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Autore: GiadaGrangerCullen    16/04/2012    4 recensioni
Storia dedicata a tutti gli sportivi che hanno lasciato la vita in campo. Che possano essere felici laddove si trovano ora.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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L'eccitazione a mille era palpabile. Il gran giorno era finalmente arrivato; si sarebbe tenuta la finale di campionato. Ci saremmo scontrate con le nostre più degne e grandi rivali. L'obiettivo era vincere e la gloria sarebbe stata nostra: saremmo andate in serie A. Era una cosa fattibile, eravamo superiori. Tutto ciò che ci serviva era un po' di concentrazione.

Pensavo a questo mentre mi cambiavo nello spogliatoio del palazzetto. La parola “vittoria” riecheggiava nella mente di tutte, ma per scaramanzia nessuno osava pronunciarla. Una sola frase ruppe il silenzio carico di tensione: “Dove diavolo si è cacciata Sara?”. Era la solita ritardataria, la loro prima banda! Nessuno fece in tempo ad ipotizzare qualcosa, che lei arrivò, ma non aveva il solito sorriso beffardo stampato sul volto, quello che trasudava sicurezza e fierezza; sembrava giù di morale. Fra tutti i giorni dell'anno doveva scegliere proprio quello della finale!

“Che succede?” le chiese Martina, ma lei scosse il capo e rispose con un semplice: “Sono solo un po' tesa.”. Poi uscì dallo spogliatoio senza aspettarci.

Quando entrammo in palestra lei aveva già iniziato a scaldarsi. Ora aveva un sorriso sulle labbra e colpiva il pallone con energia: era la solita Sara.

 

Palla nostra, devo battere per prima. Sento il crepitare del pubblico, le urla d'incitamento, poi l'arbitro che fischia. Ho otto secondi...

Uno... svuoto la mente, penso solo ai miei movimenti.

Due... lancio il pallone.

Tre... faccio la ricorsa.

Quattro... salto.

Cinque... fletto il busto.

Sei... colpisco.

Rientro in campo velocemente, mentre le avversarie intercettano il mio tiro e rimandano la palla nel nostro campo. Martina, il nostro libero, la prende, la palleggiatrice la alza e Sara schiaccia. Un colpo potente: la palla è passata in mezzo alle mani aperte del muro della squadra avversaria ed è caduta nella diagonale stretta, ad una velocità paragonabile a quella della bora di Trieste.

 

Smisi si preoccuparmi: avevo avuto la conferma che qualunque problema avesse, niente avrebbe impedito a Sara di dare il massimo in campo e con lei in forma le nostre probabilità di vittoria erano alle stelle.

Azione dopo azione arrivammo ad essere in svantaggio di un punto, ventiquattro a ventitre. Ansimavo, volevo vincere a tutti i costi. Pareggiammo grazie ad una fast del nostro mitico centrale, poi passammo in vantaggio dopo un attacco di Sara. Mancava un solo punto e il set sarebbe stato nostro.

Ma qualcosa non andava. Sara si era accasciata a terra. Non può essersi fatta male proprio adesso, pensai. Ci avvicinammo e ci accorgemmo che non si muoveva, aveva perso i sensi. “Sara! SARA!” urlavamo, ma non rispondeva. La partita fu sospesa e chiamata un'ambulanza. Tutto attorno regnava il caos.

 

***

 

“Lasciami! Sei impazzito? Che fai?”. Sara si dimenava, mentre lui si accaniva su di lei, tentando di abbassarle i pantaloni. Lei non riusciva a liberarsi, la stretta era troppo forte; sentiva il suo membro eretto premerle contro la gamba. Poi riuscì a divincolarsi e si allontanò.

“Tu non sei mio padre!” urlò fra le lacrime. “Da quando mamma è morta ti comporti in modo strano, ma ora hai toccato il fondo. Non ti credevo capace di una cosa simile!”.

Lui tentò di avvicinarsi, un po' rinsavito, ma lei lo respinse.

“Non mi toccare! Domani non presentarti alla partita, non tentare di contattarmi. Dimenticati di aver avuto una figlia! Addio!” e se ne andò sbattendo la porta.

 

***

Si sentiva un verme. Aveva trattato la figlia in modo inaudito. Non riusciva a capire cosa gli era preso; il suo istinto animale gli aveva fatto perdere il senno. Si crogiolava nel rimorso, ma l'aveva combinata grossa.

Era quasi mezzogiorno, la sua bambina probabilmente stava ancora giocando. L'avrebbe chiamata più tardi, si sarebbe scusato. Voleva che l'ascoltasse anche se non l'avrebbe mai perdonato, o almeno non subito. Lei era l'unica persona che gli era rimasta al mondo. Squillò il telefono, rispose e ascoltò incredulo la voce che parlava dall'altro capo. Sara era morta. Aveva avuto un arresto cardiaco, mentre giocava e non avevano fatto in tempo a salvarla. La sua bambina. Scoppiò in lacrime. Sua figlia non c'era più e l'ultima cosa che gli aveva detto era che non avrebbe mai più voluto parlargli o solo vederlo. Che terribile verità! Non aveva avuto il tempo per rimediare all'errore commesso. L'ultima volta che aveva visto la figlia, aveva tentato di abusare di lei.

Solo al mondo e miserabile, si consolò pensando che era morta facendo ciò che amava.











Buona sera! Ho scritto questa storia, come omaggio a tutti gli sportivi che sono morti in campo, calciatori, pallavolisti, baskettari (si dice così?) che siano. La raccolta si compone di altri due capitoli che spero di pubblicare al più presto.
Mi dite che ne pensate?
GGC

   
 
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