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Autore: Dernier Orage    17/04/2012    0 recensioni
Un Maniero sospeso, statico, immobile, cristallizzato in un'epoca passata e anacronistica, in un luogo imprecisato dell'Europa dell'Est.
Un Maestro ungherese e due ragazzi cresciuti in modo da essere complementari e indispensabili l'uno all'altro.
Léon, Arkadij e Tanár Jànos.
Genere: Dark, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le Manoir Statique




The silver star of morning
Blinks down a tear from the sky
The sun has now arisen
The night closed its watchful eye
So don't let me be afraid
Don't let me be afraid
And Also The Trees - Misfortunes

 

Il maniero si ergeva cupo e opprimente nella pianura desolata, circondato da boschi di betulle e querce. I quattro torrioni gettavano un’ombra lunga e scura sul giardino d'inverno, le piante da frutto e i fiori profumati venivano riscaldati per l’intera mattina e per il primo pomeriggio, ma alle cinque il sole calava e i vetri non ricevevano più la luce, rendendo il luogo un intricato labirinto dai petali vellutati e dai mille colori.
Léon vi si rifugiava per l’intera giornata, per poi fuggire con i fogli e i rotoli sottobraccio, correndo nelle gallerie di lecci e coprendosi il volto per nascondersi alle dee greche e anatoliche, calpestava la ghiaia e il legno cigolante dell’ingresso e richiudeva il portone dietro le spalle. Aggrappandosi al corrimano saliva fino al terzo piano e poi nella sua stanza nel torrione est, alle sei e un quarto sarebbe stata servita la cena nel salone al primo piano e l’acqua della vasca veniva scaldata alle cinque e mezza in punto. Quel pomeriggio si era attardato sulle scale, badando alle stringhe slacciate, e con un brivido aveva trovato l’acqua appena tiepida. Aveva sciolto rapidamente i sali al gelsomino sul fondo della vasca, rendendo la superficie leggermente oleosa e madreperlata. Trattenne il fiato e si immerse, sfregando i capelli e le spalle, quando riemerse cercò di mettere a fuoco la brocca e si sciacquò i capelli, si lanciò fuori dall’acqua e si coprì con i teli riscaldati, vicino al fuoco del camino si asciugò i capelli e avvolse in una vestaglia. Prima di scendere a cena rimase a studiarsi allo specchio, rivestendosi lentamente, ricoprendo le gambe magre e le ginocchia ossute con dei pantaloni neri, il ventre bianco e teso con una camicia candida dal colletto alla coreana. Sollevò con uno scatto le bretelle sulle spalle e le lisciò, si infilò il panciotto grigio perla e annodò un sottile nastro di seta al collo. Si scostò i capelli neri dalla fronte, un gesto abitudinario il sollevare la ciocca lunga e sottile dagli occhi castani. Scuotendo la testa si ridestò da quell’attimo di stordimento e dopo aver lanciato uno sguardo all’orologio sulla scrivania scese di corsa le scale, la suola delle scarpe batteva un ritmo veloce e sincopato contro il marmo dei gradini.
La sala da pranzo era un immenso salone di legni scuri e arazzi, i candelabri sulle consolle e sopra la tavola imbandita non riuscivano ad illuminare il soffitto a cassettoni e dalle ampie vetrate si iniziavano ad intravedere le prime stelle. Lo sguardo di Léon venne richiamato dalla nuca di corti capelli castani di Arkadij, sulla porzione chiara del collo dal bordo del colletto e sulla schiena fasciata in un panciotto di seta nera e i gomiti poggiati sui braccioli della sedia di palissandro. Léon prese posto alla sinistra di Tanár Jànos, direttamente collegato all’emisfero destro del Maestro come un prolungamento delle sue arti e delle sue conoscenze. Arkadij gli sorrise fugacemente, per poi riacquistare il broncio e la fronte aggrottata, attento ad ogni particolare con perizia scientifica. Arkadij era l’emisfero sinistro, seduto alla destra di Tanár.
Il rogo dell’amore di Léon per Arkadij incendiava il bois de rose e rendeva incandescente le posate, arrossì e chinò il capo al cospetto di Tanár Jànos.
- Mi scusi per il ritardo.- Mormorò Léon fissando il calice di vino rosso tra le dita del Maestro.
- Ti abbiamo aspettato e il cibo si è raffreddato.- Tanár Jànos lo osservò con i suoi morbidi occhi blu, facendo ruotare il vino tra i decori del cristallo e proiettando ombre colorate e trasparenti sulla tovaglia.- Devi scusarti anche con Arkadij.-
- Mi dispiace Arkadij.- Aggiunse Léon guardando il ragazzo scrollare le spalle indifferente.
- Va bene così. Buon appetito.- Sentenziò Tanár Jànos sbriciolando del pane azzimo nella zuppa.
La cena proseguì in silenzio secondo il volere del Maestro, per il quale le parole rallentavano la digestione. Le conversazioni venivano spostate nel salottino privato, un luogo intimo e che non disperdeva eccessivamente il calore del camino, tra le labbra di Arkadij compariva una sigaretta oppiata e sulle sue ginocchia un libro sulle stelle. Tanár Jànos seduto sulla poltrona rigirava tra le mani il bastone da passeggio di faggio e, tamburellando con le dita sulla sfera dorata, correggeva le note che, seduto al piano, Léon alterava in diesis. Il giovane cercava con lo sguardo l’approvazione o qualche sintomo del gradimento di Arkadij, piegava la testa, raddrizzava la schiena, e si dava con trasporto alla musica.
- Come ho suonato?- Chiese Léon all’amico salendo le scale, dopo essersi congedati dal Maestro. Arkadij lo osservò attentamente, mordendosi il labbro e annuendo leggero.
- Non male.- Mormorò infine giocherellando con la copertina in broccato di un libro. Davanti alla tenda di velluto che nascondeva le scale a chiocciola del torrione nord, Arkadij si bloccò e in un sussurro aggiunse:- Stasera no, il cielo è limpido e ho già tirato fuori il telescopio. Mi dispiace.-
Vedendo lo sguardo triste di Léon e percependo la pressione veloce delle labbra sulle sue, sentì lo stomaco attorcigliarsi. Forse era ancora piccolo nei suoi sedici anni per capire la necessità dell’osservazione astronomica e delle variazioni di settimana in settimana, già osteggiate dal maltempo, forse era il suo animo romantico, ad Arkadij balenò in mente il pensiero che forse quello struggimento d’amore avrebbe fatto bene alla prosa e la poesia del giorno successivo di Léon. Nella solitudine del castello era diventata un’intimità inevitabile, il gioco da bambini, i quattro anni di differenza che rendevano Arkadij come un fratello maggiore o un esempio da seguire; Léon gli si addormentava sulla spalla, mentre leggevano un libro di favole danesi; i primi esperimenti con lo stetoscopio: Arkadij conservava tra le pagine di un volume un foglietto con le annotazioni del battito cardiaco di Léon ad otto anni.
Tanár Jànos aveva previsto che la loro profonda amicizia con la scoperta della sessualità e le effusioni della prima libido si sarebbe trasformata nell’innamoramento; non lo aveva ostacolato con canoni umani perché nel maniero, di umano, c’era ben poco. 





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