ti ricordi del signor Masen, vero?
― Edward Masen? ― domandò strabuzzando gli occhi ― Stupefacente! Conciato così passa quasi per un gentiluomo.
― Ha detto bene. ― rispose Edward, sempre col sorriso ― Quasi.
Mike ribadì ancora uno “stupefacente”, dopodiché offrì il braccio a mia madre, e tutti entrammo nella sala da pranzo.
Notavo il nervosismo di Edward, nel cercare di essere all’altezza di quel posto. Per me era perfetto com’era. Decisi, però, di metterlo a suo agio.
Quella è la contessa di Rothes. ― dissi indicandola ― E quello, invece, è John Jacob Astor, l'uomo più facoltoso in viaggio su questa nave. La sua nuova mogliettina, Madeleine, ha la mia età ed è in dolce attesa. ― notai che, a differenza di tutte le altre dame, si copriva con la borsetta, o le mani, il ventre poco piatto ― Vedi come tenta di nasconderlo? A suo tempo fu uno scandalo. ― lo sentii sghignazzare, così continuai ― E quello è Benjamin Guggenheim, e la sua amante, Madame Aubert. Naturalmente la signora Guggenheim è rimasta a casa con i bambini. Da questa parte abbiamo Sir Cosmo e Lucille, Lady Duff-Gordon – la signora che stava intrattenendo mia madre e Mike, poco fa. Tra i suoi vari pregi c'è quello di disegnare biancheria audace. È molto popolare tra i reali. ― a questa ultima confessione, scoppiò sonoramente a ridere.
― E io che pensavo di annoiarmi! ― disse, tra le risa.
― Sapevo che erano informazioni che ti sarebbe piaciuto sapere.
Nonostante i miei numerosi tentativi di metterlo a suo agio, si capiva benissimo che fosse nervoso. Non mostrò la minima esitazione, però. Tutti erano convinti che fosse uno di loro, forse l'erede di qualche fortuna nel ramo ferroviario. Un nuovo ricco, ma, tuttavia degno di essere un membro del loro club. Naturalmente, mia madre non si lasciò sfuggire l'occasione per ricordargli chi fosse.
― E mi dica, signor Masen, come sono gli alloggi di terza classe? ― domandò Renée, prima di mordere una tartina con caviale.
― Niente male, signora. ― rispose Edward, che sedeva davanti a me ― Ho viaggiato molto, con mercantili e quant’altro, ma ammetto che nessuna camera è mai stata così pulita e ben curata.
― Il signor Masen si è unito a noi dalla terza classe. ― spiegò Mike, senza perdere tempo ― È stata la mia fidanzata, Isabella, a concedergli il privilegio di unirsi a noi, questa sera. ― lo fulminai con lo sguardo. Possibile che non riusciva a capire quando stare zitto? Insomma, al tavolo non c’eravamo solo noi, ma anche altre persone! A partire dai fratelli Hale, al signor Yorkie, la famiglia Cullen al completo, e molti altri. Non mi sembrava molto carino o educato, ricordare che Edward non fosse… ricco.
― Ancora complimenti per la sua nave, signor Hale. ― dissi, notando Esme che spiegava ad Edward come usare tutta quella varietà di posate ― Il Titanic è davvero incantevole.
― Grazie, Isabella. Incantevole come lei. ― rispose, sorridendomi.
― Dove vive con precisione, signor Masen? ― domandò mia madre, ancora, dal nulla.
― Per il momento il mio indirizzo è la terza classe del Titanic, signora. ― rispose lui, molto garbato. Non era uno stupido, capiva benissimo che le domande di mia madre erano poste solo al fine di schernirlo. Ma lui non si scompose mai, neppure per un secondo.
― E come ha trovato i soldi necessari per comprare il biglietto del Titanic? ― chiese mio padre che, fino a quel momento, lo aveva completamente ignorato.
― Beh, non ci crederà, signore, ma l’ho vinto con una mano fortunata a poker. ― rispose, per poi sposare il suo sguardo su di me ― Una mano molto fortuna. ― arrossii, senza capirne il motivo.
― E a lei piace quest'esistenza priva di radici, signor Masen? ― riprese mia madre.
Beh, sì, signora, mi piace. ― rispose Edward, assumendo la sua espressione seria ― Insomma, ho tutto quello che occorre proprio qui, con me. Ho aria nei polmoni, salute e un letto che posso definire immacolato. Mi piace svegliarmi la mattina e non sapere cosa mi capiterà, o chi incontrerò, dove mi ritroverò. Proprio l'altra notte ho dormito sotto un ponte, e ora mi trovo qui, sulla più imponente nave del mondo, a bere champagne insieme a delle persone raffinate come voi. ― disse, alzando il calice ― Come ho detto a sua figlia proprio oggi pomeriggio, io credo che la vita sia un dono. E non ho nessuna intenzione di sprecarlo. ― a quella risposta, nessuno replicò. Tutto il contrario, i commensali gli fecero i complimenti e mia madre fu costretta a desistere all’idea di metterlo in cattiva luce.
La serata passò tra ottime portate e fantastiche risate. Non mi ero mai divertita tanto, nel mio mondo, come quella sera. Nonostante volessi negarlo a me stessa, dovetti ammettere che il merito era completamente di Edward.
Una volta finita la cena, era solito degli uomini, ritirarsi nella sala fumatori e parlare di affari. Normalmente, a quel punto, me ne andavo in camera – stufa di sentir parlare mia madre del mio avvenente matrimonio – ma quella sera speravo che le cose procedessero diversamente.
― Viene anche lei, Edward? ― domandò Carlisle, salutando Esme.
― No, grazie lo stesso per l’invito, signore.
― Non vorrà restare qui, con le donne, mi auguro. ― lo schernì Mike, sogghignando.
― No, si figuri, Mike. ― rispose Edward, con suo stesso tono ― Penso che tornerò nella mia cabina. ― quella frase mi riportò alla realtà.
Speravo di passare una serata diversa, invece la realtà stava tornando prepotente a svegliarmi.
― Te ne vai davvero, Edward? ― piagnucolai, sperando che mi rispondesse che sarebbe rimasto con me.
― Devo andare, Bella. ― disse, alzandosi e venne davanti a me ― La mia piccola parentesi tra i reali è finita. Adesso devo tornare a remare con gli schiavi! ― concluse, ridendo.
― Mi sono divertita, Edward. ― ammisi, sottovoce ― Per la prima, mi sono divertita a stare nel mio mondo, senza sentirmi un pesce fuori dall’acqua.
― Buona notte, Bella. ― parlò, prima di farmi nuovamente il baciamano. Sorrise e lo sentii sussurrare ― Se vuoi venire ad una vera festa, ti aspetto all’orologio. ― si alzò di scatto e, continuando a fissarmi, sparì tra la gente.
Restai interdetta per diversi secondi, mentre le sue parole continuavano a vorticarmi in testa. Cosa intendeva dire con quella frase, quale vera festa? Ma la domanda da pormi era un’altra: volevo davvero saperlo? La risposta era no. Volevo separarmi da lui, già da ora? Ancora no. Lo avrei seguito, quindi? Assolutamente sì.

Il clima che si respirava in terza classe, era assolutamente diverso da quello a cui ero abituata tutti i giorni. Non c’era cattiveria nello sguardo delle persone, ognuno aiutava l’altro – anche in cose semplicissime, come dare una mano al compagno di bevute che, troppo sbronzo, cadeva a terra – senza volere nulla in cambio. I volti delle persone, poi, erano rilassati, sinceri e spensierati. Per la prima volta in tutta la mia vita, desiderai essere nata sotto un ponte.
― Quindi tu sei la famosa Bella! ― disse Jake, l’amico di Edward ― Eddy non smette mai di parlare di te, da quando ti ha conosciuta.
― Davvero? ― domandai, sorseggiando la mia birra.
― Giuro, principessina! Gli sei entrata dentro! Anche se penso che lui voglia entrare dentro di te, mmm… ― a quella frase sputai la bevanda, bagnando un signore che mi sedeva davanti.
― Mi scusi! ― urlai, cercando di sovrastare la musica con la mia voce.
― Jacob, cosa le hai fatto? ― domandò Edward, correndo verso di noi ― Bella, stai bene?
― Io? Non le ho fatto niente! Le ho solo detto che ti è entrata dentro e che… ― lo bloccai, prima che potesse dire altro.
― E che questa è una cosa bellissima! Edward, balliamo un po’? ― chiesi, alzandomi, e trascinai Edward sulla pista. Il problema, però, era che non sapevo come diamine si ballava! Non conoscevo quella musica, ottenuta da zampogne irlandesi, violini, e note così rumorose e ritmate.
― Allora? Non ti va più?
― Ehm, non so come si fa. ― ammisi, guardandomi intorno ― Non ho mai ballato questa musica! ― urlai, affinché mi sentisse.
― Fidati di me, ok? ― domandò, afferrando le mie mani ― Dovrei… ― sussurrò, facendo scivolare la mano sinistra sul mio fianco. Quel contatto mi fece tremare, provocandomi una marea di brividi. Prese la mia mano sinistra, nella sua destra, e mi attirò a sé con uno scatto deciso ― Dobbiamo avvicinarci di più. ― sussurrò al mio orecchio, e il suo fiato – a contatto con la mia pelle – mi incendiò le guance.
Senza rendermene conto, stavo ballando. Una danza vera, fatta di risate e passi divertenti. Mi sentivo libera, era come volare senza avere le ali; era come respirare sott’acqua, senza aver bisogno dell’ossigeno. Edward era il mio ossigeno; lui era la mia libertà.
― Allora, ti sei divertita? ― domandò il mio accompagnatore, mentre stavamo camminando sul ponte.
L’aria era fresca, quella sera, così mi aveva gentilmente offerto la “sua” giacca. La accettai senza riserve, e per tutto il tempo che la ebbi addosso ispirai vergognosamente il suo odore. Sapeva di mente piperita; deciso, forte e dannatamente sexy.
― Moltissimo, Edward. ― risposi, fermandomi davanti all’entrata della prima classe ― Grazie per questa serata. È stato tutto incantevole.
― Tu sei incantevole. ― sussurrò, guardandomi intensamente.
Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Era come se il suo sguardo fosse una calamita per il mio. Quello smeraldo brillante era come una droga, per me; una droga a cui non avrei mai voluto rinunciare.
― Non voglio andare. ― parlai flebile, facendomi scappare una risata isterica ― Non voglio che finisca, questa sera.
― Tutte le sere finiscono, Bella. ― rispose, sorridendomi amaramente ― Così vanno le cose. La luna sorge in cielo e poi scompare, per lasciare posto al sole e quindi al giorno. ― era la prima volta che lo vedevo così… rassegnato. Era strano vedergli quell’espressione sul viso; mi domandai se non ne fossi io la causa.
Alzai il volto e mi persi a guardare le stelle. Erano incredibili, belle e brillanti. Non tirava un soffio di vento, nonostante l’aria quasi gelida; di nuvole, poi, non ve n’era alcuna traccia.
― Guarda, Edward! Sono incredibili. ― dissi, avvicinandomi alla balaustra del ponte ― È così vasto e infinito quassù. I ricchi si credono chissà chi, ma sono solo polvere agli occhi di Dio. ― affermai, continuando a contemplare il cielo scuro.
― Una stella cadente! ― urlò lui, indicandomi una scia nel cielo ― Almeno credo. Che scia lunga… ― mormorò tra sé e sé ― Sai, mio padre sosteneva sempre che le stelle fossero le anime delle persone che ora non ci sono più, mentre le stelle cadenti rappresentassero le nuove nascite; una nuova vita che veniva al mondo.
― Davvero? ― domandai stupida da quella visione ― Sì, mi piace.
― Il blu ti dona. ― disse, cambiando argomento.
― Grazie… ― risposi, arrossendo. Il cuore aveva già preso a correre da solo, come un razzo ― Ehi, ma non dovremmo esprimere un desiderio?
― Un desiderio? ― chiese scettico, alzando un sopracciglio ― Cosa potrebbe mai desiderare una fanciulla altolocata come te? ― domandò, avvicinandosi pericolosamente al mio viso.
Te…, avrei voluto rispondere. Ma sapevo benissimo che era impossibile. C’erano troppe discrepanze tra di noi. Il mondo da cui provenivamo, soprattutto, era totalmente l’opposto. I miei genitori non mi avrebbero mai lasciata libera di seguire il mio cuore; di seguire qualcosa che, nonostante andasse contro tutto quello in cui credevano, mi rendesse felice. Qualunque cosa stessi provando per Edward, dovevo sopprimerla.
― Qualcosa che non posso avere. ― risposi, rendendomi conto che fosse ora di andare.
Feci qualche passo indietro e gli restituii la sua giacca. Lui l’afferrò, senza staccare per un secondo gli occhi dai miei, e mi sorrise in modo strano.
― Buona notte, Bella. ― sussurrò, molto lentamente. Non risposi, gli voltai le spalle e tornai nella mia stanza.

Fortunatamente, Mike e gli altri non erano ancora rientrati. Decisi quindi di cambiarmi, ma volevo farmi un bagno, prima. Chiamai perciò Jane, la mia fidata cameriera e consigliera. Una volta preparata la vasca, mi immersi, pregando che tutti i miei pensieri venissero portati via.

* Le parti in corsivo - eccezion fatta per i pensieri di Isabella e alcune parole - sono prese da film Titanic, di James Cameron.

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Finisce qui la prima parte di questa piccola falshfic di due pubblicazioni. Spero sia stata di vostro gradimento e che leggerete anche la parte conclusiva, che è il centro di questa tragedia. La seconda, e ultima parte, verrà pubblicata domani in giornata.
Inoltre, se a qucluno può interessare, sul mio blog, sempre domani in serata, pubblicherò un post con tutta la vicenda e i nomi delle persone che vissero realmente quel dramma.
Il mio blog si chiama
Violet Moon, se vi va... :)

Detto questo vi lascio, un abbraccio!

  
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