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Autore: Il Romanticismo Perduto    15/04/2012    0 recensioni
Nelle lontane terre dell'Ovest, la Casta Reggente degli Elfi sta per fronteggiare il suo declino, richiamato dalla politica scellerata di uno dei figli di Avenor. Ad intrecciarsi con queste vicende, una storia fuori dal comune vedrà un'umana e un'elfa, Sam e Loole, accavallare le proprie esistenze.
Genere: Fantasy, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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I Signori delle Terre dell’Ovest

I Signori delle Terre dell’Ovest

 

5. Scie

 

 

Seduta sul parapetto delle finestre spalancate, Loole osservava le stelle. Achernar*, lontana e pulsante, ricordava un mazzo di rose selvatiche abbandonato alla corrente dell’impetuoso fiume che la trascinava a Sud, dominatrice di quella pozza nera che era il cielo notturno, che in sussurri di vento senza sapore prometteva di aprire presto le braccia all’alba.

La cacciatrice era pronta, eppure esitava a partire. Il suo corpo elfico era avvolto in una veste da caccia che la rendeva più simile ad un ombra che ad una creatura, l’opaca pelle nera che le stringeva il petto era percorsa da lunghe cinghie usurate e morse da fibbie che mandavano un cieco bagliore, le sue lunghe gambe erano coperte di tessuto leggero di un colorito che faceva pensare che fosse stato macchiato di polvere da sparo, e i calzari in cuoio mielato erano stati soppiantati da slanciati stivali da cavallerizza.

Fosca nei suoi abiti, che portavano sulle labbra il nome soffocato di una guerra personale, si era silenziosamente intrecciata alcune ciocche di capelli per liberare lo sguardo da una qualsiasi cecità improvvisa, aveva stretto con forza la custodia da coscia in cui era infilato uno stiletto d’argento, ed ora era pronta alla partenza. Eppure il richiamo di quella notte senza più luna era stato troppo forte per resisterne, ed ora la stessa coperta notturna che l’aveva ammaliata la vedeva accasciata a quella finestra a contare le lacrime dorate di chissà quale dio, lottando in silenzio contro la spinta ad uscire da quelle mura per cercare l’assassino.

Il suo arco era posato a pochi passi da lei, nascosto nell’ombra. Le polsiere di cuoio scuro che indossava erano sfigurate da lunghi graffi che quella stessa arma vi aveva impresso in anni di fido servizio. I suoi lumi lignei occhieggiavano verso di lei con pazienza, in attesa di essere imbracciato. Sapeva che era l’ora di partire, e sapeva anche che presto le ginocchia della dama si sarebbero flesse per marciare incontro a quel destino. Come ogni battaglia, l’avrebbero affrontata assieme.

E gli occhi di quarzo della donna sovrannaturale si posarono sulla figura liscia e ammaliante dell’arco, simile ad un serpente nell’aria del mistero. Era ora di andare.

 

La città, annegata nelle tenebre, pareva un grande teatro di spettri senza forme né profondità, ma solo una varietà indescrivibile di ombre multiformi.

Avvolta in un mantello corvino fortemente assicurato alle spalline della veste da caccia da raffinate fibbie dorate, Loole scivolava silenziosa tra le mura degli edifici, seguendo una pista che od ogni altro occhi sarebbe stata invisibile, e che invece dinanzi a lei si inerpicava attraverso le vie urbane con curve serpentine, brillante come un’aurora boreale nei cieli del nord.

Lentamente, ad ogni suo passo, le variazioni di luce tra le ombre della sera si fecero sempre più eclatanti, finché i tacchi morbidi dei suoi calzari non calpestarono la luce del giorno, neonato tra le braccia delle nuvole chiare, che occhieggiava verso una variegata aggregazione di case.

Il centro più fiorente del Feudo di Inveia, da cui esso stesso prendeva il nome, aprì gli occhi alla serenità mattutina, nascondendo frettolosamente i commerci notturni che solevano amare la loro stessa natura; sempre più rapide, ombre gobbe si nascondevano alle spalle degli edifici, trascinando oggetti che sbatacchiavano lievi sulle ruvide pareti. Loole lasciò che molte figure incappucciate la scambiassero per una statua trasparente all’interno nelle budella della periferia, mentre con gli occhi seguiva i respiri agitati che esse si lasciavano alle spalle, tranquilla nel sapere che l’individuo che andava cercando non era lontano, ma neppure tanto vicino da essere uno di quei fuggitivi dall’aspetto malaticcio.

L’elfa si insinuò nei vicoli meno frequentati dell’insieme urbano, dove rivoletti putridi rigavano i fianchi dei camminatoi e rumori soffocati e sinistri si disperdevano nelle nubi di vapore che, ad intervalli di qualche metro, s’innalzavano da grate instabili verso il cielo – un cielo ferito nel profondo dalle lame affilate dei tetti simmetrici che coprivano in gran parte la visuale aerea.

Camminava da molto tempo schiacciata in una viuzza larga meno di un metro quando udì il primo rumore rilevante. Stava giungendo finalmente alla fine del vicolo, dove una piazzetta decadente s’apriva in circolo, e uno scalpiccio provenne proprio da sopra la sua testa: un paio di colpi sordi soffocati, provocati da qualcosa – o da qualcuno – che non volesse essere scoperto.

Loole scivolò via dall’abbraccio delle due case tra le quali era rimasta rinchiusa, e tese l’arco già in precedenza armato.

Attese. La piazza alle sue spalle era deserta, parte dei suoi sensi erano orientati verso d’essa; una brina caliginosa ricopriva i sampietrini incastonati nel terreno, una finestra cieca era affacciata da un muro basso, e un gatto vagabondo aveva da poco lasciato una forte traccia urinaria ad alcuni metri da dove ora lei era piantata, gli occhi rivolti al cielo e i muscoli in tensione.

Attese un rumore, un movimento, ma non accadde nulla. Trascorsi minuti e minuti, abbassò la guardia armata e si guardò attorno.

Si era allontanata appena dal luogo su cui aveva sostato quando, alle sue spalle, un soffice suono fece capolino.

Tutti i sensi in allerta, Loole ruotò su se stessa, tendendo nuovamente l’arco, il paesaggio demotivante che correva rapido dinanzi al suo sguardo acuto che, nonostante la rapidità, percepiva ogni forma e ogni colore nitidamente; si presentò davanti a lei un’ombra accovacciata, che senza attendere si preparò a balzare lontano, rivelando capacità superiori a quelle di qualsiasi essere umano, ma non abbastanza sviluppate da ingannare un elfo.

Loole scoccò, proprio quando l’ombra accennava un lungo passo di corsa, e la freccia si conficcò sibilando nel tenero muro umido alle spalle del nuovo arrivato, portando con sé spessi strati di stoffa.

L’elfa si accostò subitanea alla figura celata che, sorpresa appena, strappò con forza gli abiti dalla stretta della freccia, e prima ch’essa potesse fuggire l’afferrò per il collo, stringendolo nella piega del gomito.

«Tu sei fuggito dal Palazzo d’Onice» sibilò Loole al suo orecchio. L’individuo ristette nella sua stretta senza ribattere, limitandosi a respirare. Il suono dell’aria che fluiva nei suoi polmoni rubava a Loole gran parte della propria capacità uditiva.

«Chi siete voi per dirlo?» sussurrò l’ombra fattasi uomo dopo un istante, prima di divincolarsi con forza e di guadagnare abbastanza terreno da sferrare un duro colpo allo stomaco dell’elfa, che colta di sorpresa si piegò, dando il tempo all’incappucciato di fuggire correndo.

Loole si lanciò nella sua direzione senza esitare, osservando gli scatti felini del mercenario che lo portarono al muro basso dirimpetto a lei, dove nasceva una scaletta arrugginita e divelta in più punti. Loole imprecò contro se stessa per aver lasciato quella via di fuga al suo uomo, e proprio mentre questi si ergeva sul limitare del tetto, anch’ella salì i pioli scivolosi della scala, allungando l’arco.

Iniziava a piovigginare quando il fuggitivo commise l’errore che gli costò una pesante caduta sul tetto di pietra: senza accorgersene l’arco gli aveva agguantato uno stivale.

Il mantello nero si gonfiò, il cappuccio voltò via dalla testa: a Loole parve quasi una scena della commedia del ridicolo, prima di posare il piede sul tetto e di ritornare a quella che era solo realtà.

Si accostò alla persona sdraiata a terra e con sorpresa constatò che ciò che si era raffigurata nel pensiero divergeva di molto con la verità delle cose.

Il cappuccio nero, che iniziava a macchiarsi di goccioline di pioggia, aveva lasciato liberi capelli tagliati corti che, alla luce tribolata di quel giorno maledetto, sembravano risplendere di una morbidezza simile alla seta. Agli occhi sorpresi di Loole quei capelli si mostrarono del colore del cielo notturno.

L’elfa sgranò gli occhi, stupita di trovare di fronte a sé qualcuno che non era un semplice umano: solo la prova vivente che le movenze inumane di poco prima avevano una giustificazione palese.

Il fuggitivo fece leva sulle braccia e alzò la testa, puntando sul viso di Loole uno sguardo arcigno, che deformava il viso dai tratti decisi ma morbidi in una maschera di ira profonda, verso se stessa come verso quell’elfa dall’aria nobile che aveva teso una trappola vincente. Era una donna, quella stesa scompostamente sul tetto, mantenendo la grazia nella sua figura: una donna dagli occhi neri, vestita di nero e armata di un paio di coltelli da lancio e di altri attrezzi seminascosti dal mantello.

Loole, per niente impressionata dal ringhio che le labbra dell’altra atteggiavano, si prese tempo per studiare il suo viso. Con una mano la teneva giù, ma senza fare pressione: la ragazza avrebbe potuto fuggire in qualunque momento, ma non lo fece. Gli occhi dell’elfa intanto erano perduti nello studio del disegno tribale che, simile ad una vena d’inchiostro su una pergamena precoce, segnava quel viso come…

Una maledizione.

Loole si allontanò di scatto dalla donna, che si alzò con calma e la fronteggiò, assumendo una posizione tesa che sapeva tanto di vecchie esercitazioni.

«Che hai sul volto?» chiese Loole, rapita. Il disegno ora appariva ancora più pericoloso, ornato dallo sguardo serio da leonessa a caccia della donna.

«Mi hai allestito un agguato solo per chiacchierare, madama?» ribatté arrogante la giovane donna.

Loole, a quelle parole, parve ricordare il perché era là.

«Sono stata mandata dal Reggente del Feudo per scortarti al Palazzo d’Onice…» disse l’elfa senza particolare enfasi.

La donna si accorse di come questa notizia non fosse per nulla resa significante dalla voce della creatura, e accennò un sorrisetto.

«E immagino che tu voglia portarmici con tutti gli agi e le cortesie, vero?»

Loole abbassò gli occhi. Nella sua mente, un gran subbuglio di pensieri si intrecciava su se stesso, come fosse fiera all’interno di una gabbia.

«No» rispose. Il suo sguardo si spostò nuovamente sul viso della donna.

Ella assunse un cipiglio interrogativo. I suoi sensi si impregnarono dell’indecisione che l’elfa esprimeva, domandosi in silenzio cosa c’era da aspettarsi.

La Dama di Inveia attese ancora una manciata d’attimi, che tenne per sé per respirare profondamente. L’aria fredda e appesantita di fine pioggia la rinvigorì fintamente, e le diede la forza per parlare, prima di svanire e rigettarla nella confusione di crampi che le attanagliavano le meningi temprate di donna d’intelletto.

«Ti offro tre sacchetti d’oro per compiere l’assassinio del Reggente del Feudo, mio fratello»

La donna dai capelli color del cielo estivo ristette, sorpresa. Non si sarebbe mai aspettata una simile proposta da un elfo, soprattutto da quella elfa; un voltafaccia diretto non solo ad un suo simile, ma persino ad un parente stretto, il parente – Sam lo sapeva – più vicino che le fosse rimasto.

«A un prezzo simile, credo non ti convenga rifiutare» aggiunse piano Loole, guardandola in tralice.

«Io non accetto un lavoro in questa maniera» rispose l’altra donna. «Devi lasciarmi tempo»

«Allora prenditi quattro giorni per pensarci. Tre sacchetti d’oro, e ti offro la mia collaborazione. Tutto per un assassinio e il tuo silenzio»

Loole ascoltò con orrore le proprie parole. Un battito sordo risuonò nel proprio petto.

«E sia» annuì il sicario, parlando con un filo di voce. Loole annuì a sua volta.

«C’è una locanda a pochi passi da qui, nel retro ha un cortile dove tengono i cavalli degli avventori. Tra quattro giorni, a mezzanotte, sarò lì. Se non vi vedrò arrivare entro una quindicina di minuti io me ne andrò e per il vostro assassinio dovrete arrangiarvi»

Loole non sentì alcun sollievo sentendo come il tono della donna aveva ripreso pacatezza, ritornando a rivolgersi a lei con il “voi”. La stava trattando come un cliente, e il prezzo pattuito avrebbe scambiato una merce molto particolare: la morte.

L’elfa annuì ancora, facendo un passo indietro. La donna abbassò il capo in seno di saluto, e si tirò sul capo il cappuccio, nascondendo di nuovo i propri lineamenti nell’ombra. Diede le spalle a Loole, senza però abbassare la guardia e, giunta alla fine del tetto, si lasciò cadere, atterrando morbidamente sul selciato.

Sam si portò una mano umida al viso, tergendolo. Era solo un lavoro come un altro. Eppure, portava un nome ben diverso dagli altri: profumava di innocenza e di un certo tipo di amore a cui ella non sapeva dare nome. Gli occhi di quell’elfa, così differenti da tutti quelli che fino ad allora aveva incontrato, lanciavano disperati segnali di dolore. Il sicario svanì lentamente nelle budella della città. per la prima volta nella sua vita, non si era accorta di come il cielo si era ritirato dietro ad una pesante coperta di nubi uggiose.

 

Loole, nascosta dietro un alto muro di una casa che, al pari di tutte le altre, pareva abbandonata, a dispetto dei rumori soffocati che provenivano dal suo interno, trasse dalla custodia lo stiletto. Gettata un’occhiata tutt’intorno, si premette la lama con forza sul braccio, lasciando che la fredda lingua d’argento disegnasse nella sua carne una ferita.

L’elfa gemette, premendosi una mano sulla pelle. Il sangue scivolava tra le sue dita, ma senza prestarvi attenzione pulì la lama del pugnale alla bell’e meglio sotto un rivolo d’acqua piovana che cadeva da una grondaia.

La pioggia si stava facendo sempre più forte. Loole osservò un’ultima volta ciò che aveva attorno: le strade deserte, le case, le pietre brillanti di gocce. Ecco come quella città di miseria veniva incoronata regina degli storpi.

La Dama d’Inveia abbassò il viso e riprese la marcia. Si sarebbe confusa con le ombre gettate dalle nubi tornando al castello. Le stesse ombre che tanto assomigliavano alla sua anima addolorata, ripiena di dolore e di bieca determinazione.

 

Madre, fa che la follia della nostra casta non si appropri anche di me.

 

 

*è la stella più brillante della costellazione di Eridano, il Fiume Celeste, che secondo la tradizione rappresenta il Po.

   
 
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