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Autore: SAranel    18/04/2012    9 recensioni
John organizza una piccola gita al mare e Sherlock ne è decisamente seccato, per un motivo a John sconosciuto. Riuscirà il dottore a scoprire il problema? E riuscirà una piccola 'aiutante' a risolverlo una volta per tutte?
“Allora? “ ripeté il dottore, osservando il suo migliore amico. “Allora c’è che siamo su una spiaggia, il due di luglio, c’è una bellissima brezza estiva e un bel sole caldo. E tu, mio carissimo Sherlock indossi una camicia a maniche lunghe, pantaloni e…cappotto” sottolineò quell’ultima parola con particolare enfasi, probabilmente perché era il particolare a lasciarlo più interdetto di tutto il resto.
Sherlock fece spallucce.
“Io sono abituato così, John. Hai voluto trascinarmi qui e ho accettato, e adesso tu accetterai le mie condizioni. Io non indosso pantaloncini, t-shirt o…costumi di nessun genere, in pubblico” al solo pronunciare quella parola, John lo vide rabbrividire come se avesse appena detto qualcosa di indicibilmente disgustoso. “Nonostante tu mi abbia costretto ad indossarne uno qua sotto”.[...]
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonaseeeeera!
Non mi dilungherò stavolta, come al solito, sulla mia innata capacità di contraddirmi continuando a pubblicare lo stesso, quando mi riprometto di lasciar passare un po’ di tempo!
Questa storia nasce da diverse fonti d’ispirazione, i due bambini da un sogno meraviglioso che ho fatto, il resto, dai ricordi di tante bellissime giornate al mare della mia infanzia, e un pizzico di invenzione!
Non ci è dato sapere se il DI Lestrade abbia o no dei figli, ma in questo caso mi sono concessa una (indegna, lo so) licenza, ai fini narrativi!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.

 

 

Castelli di Sabbia
*

 

 

“Questo non è seriamente possibile, Sherlock. Davvero” John cercò di mantenere un tono neutrale mentre osservava Sherlock abbandonarsi sull’asciugamano bagnata dal pallido sole.

La spiaggia di Bournemouth ai primi di Luglio era incantevole. John aveva organizzato una piccola gita al mare con Sherlock, la Signora Hudson, e Lestrade con famiglia, trovando che la giornata fosse decisamente perfetta da passare all’aperto. Era sorpreso che quella spiaggetta solitaria, scoperta anni e anni prima assieme a Harry fosse rimasta quieta e tranquilla dopo tutto quel tempo. Si era immaginato di dover sgomitare in una folla chiassosa di bagnanti, ombrelloni e annessi vari mentre invece si era ritrovato davanti una situazione totalmente e piacevolmente diversa. Qualche bambino giocava serenamente a riva, e i loro genitori li osservavano in panciolle sotto il calore di quella stranamente molto assolata giornata d’estate. I bambini dell’Ispettore, un maschio e una femmina, corsero a perdifiato verso la riva con secchielli e palette, pregustando una mattinata a costruire fortezze e castelli.

Peccato che quello che sembrava poter essere un giorno all’insegna della spensieratezza e del dolce far niente stesse per essere naturalmente mandato all’aria da uno degli infantili capricci di Sherlock.

“Sherlock, John ha ragione” Lestrade inforcò gli occhiali da sole, mentre la moglie, probabilmente in vacanza tra un amante e l’altro (ma questo Sherlock preferì non riferirglielo) era intenta a chiacchierare con la loro padrona di casa, spalmandosi addosso la crema solare.
Il detective inspirò ed espirò profondamente, irritato.
Il medico strinse gli occhi, le mani sui fianchi, e lo osservò in silenzio per almeno cinque minuti, sbottando infine in un sospiro esasperato davanti alla sua testardaggine.
“Non è affar vostro” si degnò poi di rispondere il detective. “Se sto bene così non vedo dove sia il problema”.
L’ispettore scosse la testa, e probabilmente privo di qualunque voglia di stare a combattere con Sherlock, rinunciò all’impresa, raggiungendo la moglie e sdraiandosi accanto a lei in totale relax.
John invece si sedette sulla sua asciugamano, cercando in tutti i modi di lasciare che lo sciabordio lento delle onde lo distraesse da tutta quella situazione.
“Il problema, Sherlock, non è questione di stare bene così oppure no. E’… è che non è davvero possibile una cosa simile! Guardati intorno”.
Sherlock, non senza una certa svogliatezza, seguì il consiglio di John. Scuotendo il capo si guardò attorno concentrandosi sui pochi bagnanti che facevano loro compagnia, tornando quasi immediatamente a rivolgere lo sguardo a John, probabilmente non trovando i soggetti presenti abbastanza degni della sua attenzione.

“L’ho fatto. Ho osservato. Allora?” domandò, come se non fosse lui a comportarsi in maniera stramba, bensì il medico. Il detective sembrava decisamente a disagio, seduto li sulla distesa pacifica di sabbia. Come se intorno a lui, nel paesaggio o nella situazione stessa ci fosse qualcosa che lo facesse sentire spaesato.

John scrollò le spalle, meditando se rinunciare a farlo ragionare o se continuare nell’impresa. Non voleva che Sherlock avesse sempre l’ultima parola, non voleva essere sempre costretto ad accettare i suoi comportamenti senza battere ciglio, sforzandosi di ignorarlo. Aveva una dignità, per l’amor del Cielo!

Allora? “ ripeté il dottore, osservando il suo migliore amico. “Allora c’è che siamo su una spiaggia, il due di luglio, c’è una bellissima brezza estiva e un bel sole caldo. E tu, mio carissimo Sherlock indossi una camicia a maniche lunghe, pantaloni e…cappotto” sottolineò quell’ultima parola con particolare enfasi, probabilmente perché era il particolare a lasciarlo più interdetto di tutto il resto.
Sherlock fece spallucce.
“Io sono abituato così, John. Hai voluto trascinarmi qui e ho accettato, e adesso tu accetterai le mie condizioni. Io non indosso pantaloncini, t-shirt o…costumi di nessun genere, in pubblico” al solo pronunciare quella parola, John lo vide rabbrividire come se avesse appena detto qualcosa di indicibilmente disgustoso. “Nonostante tu mi abbia costretto ad indossarne uno qua sotto”.
John rimase in silenzio, con le braccia conserte, incapace di trovare qualcosa di abbastanza intelligente con cui replicare ad una frase del genere. La sua buona volontà si incrinò pericolosamente.

“Fa come vuoi. Sto pensando di rinunciare” sbottò John, sfilandosi la sua maglietta e i bermuda a quadretti rossi, rimanendo solamente in un grazioso costume verde a pantaloncino.

Sherlock lo guardò con vivo interesse, nonostante fosse palese che cercasse in tutti i modi di non darlo a vedere. John represse un sorrisetto compiaciuto quando si accorse del vivace interesse del compagno.
“Osservi il panorama?” domandò, facendo finta di niente e guardando il mare davanti a sé.
Sherlock distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi e facendo appello a tutto il suo self-control per evitare di arrossire furiosamente.

Borbottò qualcosa di indistinto.

“Facciamo una passeggiata?” chiese poi John, decidendo di non tormentare oltre il già molto problematico detective. Osservò il suo cappotto, sporco di sabbia per metà e si sentì travolgere dall’afa al posto suo.
Sherlock annuì, senza troppo entusiasmo.

Arrivati alla battigia, presero a camminare di buona lena, percorrendo la lunga riva che portava alla scogliera. John non voleva fare domande, ma vedere Sherlock così acconciato non lo aiutava certo a tenere la bocca chiusa. Era decisamente uno dei comportamenti più strani che Sherlock avesse mai avuto e davvero non riusciva a spiegarsi perché si costringesse a morire di caldo su una spiaggia, in estate, abbigliato come se fosse Natale. Si morse la lingua, impedendosi di parlare, anche se sapeva che quel misero espediente non lo avrebbe trattenuto a lungo.

“Forza, parla. Sputa il rospo” lo incoraggio Sherlock scuotendo la testa, mentre camminava di buon passo accanto al medico, le mani intrecciate dietro la schiena.

John, ormai non più sorpreso delle straordinarie (e a volte seriamente impressionanti) capacità deduttive del detective, sospirò.

“Perché?” chiese, optando per una domanda che andasse direttamente al sodo. “Insomma, ci deve essere un motivo”.
Sherlock si fermò, senza però dare segno a John di aver udito la sua domanda. Il medico non lo sopportava quando si comportava in quel modo. Lo illudeva di avere a sua attenzione, come quando faceva finta di volerlo coinvolgere in un analisi per poi smontarlo, e invece finiva con il perdersi nel suo impenetrabile mondo. Quello che aveva attirato adesso la sua attenzione, più che la richiesta di spiegazioni del dottore, erano i bambini di Lestrade, intenti a costruire, almeno nelle intenzioni, un imponente castello di sabbia.

Sherlock li fissava attentamente, studiando la loro opera con la dovizia di un architetto, come se dovesse giudicare la stabilità di un grattacielo di cinquanta piani piuttosto che un traballante mucchietto di sabbia.
“Se non rinforzate le fondamenta, crollerà tutto” esordì Sherlock, attirando l’attenzione dei due bambini che lo guardarono con espressione curiosa.
“Cosa sono le…fondamenta?” domandò la bambina, un grazioso scricciolo dai codini biondi. Sherlock emise un versetto contrariato, come se trovasse inconcepibile che una bimbetta di sì e no sei anni non conoscesse il significato di un termine come quello.
“La base della struttura. Quello su cui poggia il castello. E oltretutto la sabbia è troppo fine e troppo asciutta. Serve più acqua per renderla più compatta e oltretutto occorre che rinforziate il tutto con qualcosa di più stabile”.
La bambina continuò ad osservarlo con espressione curiosa, come se nel viso di Sherlock ci fosse qualcosa di estremamente buffo e interessante. Il fratello della piccola, invece guardava Sherlock con un cipiglio imbronciato.
“Perché non ci lasci costruire questo castello in pace? Non ci servono i tuoi consigli, possiamo fare da soli” sbottò, come se si fosse sentito ferito nel suo orgoglio di novello costruttore. John portò una mano alla bocca per costringersi a bloccare un attacco di risa convulse. Vedere Sherlock litigare con dei bambini era una scena che ancora gli mancava.

“I miei consigli sono utili, piccoletto, chiedi a tuo padre. Il tuo castello finirà per crollare al primo soffio di vento. Non è colpa mia se sei fondamentalmente scarso nella costruzione”.
Il bambino si alzò, con i pugni stretti lungo i fianchi come se volesse colpire Sherlock ma si sentisse bloccato dall’evidente differenza di stazza e altezza. La bambina invece, sembrava trovare l’intera situazione incredibilmente divertente.
Il piccolo s’immusonì, mentre tornava a sedersi, sconfitto già nelle intenzioni, mentre Sherlock ancora lo osservava come se non ne comprendesse il comportamento.
“Tornerò più tardi a controllare. Vedrò se avrete applicato i miei consigli”.
“Tieniti pure i tuoi consigli! Verrà fuori un castello bellissimo!” disse energicamente, deciso a non lasciare che l’uomo più grande avesse la meglio. Sherlock sbuffò e rivolgendo uno sguardo a John, che quasi rischiava di soffocarsi nel tentativo di trattenersi ancora, lo invitò a riprendere il cammino.
“Dio, Sherlock. Sono dei bambini” lo redarguì, cercando di non lasciargli intravedere il suo sorriso divertito. Sherlock alzò le spalle.
“Meglio che capiscano sin da bambini certe cose. Saranno avvantaggiati per il futuro. Sono stato gentile” fu il suo commento.
“Si, ma magari… con parole un po’ più garbate…”
Il detective emise un suono strozzato, un misto tra un versetto annoiato e uno stizzito. John decise di chiudere lì l’argomento, per non rischiare di mettere Sherlock ancora più a disagio di come già fosse.

Camminarono per qualche minuto, prima che John decidesse di riprendere l’argomento, ormai morbosamente curioso di ricevere almeno uno straccio di spiegazione.
“Ehm, Sherlock, a proposito della domanda di poco fa…”
Sherlock mugolò, indispettito.
“Speravo te ne fossi dimenticato”.
“Difficile, con te che mi cammini accanto conciato così”.

Sherlock si costrinse a fermarsi, guardando in cielo come se vi fosse qualcosa di estremamente attraente nell’azzurro intenso del mattino.
“Non ho via di scampo, a quanto pare” esordì poi, con una voce dal tono indecifrabile. “Ebbene, non mi sento a mio agio, in spiaggia. Non mi piace sentirmi…scoperto, davanti alla gente”.

John aggrottò le sopracciglia.
“Scoperto, Sherlock?”
“Scoperto, John” si limitò a ripetere il detective, guardando poi davanti a sé il lento avanzare e indietreggiare delle onde. Per un secondo sembrò perdersi in ricordi lontani, remoti, e il medico lo vide mordersi nervosamente un labbro come se quello che stava riportando alla mente non fosse qualcosa di così tanto piacevole.
“Quando avevo otto anni, mia madre portò me e Mycroft al mare. Io ero contento, mi piaceva andarci… sdraiarmi sulla spiaggia a leggere, fare lunghe nuotate… insomma, era…era bello”.
John non lo interruppe, sinceramente curioso di conoscere la storia.
“Mycroft riusciva sempre a… ad integrarsi con gli altri, a far parte del gruppo. A me non importava ma… insomma, quel giorno li vidi giocare tutti insieme e decisi di cercare di unirmi a loro. Cercai un approccio, e all’iniziò sembrò andare tutto bene.  Andammo in acqua, giocammo a pallone, facemmo lunghe nuotate fin quando… Mycroft rovinò tutto”. Strinse le labbra al solo ricordo. John, ancora ignaro di cosa fosse realmente successo, provò un indefinibile astio nei confronti dell’Holmes più grande.
“Mi rubò il costume, mentre ero in acqua. Lo minacciai almeno in trenta maniere diverse ma lui non fece una piega, suppongo che lo trovasse immensamente divertente, fatto sta che dovetti uscire dall’acqua… senza nulla addosso. Tutti scoppiarono a ridere e cominciarono a prendermi in giro. Non ebbi più il coraggio di avvicinarmi a loro o ad altri bambini in spiaggia, da quel giorno in poi. E ho sviluppato una sorta di totale idiosincrasia verso…” si guardò intorno “Tutto questo”.

Finì il suo racconto con una nota irritata e triste allo stesso tempo, nella voce. John non riuscì a fare a meno di provare una profonda pena e un’immensa tenerezza per il povero piccolo Sherlock.
“Mi dispiace, Sherlock. Davvero. Mycroft è stato veramente un odioso piccolo stronzetto” commentò, sinceramente. Sherlock ridacchiò, e John si sentì immensamente sollevato, da quella reazione.
“E’ solamente cresciuto in proporzioni” replicò. John scoppiò a ridere, annuendo.

Non parlarono per il resto del percorso, anche se John continuava a lanciare occhiate preoccupate e sinceramente interessate verso Sherlock per controllare che non si sentisse troppo a disagio. Sembrava visibilmente più sereno però, come se parlare della sua piccola disavventura lo avesse aiutato a superare almeno un po’ la sua avversione. Sorrise, guardando il suo amico.
Arrivati alle pendici della scogliera, si voltarono e cominciarono ad avviarsi nuovamente verso la loro spiaggetta, percorrendo il sentiero inverso. Dopo qualche minuto, incrociarono nuovamente i due bambini. Il traballante castello di poco prima però, si era adesso trasformato in un disordinato mucchietto di sabbia senza forma e dimensione. La bambina stava diligentemente riempiendo di nuovo il secchiello, per nulla scoraggiata dal primo tentativo andato male, mentre il maschietto era decisamente seccato, oltre che irritato, dal suo fallimento.

“Te lo avevo detto” disse Sherlock osservandolo. “Avresti dovuto ascoltarmi”.
Il ragazzino gli rivolse una smorfia indispettita, guardandolo con gli occhi ridotti a fessure.
“Stai zitto” disse, incrociando le braccia. “E’ solo il primo tentativo”.
Sherlock rise, sarcastico.
“Aspetto già la lunga sfilza di ‘primi tentativi’ che seguiranno questo. Quale sarà la prossima scusa?”.
“Sherlock!” lo rimproverò John, incredulo che il suo migliore amico stesse realmente bisticciando con un bimbetto con un terzo dei suoi anni.

“John, sei pregato di non interrompere” lo bloccò Sherlock, con un gesto della mano.
“E invece ci riusciremo!”
“Invece no”
“E invece si”

La bambina, fino a quel momento rimasta in silenzio, si sollevò dalla posizione a gambe incrociate in cui sedeva e con lo stesso tenero sorriso di poco prima prese a tirare con una certa insistenza la gamba destra del pantalone di Sherlock.
“Vieni giù” sillabò, nella sua vocina infantile. Il detective all’inizio non comprese. Guardò la bambina con sguardo indagatore, cercando di capire quali fossero le sue intenzioni. Lei nel frattempo continuava a tirare la stoffa, incoraggiante.
Alla fine Sherlock comprese. Con estrema lentezza si chinò, inginocchiandosi sulla sabbia con i suoi pantaloni scuri e costosi, e la bambina sembrò acquietarsi.
“Bene. Bravo” disse la piccola entusiasta, sorridendo ancora e mostrando a Sherlock la finestrella degli incisivi.
“Cosa c’è?” chiese il detective, curioso di sapere il motivo di quel tacito invito.
John, ancora in piedi, consapevole di ciò che stava accadendo e di ciò che sarebbe accaduto, sorrise, terribilmente intenerito, come se stesse guardando i due bambini alle prese con un amabile gattino ribelle. Ridacchiò, al solo pensiero.

“Sai, magari se tu ci aiuti, verrà meglio” trillò la bambina, saltellando sulle ginocchia allegramente. Il fratello sembrava aver appena visto un fantasma.
“Claire… che stai facendo?” le gridò contro il fratello, sbigottito nel vedere la sua sorellina allearsi spudoratamente con il nemico. “Lui non può aiutarci!”.

La bambina lo guardò con aria allegra e lievemente stupita, come se non vedesse affatto il motivo per cui un adulto non potesse giocare con loro.
“E perché?” domandò.
Il bambino sembrò incapace di rispondere. Balbettò qualcosa prima di rinunciare a dare una risposta, come se pensare fosse fin troppo faticoso.

“Perché si” fu tutto quello che disse.
John fissava ancora la scena, senza volersi perdere nemmeno un secondo della reazione del coinquilino; era deciso ad assistere ad uno spettacolo quasi più unico che raro.
Sherlock dal canto suo era sbiancato, assumendo un colorito ancora più pallido di quanto già non fosse. Apriva e chiudeva la bocca come se non riuscisse a connettere voce e cervello quanto bastava per produrre un suono, inspiegabilmente. Guardava la bambina come se fosse la creatura più bislacca su cui avesse mai posato gli occhi e piegò il capo come per studiarla da un’altra angolazione, tentando in tutti i modi di cercare una spiegazione alternativa, un altro significato, probabilmente, per l’invito che gli aveva rivolto.
John non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una risata divertita.
“Sherlock non c’è bisogno di pensarci tanto. Non ti ha chiesto di procurarle un’arma da fuoco. Non ci sono secondi fini” il medico era più che motivato ad incoraggiarlo verso la giusta direzione. Sherlock gli rispose con un cenno della mano, come se lo invitasse a rimanere in silenzio. Il medico si ammutolì, sorridendo.
“Mi hai… mi hai chiesto di aiutarti con il castello?” domandò alla fine, dopo quella pausa che sembrava durare da un' eternità. La bambina annuì energicamente, scuotendo i ciuffetti biondi e porgendogli educatamente una delle due palette, quella più grande, giudicandola probabilmente più adatta alle proporzioni del detective. Sherlock non staccò gli occhi dalla mano di lei, seguendone ogni movimento mentre gli porgeva il giocattolo, e lo prese fra le mani soppesandolo come se fosse un gioiello della Corona.

“Forza, prendi un po’ di sabbia e mettila qui” esclamò la bimba entusiasta e trepidante, allungandogli il secchiello, in attesa. Sherlock, ancora sconvolto, anche se decisamente più sollevato rispetto a poco prima, affondò la paletta nella sabbia e ne sollevò un mucchietto sostanzioso per poi versarlo nel piccolo secchio giallo.
Il fratellino della piccola li guardava sconvolto, come se non avesse mai visto nulla di più strano in vita sua, e ancora con quell’espressione tradita e imbronciata sul viso scosse la testa e corse sotto l’ombrellone dei suoi genitori, probabilmente a cercare consolazione.

“Bravo!” commentò la bambina senza perdere il suo perenne sorriso. John avrebbe voluto avere una memoria fotografica abbastanza sviluppata per poter imprimere a fuoco quel momento nella sua testa, anche se era sicuro che quell’immagine non l’avrebbe mai e poi mai dimenticata. Sherlock Holmes, inginocchiato sulla spiaggia a costruire castelli di sabbia con una bambina di cinque anni. Se qualcuno gli avesse detto che una cosa del genere sarebbe accaduta, lui lo avrebbe preso certamente per pazzo.
La piccola nel frattempo aveva preso una buona velocità e coordinazione con Sherlock, che scavava e riempiva il secchiello con sabbia bagnata, rinforzandolo con pietrisco e qualche conchiglia. Lui studiava i propri movimenti e quelli della bambina con qualcosa che John non riusciva a definire con una semplice parola. Incredulità? Ammirazione? Divertimento?
Sembrava rapito dalla metodica costruzione, dai movimenti veloci, dallo scavare e costruire, sollevare e rinforzare, come se si trovasse davanti ad un caso particolarmente complicato e stimolante.
“Verrà fuori proprio bello” squillò la bambina con sguardo estatico, osservando la prima torretta del castello, venuta straordinariamente bene grazie all’abilità di Sherlock. Il detective annuì, compiaciuto.
“Suppongo di si” commentò.
Poi la piccola si voltò a fissarlo nuovamente.
“Però sarebbe meglio senza tutta quella roba addosso, che ne dici?” chiese la bambina, con tutta la dolcezza e sincerità della sua età. “Potresti distruggere tutto, alzandoti. E poi fa così caaaldo” si sventolò con la manina paffuta.
Sherlock esitò e si morse un labbro, probabilmente combattendo con se stesso verso la sua decennale avversione. Non poteva dare l’impressione di abbandonare i propri principi, men che meno per la richiesta di una bambina, per quanto adorabile fosse, e oltretutto aveva detto a John che non lo avrebbe mai fatto. Era un uomo che aveva sempre dato un certo peso alla parola data, anche verso sé stesso. Aveva promesso che mai e poi mai si sarebbe spogliato ancora in spiaggia, aveva promesso che mai più avrebbe cercato di giocare con altri bambini, e intendeva mantenere la sua parola, nonostante ormai fosse adulto. Peccato che involontariamente, e spinto da qualcosa che neanche lui stesso sapeva definire, avesse già mancato ad una delle due promesse.

Sospirò profondamente, e guardando altrove, attento a non incrociare lo sguardo di John o della piccola Claire, si sfilò il cappotto di dosso, abbandonandolo sullo scoglio vicino. Si sfilò rapidamente la camicia viola e la porse a John, sempre senza guardarlo. Scese poi ai pantaloni scuri che rimosse con innata lentezza, come se volesse ritardare il più possibile il momento in cui tutta la spiaggia avrebbe ammirato il famoso, intelligentissimo Consulting Detective Sherlock Holmes in un costume a bermuda rosso, con stampe fantasia che addosso a lui, anche se non lo avrebbe mai e poi mai riconosciuto, stava meravigliosamente bene.
“Sta. Zitto” il detective minacciò John sibilando le parole tra i denti, sicuro del pronto commento del dottore.
“Va bene” sussurrò quest’ultimo, afferrando al volo i pantaloni del detective, soffocando una risatina divertita.
“Molto bravo!” Claire batté le mani, come per complimentarsi del gesto con Sherlock, che indeciso sul come reagire, le rivolse un sorriso appena accennato. Cosa avrebbe detto la gente se avesse saputo che Sherlock Holmes si lasciava andare a infantili smancerie e sorrisini con una cinquenne?

La bambina però, probabilmente non pensandola affatto allo stesso modo, gettò le braccia al collo di Sherlock e stringendolo dolcemente, gli stampò un bacio delicato sulla guancia.
John era in visibilio per lo sguardo impietrito del suo migliore amico, in reazione a quel bacio. Sembrava essersi irrigidito all’istante, come se qualcuno gli avesse appena tirato uno schiaffo in piena faccia. Dopo qualche secondo in totale silenzio, dove però John poté quasi vedere quel geniale cervello in frenetica attività, sospirò, apparendo un po’ più sciolto.

Scrollò le spalle, come se cercasse di riacquistare una certa compostezza e si scompigliò i capelli, guardando la piccola.
“Beh, ora siamo pronti, cosa dici?” disse alla bambina, che ancora una volta annuì nella buffa imitazione di un gesto militare, ansiosa di continuare, come un soldatino agli ordini del suo capitano.

“Agli ordini!” ridacchiò.
Sherlock rivolse poi gli occhi a John, fulminandolo con uno sguardo alla ‘una-sola parola-su-questo-a-qualcuno-e-te-la-vedrai-con-me’ e tossicchiò, eloquentemente.

Più in là, Lestrade, sua moglie e la Signora Hudson osservavano la scena a bocca aperta.
John lo guardò annuendo e sorrise, incapace di fare altro di fronte a quella realtà perfetta e incredibile allo stesso tempo.
Quando Sherlock fu sicuro che John non avrebbe commentato in alcun modo, piegò appena le labbra, come in segno di ringraziamento e gli porse un secchiello vuoto, sventolandoglielo davanti in un gesto eloquente.
“Che ne dici di dare una mano, John?”

John ridacchiò, ricordando tra sé e sé quanti dubbi avesse avuto nell’organizzare quella gita, con Sherlock che sbraitava sul fatto che non sarebbe venuto, che era meglio rimandare, e tutto il resto. Poi pensò a quanto quel giorno gli avesse regalato, e si complimentò con sé stesso per essere riuscito a non dare retta al coinquilino, mandandola a monte.
Aveva visto la compostezza e la freddezza di Sherlock sgretolarsi completamente davanti agli occhi dolci e la vocina allegra di una tenera fanciullina, e lo aveva visto giocare con lei senza una protesta, senza battere ciglio anche se visibilmente sbigottito e terribilmente impacciato.
Aveva visto le sue paure, la sua insofferenza venire totalmente annullate da un bacio sulla guancia.

E alla fine, guardando Sherlock sollevare un’altra torretta, incoraggiato dai versetti allegri di quell’adorabile bimbetta, ogni suo dubbio fu completamente spazzato via.
Era stata davvero un’idea perfetta.

 

 

 

 


*

 

 

  
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