I Signori delle
Terre dell’Ovest
5. Scie
Seduta sul
parapetto delle finestre spalancate, Loole osservava
le stelle. Achernar*, lontana e pulsante, ricordava
un mazzo di rose selvatiche abbandonato alla corrente dell’impetuoso fiume che
la trascinava a Sud, dominatrice di quella pozza nera che era il cielo
notturno, che in sussurri di vento senza sapore prometteva di aprire presto le
braccia all’alba.
La cacciatrice
era pronta, eppure esitava a partire. Il suo corpo elfico era avvolto in una
veste da caccia che la rendeva più simile ad un ombra che ad una creatura,
l’opaca pelle nera che le stringeva il petto era percorsa da lunghe cinghie
usurate e morse da fibbie che mandavano un cieco bagliore, le sue lunghe gambe
erano coperte di tessuto leggero di un colorito che faceva pensare che fosse
stato macchiato di polvere da sparo, e i calzari in cuoio mielato erano stati
soppiantati da slanciati stivali da cavallerizza.
Fosca nei suoi
abiti, che portavano sulle labbra il nome soffocato di una guerra personale, si
era silenziosamente intrecciata alcune ciocche di capelli per liberare lo
sguardo da una qualsiasi cecità improvvisa, aveva stretto con forza la custodia
da coscia in cui era infilato uno stiletto d’argento, ed ora era pronta alla
partenza. Eppure il richiamo di quella notte senza più luna era stato troppo
forte per resisterne, ed ora la stessa coperta notturna che l’aveva ammaliata
la vedeva accasciata a quella finestra a contare le lacrime dorate di chissà
quale dio, lottando in silenzio contro la spinta ad uscire da quelle mura per
cercare l’assassino.
Il suo arco era
posato a pochi passi da lei, nascosto nell’ombra. Le polsiere di cuoio scuro
che indossava erano sfigurate da lunghi graffi che quella stessa arma vi aveva
impresso in anni di fido servizio. I suoi lumi lignei occhieggiavano verso di
lei con pazienza, in attesa di essere imbracciato. Sapeva che era l’ora di
partire, e sapeva anche che presto le ginocchia della dama si sarebbero flesse
per marciare incontro a quel destino. Come ogni battaglia, l’avrebbero
affrontata assieme.
E gli occhi di
quarzo della donna sovrannaturale si posarono sulla figura liscia e ammaliante
dell’arco, simile ad un serpente nell’aria del mistero. Era ora di andare.
La città,
annegata nelle tenebre, pareva un grande teatro di spettri senza forme né
profondità, ma solo una varietà indescrivibile di ombre multiformi.
Avvolta in un
mantello corvino fortemente assicurato alle spalline della veste da caccia da
raffinate fibbie dorate, Loole scivolava silenziosa
tra le mura degli edifici, seguendo una pista che od ogni altro occhi sarebbe
stata invisibile, e che invece dinanzi a lei si inerpicava attraverso le vie
urbane con curve serpentine, brillante come un’aurora boreale nei cieli del
nord.
Lentamente, ad
ogni suo passo, le variazioni di luce tra le ombre della sera si fecero sempre
più eclatanti, finché i tacchi morbidi dei suoi calzari non calpestarono la
luce del giorno, neonato tra le braccia delle nuvole chiare, che occhieggiava
verso una variegata aggregazione di case.
Il centro più
fiorente del Feudo di Inveia, da cui esso stesso
prendeva il nome, aprì gli occhi alla serenità mattutina, nascondendo
frettolosamente i commerci notturni che solevano amare la loro stessa natura;
sempre più rapide, ombre gobbe si nascondevano alle spalle degli edifici,
trascinando oggetti che sbatacchiavano lievi sulle ruvide pareti. Loole lasciò che molte figure incappucciate la scambiassero
per una statua trasparente all’interno nelle budella della periferia, mentre
con gli occhi seguiva i respiri agitati che esse si lasciavano alle spalle,
tranquilla nel sapere che l’individuo che andava cercando non era lontano, ma
neppure tanto vicino da essere uno di quei fuggitivi dall’aspetto malaticcio.
L’elfa si insinuò nei vicoli meno frequentati dell’insieme
urbano, dove rivoletti putridi rigavano i fianchi dei camminatoi
e rumori soffocati e sinistri si disperdevano nelle nubi di vapore che, ad
intervalli di qualche metro, s’innalzavano da grate instabili verso il cielo –
un cielo ferito nel profondo dalle lame affilate dei tetti simmetrici che
coprivano in gran parte la visuale aerea.
Camminava da
molto tempo schiacciata in una viuzza larga meno di un metro quando udì il
primo rumore rilevante. Stava giungendo finalmente alla fine del vicolo, dove
una piazzetta decadente s’apriva in circolo, e uno scalpiccio provenne proprio
da sopra la sua testa: un paio di colpi sordi soffocati, provocati da qualcosa
– o da qualcuno – che non volesse essere scoperto.
Loole scivolò via dall’abbraccio delle due case
tra le quali era rimasta rinchiusa, e tese l’arco già in precedenza armato.
Attese. La piazza
alle sue spalle era deserta, parte dei suoi sensi erano orientati verso d’essa;
una brina caliginosa ricopriva i sampietrini incastonati nel terreno, una
finestra cieca era affacciata da un muro basso, e un gatto vagabondo aveva da
poco lasciato una forte traccia urinaria ad alcuni metri da dove ora lei era
piantata, gli occhi rivolti al cielo e i muscoli in tensione.
Attese un rumore,
un movimento, ma non accadde nulla. Trascorsi minuti e minuti, abbassò la
guardia armata e si guardò attorno.
Si era
allontanata appena dal luogo su cui aveva sostato quando, alle sue spalle, un
soffice suono fece capolino.
Tutti i sensi in
allerta, Loole ruotò su se stessa, tendendo
nuovamente l’arco, il paesaggio demotivante che correva rapido dinanzi al suo
sguardo acuto che, nonostante la rapidità, percepiva ogni forma e ogni colore
nitidamente; si presentò davanti a lei un’ombra accovacciata, che senza
attendere si preparò a balzare lontano, rivelando capacità superiori a quelle
di qualsiasi essere umano, ma non abbastanza sviluppate da ingannare un elfo.
Loole scoccò, proprio quando l’ombra accennava
un lungo passo di corsa, e la freccia si conficcò sibilando nel tenero muro
umido alle spalle del nuovo arrivato, portando con sé spessi strati di stoffa.
L’elfa si accostò subitanea alla figura celata che, sorpresa
appena, strappò con forza gli abiti dalla stretta della freccia, e prima
ch’essa potesse fuggire l’afferrò per il collo, stringendolo nella piega del
gomito.
«Tu sei fuggito
dal Palazzo d’Onice» sibilò Loole al suo orecchio. L’individuo
ristette nella sua stretta senza ribattere, limitandosi a respirare. Il suono
dell’aria che fluiva nei suoi polmoni rubava a Loole
gran parte della propria capacità uditiva.
«Chi siete voi
per dirlo?» sussurrò l’ombra fattasi uomo dopo un istante, prima di
divincolarsi con forza e di guadagnare abbastanza terreno da sferrare un duro
colpo allo stomaco dell’elfa, che colta di sorpresa
si piegò, dando il tempo all’incappucciato di fuggire correndo.
Loole si lanciò nella sua direzione senza
esitare, osservando gli scatti felini del mercenario che lo portarono al muro
basso dirimpetto a lei, dove nasceva una scaletta arrugginita e divelta in più
punti. Loole imprecò contro se stessa per aver
lasciato quella via di fuga al suo uomo, e proprio mentre questi si ergeva sul
limitare del tetto, anch’ella salì i pioli scivolosi della scala, allungando
l’arco.
Iniziava a
piovigginare quando il fuggitivo commise l’errore che gli costò una pesante
caduta sul tetto di pietra: senza accorgersene l’arco gli aveva agguantato uno
stivale.
Il mantello nero
si gonfiò, il cappuccio voltò via dalla testa: a Loole
parve quasi una scena della commedia del ridicolo, prima di posare il piede sul
tetto e di ritornare a quella che era solo realtà.
Si accostò alla
persona sdraiata a terra e con sorpresa constatò che ciò che si era raffigurata
nel pensiero divergeva di molto con la verità delle cose.
Il cappuccio nero,
che iniziava a macchiarsi di goccioline di pioggia, aveva lasciato liberi
capelli tagliati corti che, alla luce tribolata di quel giorno maledetto,
sembravano risplendere di una morbidezza simile alla seta. Agli occhi sorpresi
di Loole quei capelli si mostrarono del colore del
cielo notturno.
L’elfa sgranò gli occhi, stupita di trovare di fronte a sé
qualcuno che non era un semplice umano: solo la prova vivente che le movenze
inumane di poco prima avevano una giustificazione palese.
Il fuggitivo fece
leva sulle braccia e alzò la testa, puntando sul viso di Loole
uno sguardo arcigno, che deformava il viso dai tratti decisi ma morbidi in una
maschera di ira profonda, verso se stessa come verso quell’elfa
dall’aria nobile che aveva teso una trappola vincente. Era una donna, quella
stesa scompostamente sul tetto, mantenendo la grazia nella sua figura: una
donna dagli occhi neri, vestita di nero e armata di un paio di coltelli da
lancio e di altri attrezzi seminascosti dal mantello.
Loole, per niente impressionata dal ringhio che
le labbra dell’altra atteggiavano, si prese tempo per studiare il suo viso. Con
una mano la teneva giù, ma senza fare pressione: la ragazza avrebbe potuto
fuggire in qualunque momento, ma non lo fece. Gli occhi dell’elfa intanto erano perduti nello studio del disegno tribale
che, simile ad una vena d’inchiostro su una pergamena precoce, segnava quel
viso come…
Una maledizione.
Loole si allontanò di scatto dalla donna, che
si alzò con calma e la fronteggiò, assumendo una posizione tesa che sapeva
tanto di vecchie esercitazioni.
«Che hai sul
volto?» chiese Loole, rapita. Il disegno ora appariva
ancora più pericoloso, ornato dallo sguardo serio da leonessa a caccia della
donna.
«Mi hai allestito
un agguato solo per chiacchierare, madama?» ribatté arrogante la giovane donna.
Loole, a quelle parole, parve ricordare il
perché era là.
«Sono stata
mandata dal Reggente del Feudo per scortarti al Palazzo d’Onice…» disse l’elfa senza particolare enfasi.
La donna si
accorse di come questa notizia non fosse per nulla resa significante dalla voce
della creatura, e accennò un sorrisetto.
«E immagino che
tu voglia portarmici con tutti gli agi e le cortesie,
vero?»
Loole abbassò gli occhi. Nella sua mente, un
gran subbuglio di pensieri si intrecciava su se stesso, come fosse fiera
all’interno di una gabbia.
«No» rispose. Il
suo sguardo si spostò nuovamente sul viso della donna.
Ella assunse un
cipiglio interrogativo. I suoi sensi si impregnarono dell’indecisione che l’elfa esprimeva, domandosi in silenzio cosa c’era da
aspettarsi.
La Dama di Inveia attese ancora una manciata d’attimi, che tenne per
sé per respirare profondamente. L’aria fredda e appesantita di fine pioggia la
rinvigorì fintamente, e le diede la forza per parlare, prima di svanire e
rigettarla nella confusione di crampi che le attanagliavano le meningi temprate
di donna d’intelletto.
«Ti offro tre sacchetti
d’oro per compiere l’assassinio del Reggente del Feudo, mio fratello»
La donna dai
capelli color del cielo estivo ristette, sorpresa. Non si sarebbe mai aspettata
una simile proposta da un elfo, soprattutto da quella elfa; un voltafaccia diretto non
solo ad un suo simile, ma persino ad un parente stretto, il parente – Sam lo
sapeva – più vicino che le fosse rimasto.
«A un prezzo
simile, credo non ti convenga rifiutare» aggiunse piano Loole,
guardandola in tralice.
«Io non accetto
un lavoro in questa maniera» rispose l’altra donna. «Devi lasciarmi tempo»
«Allora prenditi
quattro giorni per pensarci. Tre sacchetti d’oro, e ti offro la mia collaborazione.
Tutto per un assassinio e il tuo silenzio»
Loole ascoltò con orrore le proprie parole. Un
battito sordo risuonò nel proprio petto.
«E sia» annuì il
sicario, parlando con un filo di voce. Loole annuì a
sua volta.
«C’è una locanda
a pochi passi da qui, nel retro ha un cortile dove tengono i cavalli degli
avventori. Tra quattro giorni, a mezzanotte, sarò lì. Se non vi vedrò arrivare
entro una quindicina di minuti io me ne andrò e per il vostro assassinio
dovrete arrangiarvi»
Loole non sentì alcun sollievo sentendo come il
tono della donna aveva ripreso pacatezza, ritornando a rivolgersi a lei con il
“voi”. La stava trattando come un cliente, e il prezzo pattuito avrebbe
scambiato una merce molto particolare: la morte.
L’elfa annuì ancora, facendo un passo indietro. La donna
abbassò il capo in seno di saluto, e si tirò sul capo il cappuccio, nascondendo
di nuovo i propri lineamenti nell’ombra. Diede le spalle a Loole,
senza però abbassare la guardia e, giunta alla fine del tetto, si lasciò
cadere, atterrando morbidamente sul selciato.
Sam si portò una
mano umida al viso, tergendolo. Era solo un lavoro come un altro. Eppure,
portava un nome ben diverso dagli altri: profumava di innocenza e di un certo
tipo di amore a cui ella non sapeva dare nome. Gli occhi di quell’elfa, così differenti da tutti quelli che fino ad allora
aveva incontrato, lanciavano disperati segnali di dolore. Il sicario svanì
lentamente nelle budella della città. per la prima volta nella sua vita, non si
era accorta di come il cielo si era ritirato dietro ad una pesante coperta di
nubi uggiose.
Loole, nascosta dietro un alto muro di una casa
che, al pari di tutte le altre, pareva abbandonata, a dispetto dei rumori
soffocati che provenivano dal suo interno, trasse dalla custodia lo stiletto.
Gettata un’occhiata tutt’intorno, si premette la lama con forza sul braccio,
lasciando che la fredda lingua d’argento disegnasse nella sua carne una ferita.
L’elfa gemette, premendosi una mano sulla pelle. Il sangue
scivolava tra le sue dita, ma senza prestarvi attenzione pulì la lama del
pugnale alla bell’e meglio sotto un rivolo d’acqua piovana che cadeva da una grondaia.
La pioggia si
stava facendo sempre più forte. Loole osservò
un’ultima volta ciò che aveva attorno: le strade deserte, le case, le pietre
brillanti di gocce. Ecco come quella città di miseria veniva incoronata regina
degli storpi.
La Dama d’Inveia abbassò il viso e riprese la marcia. Si sarebbe
confusa con le ombre gettate dalle nubi tornando al castello. Le stesse ombre
che tanto assomigliavano alla sua anima addolorata, ripiena di dolore e di
bieca determinazione.
Madre, fa che la follia della nostra casta
non si appropri anche di me.
*è la stella più
brillante della costellazione di Eridano, il Fiume Celeste, che secondo la tradizione
rappresenta il Po.