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Autore: ccharlotts    17/04/2012    3 recensioni
-- momentaneamente sospesa, riprenderà a breve :)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ti ricordi quel problema di cui ti ho parlato? Quello che non mi faceva dormire la notte e che mi ha assillato per tutta l’estate? Ecco, proprio quello. Ebbene oggi, otto settembre duemilaundici, sono riuscita finalmente ad abbatterlo. Sì, hai capito bene, mi hanno presa qui a Torino. Ci credi? Per alcune settimane ho quasi avuto il terrore che avrei passato i prossimi anni ancora a Parigi, lontana dalla mia famiglia. Fortunatamente tutto si è risolto.
Ti racconto la scena perché è stata epica. Sono arrivata all’università con l’intenzione di parlare nuovamente con il rettore e dirgli che non ne potevo più. Papà mi aveva detto che era una pessima idea, che così facendo non avrei fatto altro che peggiorare la situazione, che non avrebbero mai più accettato la mia richiesta di trasferimento. Ma sempre mio papà mi aveva guardato sorridendo dicendomi che la mia tenacia gli ricordava quella che aveva lui alla mia età e che probabilmente anche lui avrebbe agito così. A proposito, papà crede di avere perso la grinta che aveva fino a poco tempo fa. Non credo sia vero, dovresti vedere cosa fa per noi tre. Se non è grinta quella…
Torniamo a noi però. Dicevo, sono arrivata all’università e mi stavo dirigendo proprio verso l’ufficio del rettore. Pensa che non avevo nemmeno avvisato della mia visita, chissà come l’avrebbe presa se una segretaria, Camilla per la precisione, non mi avesse fermato a pochi centimetri dalla porta dicendomi “Signorina! Signorina! Sì, proprio lei, ho una comunicazione da darle.” Ha detto di avermi riconosciuta perché ormai i fogli con la mia foto e i miei documenti giravano da settimane nei loro uffici. Mi ha fatta quasi sentire una ricercata. Comunque, stavo dicendo che mi ha fermata. Io mi sono girata piuttosto scocciata! Insomma, stava pur sempre interrompendo la mia camminata trionfale verso il rettore.
Poi però ho visto il sorriso sul suo volto e ho intuito tutto. Non le ho lasciato il tempo di aprire bocca, ho stretto forte le sue mani nonostante fosse quasi una sconosciuta e ho urlato, in mezzo al corridoio pieno di studenti: “CE L’AVETE FATTA?” Già, perché a farcela ormai dovevano essere solo loro, non io che mi ero spaccata la schiena tutta estate viaggiando ininterrottamente tra Parigi e Torino. E sai che cosa ha fatto lei? Ha annuito. Ha annuito. HA ANNUITO. Capisci? Lei ha annuito e io ora potrò abitare a Torino con la mia famiglia. Dio, che gioia.
Avrei tanto voluto averti al mio fianco in quel momento, saresti scoppiata a ridere. Dovevi vedermi, sembravo una bambina. Ho abbracciato la segretaria scoppiando a piangere per la felicità e a lei sono caduti gli occhiali da vista che aveva sulla testa. Senza pensarci due volte mi sono abbassata e tra i singhiozzi e gli sguardi curiosi dei presenti glieli ho raccolti. Lei in cambio mi ha regalato un fazzoletto di carta per asciugare le lacrime. (Secondo te si dice regalare un fazzoletto o offrire un fazzoletto? O magari prestare? Ma se fosse prestare e io non la rivedrò più come farò a ridarglielo indietro?)
Poi sono tornata a casa, ma non prima di avere stretto la mano al rettore ringraziandolo tra le lacrime. Sì, perché sentendo tutti quei singhiozzi lui si era affacciato e non sembrava neanche troppo stupito a trovarsi davanti me. Insomma, hanno già intuito che avranno a che fare con un DNA mattoo al 99%. Chissà da chi mai avrò preso, tu cosa dici?
Comunque, come già ti ho detto, poi sono tornata a casa. Ad aspettarmi c’erano papà, la piccola Charlotte e la donna della pulizie. Indovina? Papà sapeva già tutto! Sì, va beh, anche io so perfettamente che conosce alcuni miei futuri professori e che senza queste conoscenze probabilmente il mio passaggio non sarebbe avvenuto, ma ti ricordo che il test di medicina a Parigi l’avevo fatto e superato da sola, con l’aiuto della mia sola testolina. Quindi, insomma, non mi si può definire raccomandata. O se proprio vogliamo farlo, almeno precisiamo che i miei 30 e lode sono sempre stati sudati.
Perché parlo di raccomandati? Quasi non ricordo …ah sì, perché dicevo che papà lo sapeva già. Probabilmente sarà stato uno dei suoi amici/professori. Non credi anche tu? Fatto sta che il babbo mi aveva già preso un regalino che penso proprio sfoggerò questa stessa sera. Sei curiosa di sapere cosa, vero? Era una scatolina azzurra, con un fiocchetto azzurro. Lo so che hai già capito. Ammettilo.
Proprio quello, un braccialettino di Tiffany, molto semplice, come il tuo, quello che hai sempre al polso. Sì, so cosa stai pensando ora. “Sofia, ma ne avevi già uno perfettamente identico!” Ecco, vedi, l’ho perso, ma questa è un’altra storia…
Purtroppo non possiamo festeggiare stasera, così papà mi ha promesso che domani a pranzo ci porta a mangiare tutti assieme in un ristorantino carino che dice di avere sperimentato insieme a dei colleghi qualche giorno fa. Non vedo l’ora.
Stasera, invece, qui in città inaugurano uno stadio. Uno stadio nuovo. (Effettivamente si inaugura qualcosa di nuovo, non di vecchio, ma magari poteva essere qualcosa di ristrutturato e ti avrei fatto venire dei dubbi che è meglio chiarire subito.) Ecco il motivo per cui non possiamo festeggiarmi. Ovviamente papà e Alessandro vogliono andarci e da quel che ho capito al babbo hanno dato dei biglietti importanti perché la sua società ha fatto qualcosa per questa inaugurazione. Non chiedermi cosa, sai che quando si tratta del lavoro di papà io non capisco nulla. Io sono nata per fare la dottoressa, non per capire la sua società e i suoi affari. O no?
In compenso, papà, sapendo che io e Charlotte non eravamo d’accordo, per convincerci ci ha promesso che per l’occasione ci avrebbe fatto avere dei bellissimi vestiti nuovi. (A quanto pare dobbiamo vestirci eleganti e quando ho chiesto ad Ale perché mai dovessimo vestirci eleganti per andare allo stadio lui mi ha guardato storto e con quel tono che usa quando parla del suo amato calcio mi ha risposto: “Non capisci proprio niente, questo non è un semplice stadio, questo è lo stadio degli stadi. Dobbiamo andare li con lo spirito che avremmo se andassimo ad un matrimonio!”) So che stai pensando che papà ci vizia troppo, ma sai com’è fatto e sai anche che per le sue due bimbe farebbe di tutto. Con questo non voglio dire che non abbia in considerazione Alessandro, anzi. E’ solo che in materia di vestiti Ale chiede consiglio a me. Andiamo sempre a fare shopping insieme e ogni volta mi ricorda che lui ci andrebbe anche con papà, se non fosse che papà è un elegante-chic mentre lui si definisce elegante-sportivo. Ecco, questo è mio fratello.
Forse ti stai chiedendo dove fosse Ale quando sono tornata a casa stamattina. Tranquilla, ovviamente era a calcio. Dove volevi che fosse? Ha già trovato una squadra anche qua. Che poi, non per vantarmi di mio fratello eh, ma chi non lo vorrebbe in squadra? Io non me ne intendo di calcio, ma a sentire papà è un fenomeno. Mi ricordo che il suo allenatore di Parigi a maggio, dopo la sua ultima partita con la squadra in cui giocava, l’ha fermato e tenuto in campo quasi mezz’ora. Io e papà guardavamo tutto dagli spalti. Ale piangeva perché sapeva che presto avrebbe dovuto lasciare quell’uomo e i suoi compagni di squadra e lui, l’allenatore, lo abbracciava con le lacrime agli occhi e gli faceva un discorso che subito dopo mio fratello ci ha ripetuto ancora singhiozzando. Gli ha detto che farà strada, che non deve lasciarsi abbattere da niente e nessuno e, soprattutto, di inseguire il suo sogno, sempre. Te lo ricordi l’allenatore di Ale, no? Ti ricordi tutti quei pomeriggi in cui Ale è tornato a casa dicendo che quell’uomo lo massacrava? Quello stesso uomo gli ha detto che aveva visto in lui qualcosa che non aveva visto in nessun’altro suo allievo. Mi ricordo che mentre mio fratello mi raccontava tutto l’ho stretto forte, commossa. Non ne capisco di calcio, ma so quanto vale per lui, sapevo cosa voleva dire per lui sentirsi dire quelle parole da quell’uomo che lo seguiva da quando aveva tirato i primi calci ad un pallone. Ormai era come un secondo padre il suo allenatore. Certe parole avrebbero fatto emozionare anche me probabilmente.
Fatto sta che ora Ale gioca nella primavera della squadra della città e se ne vanta dalla mattina alla sera. A volte non lo sopporto. In senso buono, ci mancherebbe.
Ieri l’ho accompagnato a comprare qualcosa per stasera e alla fine mi ha prosciugato la carta di credito. Sì, ho pagato io. Sai, avevo qualche regalo arretrato con lui e quindi l’ho accompagnato a rifarsi il guardaroba. Ho un fratello proprio fighetto, ma in fin dei conti in tutta la famiglia c’è sempre stato una certa classe nel vestire, dico bene?
Purtroppo ora ti devo lasciare. Sai che ti scriverei all’infinito se potessi, ma la mano comincia ad essere stanca e in più non ho ancora fatto nulla per stasera, devo iniziare a prepararmi e a preparare Charlotte.
Ci sentiamo presto, lo sai, non riuscirei a non scriverti per più di tre giorni.
Ti voglio bene, ricordalo sempre.
Tua, Sofi.

 
Sofia piegò il foglio prima per un terzo, poi ripiegò la parte restante su quella già piegata. Aprì il secondo cassetto del comodino accanto al letto e ne estrasse una busta bianca, sopra ci scrisse l’indirizzo della sua casa a Parigi e nome e cognome del destinatario. Poi si alzò e scese avvicinandosi alla cabina armadio. Entrò e, poggiandosi sulle punte dei piedi, arrivò allo scatolone posato sul ripiano più alto. Sull’etichetta c’era scritto –vecchi CD-, ma nessuno a parte lei sapeva che in verità i suoi vecchi cd erano rimasti a Parigi nella mansarda.
Aprì lo scatolone e decine e decine di buste bianche si presentarono ai suoi occhi. Tutte avevano lo stesso indirizzo e lo stesso destinatario scritti con la sua calligrafia. Accanto alle altre posò anche l’ultima lettera scritta. Sospirò. Magari un giorno, in futuro, le avrebbe rilette tutte, ma per ora non aveva ancora avuto il coraggio di farlo. Non le rileggeva nemmeno dopo averle scritte, non le importava di eventuali errori, ciò che contava era il concetto.
Bussarono.
Per poco lo scatolone non le cadde dalle mani per la sorpresa. Velocemente lo rimise al suo posto e si chiuse l’anta della cabina alle spalle. Appoggiò gli occhiali da vista che usava mentre studiava o leggeva sul letto e si avviò verso la porta.
“Babbo!” esclamò la ragazza sorridendo al padre dopo avergli aperto.
Notò subito che le nascondeva qualcosa dietro la schiena, qualcosa di lungo e coperto da una pellicola di tessuto. L’unica cosa che spuntava sotto questa era della stoffa bianca.
“Come promesso, piccola.”
Gli occhi di Sofia si riempirono di gioia come quelli di una bambina di fronte a qualcosa di impacchettato. Riccardo, il padre, le portò l’involucro davanti agli occhi e aspettò che fossero le mani della ragazza a scoprire cosa ci fosse sotto. Sofia non si fece attendere e iniziò ad alzare la pellicola finché non arrivò alla gruccia. Era uno splendido abito da sera, bianco, semplice, lungo, le sarebbe arrivato sicuramente fino ai piedi nonostante lei fosse piuttosto alta.
“E’ stupendo papà!” esclamò portando le braccia intorno al collo del padre e abbracciandolo.
“Sono contento che ti piaccia, non ho potuto fare a meno di pensare a te quando l’ho visto nella vetrina l’altro giorno. Quella dello stadio era solo una scusa per comprartelo.”
Sofia gli sorrise e prese il vestito tra le mani.
“La baby-sitter sta preparando Charlotte e Ale sta facendo la doccia. Inizi a prepararti anche tu? Alle 19 inizia la cerimonia.” Sofia annuì.
 
“Ma quanto sei bello?” esclamò la donna appena lo vide comparire sul pianerottolo del piano superiore.
“Mamma smettila con questi complimenti per bambini!” rispose il ragazzo, ma non c’era tono di rimprovero nella sua voce nei confronti della madre.
“Ma è come se lo fossi ancora, o meglio, come se lo fossi sempre restato…”
Leonardo conosceva bene quell’espressione e sapeva che arrivati ad un certo punto era meglio cambiare discorso.
Il ricordo del primo giorno a Milano senza i suoi genitori era ancora piuttosto vivo nella sua memoria nonostante ormai fossero passati una decina d’anni. Gli erano mancati tutti, la madre e il padre, tantissimo, certo, ma forse più di tutti era stata la mancanza del fratello a farlo soffrire. Si rivedevano spesso, quasi tutti i week-end la sua famiglia era salita in Lombardia per potergli stare accanto, ma quando ti ritrovi ad abitare lontano dagli affetti più cari a soli 15 anni non sono due giorni insieme che fanno cambiare lo stato d’animo. Si era chiesto spesso cosa stesse facendo suo fratello mentre lui si allenava, mangiava, dormiva. Chissà se anche lui era al campetto del loro paesino a tirare due calci al pallone, chissà se era con la loro compagnia, chissà se lo pensava, chissà se anche lui sentiva la sua mancanza.
Ma lui aveva inseguito il suo sogno, quel sogno che l’aveva portato la, a Torino, quel sogno che quella sera l’avrebbe portato ad essere presente all’inaugurazione dello stadio della sua squadra, un evento più unico che raro di cui lui si sentiva parte. Lui c’era, era nella rosa della squadra e probabilmente il suo nome sarebbe rimasto nella storia.
Con ancora nella testa tutti quei pensieri, Leonardo si avvicinò alla madre e l’abbracciò.
“Sono sempre il tuo bambino, solo un po’ più grande. Okay?” ancora una volta Leonardo notò che sua madre era decisamente piccolina rispetto a lui. Lui era alto, con le spalle grosse e le braccia muscolose, lei così dolce, piccola, fragile. Sapeva quanto sua madre avesse sofferto, l’aveva sentito nel tono della sua voce ogni giorno al telefono, l’aveva visto nei suoi occhi quando ogni domenica sera la sua famiglia ripartiva per tornare a casa mentre lui rimaneva a Milano.
A volte Leonardo si era sentito in colpa. Ma che colpa aveva? Sarebbe potuto tornare a casa, iniziare l’università, laurearsi, cercare un lavoro, sposarsi. Eppure in cuor suo sapeva che quella non sarebbe stata la sua vita. La sua vita era la, su un campo da calcio, con la palla tra i piedi e tanta voglia di fare bene, giocare, vincere.
Proprio nel momento in cui sua madre scioglieva l’abbraccio suo padre e suo fratello entrarono nel salotto. “Abbiamo interrotto qualcosa?” domandò Claudio sorridendo a entrambi. Leonardo scosse la testa e si avvicinò al ragazzo per battergli un cinque, pugno contro pugno, e infine abbracciò anche lui.
“Ti accompagniamo noi al centro, così non devi lasciare la macchina li, va bene?” parlò poi il padre.
Suo padre era l’unico in famiglia che non era mai riuscito a esprimere le proprie emozioni. Lui taceva e guardava, quello era il suo modo per fare capire che era fiero. Era fiero di Leonardo che era diventato un calciatore professionista, era fiero di Claudio che stava per terminare gli studi universitari, era fiero di sua moglie ed era fiero anche di se stesso per ciò che era riuscito a costruire negli anni, per la famiglia che era riuscito a creare. Era fiero di tutto, non aveva motivi di dispiaceri nella vita.
Leonardo annuì e fece segno di aspettarlo li un attimo. Salì le scale correndo e le riscese pochi istanti dopo con una scatolina in mano.
“A te l’onore mamma, un uccellino mi ha detto che ci tenevi tanto. Probabilmente non mi vedrai mai laurearmi o superare un colloquio di lavoro, ma sappi che quella di stasera per me vale come una laurea con 110 e lode, quindi, ecco.”
La madre aprì il pacchetto che Leonardo le pose tra le mani. Era una cravatta, nera, come il completo elegante che il figlio stava indossando. La donna sapeva che come gesto in sé era insignificante, ma le parole del ragazzo l’avevano fatta commuovere.
Era vero, probabilmente non l’avrebbe mai visto laurearsi e non l’avrebbe mai visto entrare in chissà quale famosa ditta, banca, ufficio amministrativo, eppure era così fiera di lui. Non avrebbe potuto chiedere altro per il suo bambino. E non doveva assolutamente sentirsi in colpa lui, perché era esattamente il figlio che ogni madre avrebbe desiderato.
Gli si avvicinò e con le sue mani piccole e perfette legò la cravatta al colletto della camicia, poi si spostò per vedere il risultato e in quel sorriso sulla bocca del figlio rivide il piccolo Leonardo che esultava dopo una vittoria della squadra, il piccolo Leonardo che tornava a casa contento dopo un allenamento, il piccolo Leonardo che si addormentava tra le sue braccia esausto davanti alla televisione dopo una giornata passata sul campo.
Gli occhi della donna diventarono lucidi. “Ora andiamo, o faremo tardi!” disse per mascherare la sua emotività, un’emotività troppo grande e che Leonardo conosceva bene. 

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buongiorno, buon pomeriggio e buonasera. sono qui con una storia nuova e che spero di riuscire, per una buona volta, a completare. 
chi ha già letto qualcosa di mio sa bene che io scrivo principalmente su calciatori famosi. ebbene, eccovi qualcosa di nuovo e rivoluzionario...
mmm, non proprio, alla fine si tratta sempre di calcio. la differenza è che i calciatori non sono famosi (anche se, chi mi conosce, potrà riconoscere nel personaggio maschile principale un calciatore a me molto caro). 
cos'altro dire? buona lettura. spero vi piaccia, questa volta voglio sul serio impegnarmi. 
un bacio, Eli.
  
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