Lui era un ciccione.
Questo lo sapeva benissimo da solo.
Però lo infastidiva terribilmente che fossero gli altri a farglielo notare, anche perché generalmente lo dicevano più come un insulto che come una constatazione.
Se non fosse stato un tipo così tranquillo e sornione, li avrebbe presi a calci nel sedere tutti ogni volta che lo chiamavano così.
Però era diverso quando lo diceva lei.
Ogni volta che quella parola usciva dalle sue labbra, lui sentiva come una forza sovrumana nascergli dentro lo stomaco e diffondersi con una potenza incontrollabile per tutti gli arti e le articolazioni fino a raggiungere la punta delle dita.
Lei pensava che quella fosse ira e che quindi chiamarlo così fosse un modo per fargli tirare fuori la sua vera forza; ma lui sapeva che in realtà era qualcosa di diverso, che non aveva niente a che vedere con la rabbia.
Quella sensazione che si scatenava al suo interno era più paragonabile a una volontà di essere all’altezza di quel nome, di quello che simboleggiava da quando aveva iniziato a pronunciarlo lei, e che ormai aveva assunto un significato più piacevole:
voleva dire che lei ci teneva a lui, che voleva che desse il meglio di sé.
E poi non era importante con quale parola lo chiamasse, perché detta da lei comunque non sarebbe mai stata sgradevole.
Ciccione, ciccione, ciccione.
Mai altra parola aveva assunto un suono più musicale alle sue orecchie.
Però di una cosa era sicuro, non avrebbe mai fatto intendere quello che pensava veramente, aveva paura che le cose potessero cambiare, di non sentirla più chiamarlo in nessun modo.
Avrebbe continuato a mangiare e far finta di essere stizzito per i commenti sul suo peso. Era pronto a tollerare tutto e fare la sua recita di rabbia quotidiana.
L’unica cosa che voleva era sentire lei chiamarlo Ciccione.
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Non mi convince molto, ma volevo scrivere qualcosa sul povero Choji, che mi sta molto simpatico. Però devo ammettere che non è facile: è un personaggio un po’ trascurato da Kishimoto.
Bacioni
natsumi90
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