Buonaseeeeera!
Non mi dilungherò stavolta, come al solito, sulla mia innata
capacità di
contraddirmi continuando a pubblicare lo stesso, quando mi riprometto
di
lasciar passare un po’ di tempo!
Questa storia nasce da
diverse fonti d’ispirazione, i due bambini da un sogno
meraviglioso che ho
fatto, il resto,
dai ricordi di tante bellissime giornate al mare della mia infanzia, e
un
pizzico di invenzione!
Non ci è dato sapere se il
DI Lestrade abbia o no dei figli, ma
in questo caso mi sono concessa una (indegna, lo so) licenza, ai fini
narrativi!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
*
La spiaggia di Bournemouth
ai primi di Luglio era incantevole. John aveva organizzato una piccola
gita al
mare con Sherlock, la Signora Hudson, e Lestrade con famiglia, trovando
che la
giornata fosse decisamente perfetta da passare all’aperto.
Era sorpreso che
quella spiaggetta solitaria, scoperta anni e anni prima assieme a Harry
fosse
rimasta quieta e tranquilla dopo tutto quel tempo. Si era immaginato di
dover
sgomitare in una folla chiassosa di bagnanti, ombrelloni e annessi vari
mentre
invece si era ritrovato davanti una situazione totalmente e
piacevolmente
diversa. Qualche bambino giocava serenamente a riva, e i loro genitori
li osservavano
in panciolle sotto il calore di quella stranamente molto assolata
giornata
d’estate. I bambini dell’Ispettore, un maschio e
una femmina, corsero a
perdifiato verso la riva con secchielli e palette, pregustando una
mattinata a
costruire fortezze e castelli.
Peccato che quello che
sembrava poter essere un giorno all’insegna della
spensieratezza e del dolce
far niente stesse per essere naturalmente mandato all’aria da
uno degli
infantili capricci di Sherlock.
“Sherlock, John ha
ragione” Lestrade inforcò gli occhiali da sole,
mentre la moglie, probabilmente
in vacanza tra un amante e l’altro (ma questo Sherlock
preferì non
riferirglielo) era intenta a chiacchierare con la loro padrona di casa,
spalmandosi addosso la crema solare.
Il detective inspirò ed espirò profondamente,
irritato.
Il medico strinse gli occhi, le mani sui fianchi, e lo
osservò in silenzio per
almeno cinque minuti, sbottando infine in un sospiro esasperato davanti
alla
sua testardaggine.
“Non è affar vostro” si degnò
poi di rispondere il detective. “Se sto bene così
non vedo dove sia il problema”.
L’ispettore scosse la testa, e probabilmente privo di
qualunque voglia di stare
a combattere con Sherlock, rinunciò all’impresa,
raggiungendo la moglie e
sdraiandosi accanto a lei in totale relax.
John invece si sedette sulla sua asciugamano, cercando in tutti i modi
di
lasciare che lo sciabordio lento delle onde lo distraesse da tutta
quella
situazione.
“Il problema, Sherlock, non è questione di stare
bene così oppure no. E’…
è che non è davvero possibile una cosa simile!
Guardati intorno”.
Sherlock, non senza una certa svogliatezza, seguì il
consiglio di John.
Scuotendo il capo si guardò attorno concentrandosi sui pochi
bagnanti che
facevano loro compagnia, tornando quasi immediatamente a rivolgere lo
sguardo a
John, probabilmente non trovando i soggetti presenti abbastanza degni
della sua
attenzione.
“L’ho
fatto. Ho osservato.
Allora?” domandò, come se non fosse lui a
comportarsi in maniera stramba, bensì
il medico. Il detective sembrava decisamente a disagio, seduto li sulla
distesa
pacifica di sabbia. Come se intorno a lui, nel paesaggio o nella
situazione
stessa ci fosse qualcosa che lo facesse sentire spaesato.
John scrollò le
spalle,
meditando se rinunciare a farlo ragionare o se continuare
nell’impresa. Non
voleva che Sherlock avesse sempre l’ultima parola, non voleva
essere sempre
costretto ad accettare i suoi comportamenti senza battere ciglio,
sforzandosi
di ignorarlo. Aveva una dignità, per l’amor del
Cielo!
“Allora?
“ ripeté il dottore, osservando il suo migliore
amico.
“Allora c’è che siamo su una spiaggia,
il due di luglio, c’è una bellissima
brezza estiva e un bel sole caldo. E tu, mio carissimo Sherlock indossi
una
camicia a maniche lunghe, pantaloni e…cappotto”
sottolineò quell’ultima parola con particolare
enfasi, probabilmente perché era
il particolare a lasciarlo più interdetto di tutto il resto.
Sherlock fece spallucce.
“Io sono abituato così, John. Hai voluto
trascinarmi qui e ho accettato, e
adesso tu accetterai le mie condizioni. Io non indosso pantaloncini,
t-shirt o…costumi di
nessun genere, in pubblico”
al solo pronunciare quella parola, John lo vide rabbrividire come se
avesse
appena detto qualcosa di indicibilmente disgustoso.
“Nonostante tu mi abbia
costretto ad indossarne uno qua sotto”.
John rimase in silenzio, con le braccia conserte, incapace di trovare
qualcosa
di abbastanza intelligente con cui replicare ad una frase del genere.
La sua
buona volontà si incrinò pericolosamente.
“Fa come vuoi. Sto
pensando di rinunciare” sbottò John, sfilandosi la
sua maglietta e i bermuda a
quadretti rossi, rimanendo solamente in un grazioso costume verde a
pantaloncino.
Sherlock lo guardò
con
vivo interesse, nonostante fosse palese che cercasse in tutti i modi di
non
darlo a vedere. John represse un sorrisetto compiaciuto quando si
accorse del
vivace interesse del compagno.
“Osservi il panorama?” domandò, facendo
finta di niente e guardando il mare
davanti a sé.
Sherlock distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi e facendo appello a
tutto il
suo self-control per evitare di arrossire furiosamente.
Borbottò qualcosa
di
indistinto.
“Facciamo una
passeggiata?” chiese poi John, decidendo di non tormentare
oltre il già molto
problematico detective. Osservò il suo cappotto, sporco di
sabbia per metà e si
sentì travolgere dall’afa al posto suo.
Sherlock annuì, senza troppo entusiasmo.
Arrivati alla battigia,
presero a camminare di buona lena, percorrendo la lunga riva che
portava alla
scogliera. John non voleva fare domande, ma vedere Sherlock
così acconciato non
lo aiutava certo a tenere la bocca chiusa. Era decisamente uno dei
comportamenti più strani che Sherlock avesse mai avuto e
davvero non riusciva a
spiegarsi perché si costringesse a morire di caldo su una
spiaggia, in estate,
abbigliato come se fosse Natale. Si morse la lingua, impedendosi di
parlare,
anche se sapeva che quel misero espediente non lo avrebbe trattenuto a
lungo.
“Forza, parla. Sputa
il
rospo” lo incoraggio Sherlock scuotendo la testa, mentre
camminava di buon
passo accanto al medico, le mani intrecciate dietro la schiena.
John, ormai non più
sorpreso delle straordinarie (e a volte seriamente impressionanti)
capacità deduttive del detective, sospirò.
“Perché?”
chiese, optando
per una domanda che andasse direttamente al sodo. “Insomma,
ci deve essere un
motivo”.
Sherlock si fermò, senza però dare segno a John
di aver udito la sua domanda.
Il medico non lo sopportava quando si comportava in quel modo. Lo
illudeva di
avere a sua attenzione, come quando faceva finta di volerlo coinvolgere
in un
analisi per poi smontarlo, e invece finiva con il perdersi nel suo
impenetrabile mondo. Quello che aveva attirato adesso la sua
attenzione, più
che la richiesta di spiegazioni del dottore, erano i bambini di
Lestrade,
intenti a costruire, almeno nelle intenzioni, un imponente castello di
sabbia.
Sherlock li fissava
attentamente, studiando la loro opera con la dovizia di un architetto,
come se
dovesse giudicare la stabilità di un grattacielo di
cinquanta piani piuttosto
che un traballante mucchietto di sabbia.
“Se non rinforzate le fondamenta, crollerà
tutto” esordì Sherlock, attirando
l’attenzione dei due bambini che lo guardarono con
espressione curiosa.
“Cosa sono le…fondamenta?”
domandò la
bambina, un grazioso scricciolo dai codini biondi. Sherlock emise un
versetto
contrariato, come se trovasse inconcepibile che una bimbetta di
sì e no sei
anni non conoscesse il significato di un termine come quello.
“La base della struttura. Quello su cui poggia il castello. E
oltretutto la
sabbia è troppo fine e troppo asciutta. Serve più
acqua per renderla più
compatta e oltretutto occorre che rinforziate il tutto con qualcosa di
più
stabile”.
La bambina continuò ad osservarlo con espressione curiosa,
come se nel viso di
Sherlock ci fosse qualcosa di estremamente buffo e interessante. Il
fratello
della piccola, invece guardava Sherlock con un cipiglio imbronciato.
“Perché non ci lasci costruire questo castello in
pace? Non ci servono i tuoi
consigli, possiamo fare da soli” sbottò, come se
si fosse sentito ferito nel
suo orgoglio di novello costruttore. John portò una mano
alla bocca per
costringersi a bloccare un attacco di risa convulse. Vedere Sherlock
litigare
con dei bambini era una scena che ancora gli mancava.
“I miei consigli
sono
utili, piccoletto, chiedi a tuo padre. Il tuo castello
finirà per crollare al
primo soffio di vento. Non è colpa mia se sei
fondamentalmente scarso nella
costruzione”.
Il bambino si alzò, con i pugni stretti lungo i fianchi come
se volesse colpire
Sherlock ma si sentisse bloccato dall’evidente differenza di
stazza e altezza.
La bambina invece, sembrava trovare l’intera situazione
incredibilmente
divertente.
Il piccolo s’immusonì, mentre tornava a sedersi,
sconfitto già nelle
intenzioni, mentre Sherlock ancora lo osservava come se non ne
comprendesse il
comportamento.
“Tornerò più tardi a controllare.
Vedrò se avrete applicato i miei consigli”.
“Tieniti pure i tuoi consigli! Verrà fuori un
castello bellissimo!”
disse energicamente, deciso a non lasciare che l’uomo
più grande avesse la meglio. Sherlock sbuffò e
rivolgendo uno sguardo a John,
che quasi rischiava di soffocarsi nel tentativo di trattenersi ancora,
lo
invitò a riprendere il cammino.
“Dio, Sherlock. Sono dei bambini”
lo
redarguì, cercando di non lasciargli intravedere il suo
sorriso divertito.
Sherlock alzò le spalle.
“Meglio che capiscano sin da bambini certe cose. Saranno
avvantaggiati per il
futuro. Sono stato gentile” fu il suo commento.
“Si, ma magari… con parole un po’
più garbate…”
Il detective emise un suono strozzato, un misto tra un versetto
annoiato e uno
stizzito. John decise di chiudere lì l’argomento,
per non rischiare di mettere
Sherlock ancora più a disagio di come già fosse.
Camminarono per qualche
minuto, prima che John decidesse di riprendere l’argomento,
ormai morbosamente
curioso di ricevere almeno uno straccio di spiegazione.
“Ehm, Sherlock, a proposito della domanda di poco
fa…”
Sherlock mugolò, indispettito.
“Speravo te ne fossi dimenticato”.
“Difficile, con te che mi cammini accanto conciato
così”.
Sherlock si costrinse a
fermarsi, guardando in cielo come se vi fosse qualcosa di estremamente
attraente nell’azzurro intenso del mattino.
“Non ho via di scampo, a quanto pare”
esordì poi, con una voce dal tono
indecifrabile. “Ebbene, non mi sento a mio agio, in spiaggia.
Non mi piace
sentirmi…scoperto,
davanti alla
gente”.
John aggrottò le
sopracciglia.
“Scoperto, Sherlock?”
“Scoperto, John” si limitò a ripetere il
detective, guardando poi davanti a sé
il lento avanzare e indietreggiare delle onde. Per un secondo
sembrò perdersi
in ricordi lontani, remoti, e il medico lo vide mordersi nervosamente
un labbro
come se quello che stava riportando alla mente non fosse qualcosa di
così tanto
piacevole.
“Quando avevo otto anni, mia madre portò me e
Mycroft al mare. Io ero contento,
mi piaceva andarci… sdraiarmi sulla spiaggia a leggere, fare
lunghe nuotate…
insomma, era…era bello”.
John non lo interruppe, sinceramente curioso di conoscere la storia.
“Mycroft riusciva sempre a… ad integrarsi con gli
altri, a far parte del gruppo.
A me non importava ma… insomma, quel giorno li vidi giocare
tutti insieme e
decisi di cercare di unirmi a loro. Cercai un approccio, e
all’iniziò sembrò
andare tutto bene. Andammo
in acqua,
giocammo a pallone, facemmo lunghe nuotate fin quando… Mycroft rovinò
tutto”. Strinse le labbra al solo ricordo. John,
ancora ignaro di cosa fosse realmente successo, provò un
indefinibile astio nei
confronti dell’Holmes più grande.
“Mi rubò il costume, mentre ero in acqua. Lo
minacciai almeno in trenta maniere
diverse ma lui non fece una piega, suppongo che lo trovasse
immensamente divertente, fatto sta
che dovetti uscire
dall’acqua… senza nulla addosso. Tutti scoppiarono
a ridere e cominciarono a
prendermi in giro. Non ebbi più il coraggio di avvicinarmi a
loro o ad altri
bambini in spiaggia, da quel giorno in poi. E ho sviluppato una sorta
di totale
idiosincrasia verso…” si guardò intorno
“Tutto questo”.
Finì il suo
racconto con
una nota irritata e triste allo stesso tempo, nella voce. John non
riuscì a
fare a meno di provare una profonda pena e un’immensa
tenerezza per il povero
piccolo Sherlock.
“Mi dispiace, Sherlock. Davvero. Mycroft è stato
veramente un odioso piccolo
stronzetto” commentò, sinceramente. Sherlock
ridacchiò, e John si sentì immensamente
sollevato, da quella reazione.
“E’ solamente cresciuto in proporzioni”
replicò. John scoppiò a ridere,
annuendo.
Non parlarono per il resto
del percorso, anche se John continuava a lanciare occhiate preoccupate
e
sinceramente interessate verso Sherlock per controllare che non si
sentisse
troppo a disagio. Sembrava visibilmente più sereno
però, come se parlare della
sua piccola disavventura lo avesse aiutato a superare almeno un
po’ la sua
avversione. Sorrise, guardando il suo amico.
Arrivati alle pendici della scogliera, si voltarono e cominciarono ad
avviarsi
nuovamente verso la loro spiaggetta, percorrendo il sentiero inverso.
Dopo
qualche minuto, incrociarono nuovamente i due bambini. Il traballante
castello
di poco prima però, si era adesso trasformato in un
disordinato mucchietto di
sabbia senza forma e dimensione. La bambina stava diligentemente
riempiendo di
nuovo il secchiello, per nulla scoraggiata dal primo tentativo andato
male,
mentre il maschietto era decisamente seccato, oltre che irritato, dal
suo
fallimento.
“Te lo avevo
detto” disse
Sherlock osservandolo. “Avresti dovuto ascoltarmi”.
Il ragazzino gli rivolse una smorfia indispettita, guardandolo con gli
occhi
ridotti a fessure.
“Stai zitto” disse, incrociando le braccia.
“E’ solo il primo tentativo”.
Sherlock rise, sarcastico.
“Aspetto già la lunga sfilza di ‘primi
tentativi’ che seguiranno questo. Quale
sarà la prossima scusa?”.
“Sherlock!” lo rimproverò John,
incredulo che il suo migliore amico stesse
realmente bisticciando con un bimbetto con un terzo dei suoi anni.
“John, sei pregato
di non
interrompere” lo bloccò Sherlock, con un gesto
della mano.
“E invece ci riusciremo!”
“Invece no”
“E invece si”
La bambina, fino a quel
momento rimasta in silenzio, si sollevò dalla posizione a
gambe incrociate in
cui sedeva e con lo stesso tenero sorriso di poco prima prese a tirare
con una
certa insistenza la gamba destra del pantalone di Sherlock.
“Vieni giù” sillabò, nella
sua vocina infantile. Il detective all’inizio non
comprese. Guardò la bambina con sguardo indagatore, cercando
di capire quali
fossero le sue intenzioni. Lei nel frattempo continuava a tirare la
stoffa,
incoraggiante.
Alla fine Sherlock comprese. Con estrema lentezza si chinò,
inginocchiandosi
sulla sabbia con i suoi pantaloni scuri e costosi, e la bambina
sembrò acquietarsi.
“Bene. Bravo” disse la piccola entusiasta,
sorridendo ancora e mostrando a
Sherlock la finestrella degli incisivi.
“Cosa c’è?” chiese il
detective, curioso di sapere il motivo di quel tacito
invito.
John, ancora in piedi, consapevole di ciò che stava
accadendo e di ciò che
sarebbe accaduto, sorrise, terribilmente intenerito, come se stesse
guardando i
due bambini alle prese con un amabile gattino ribelle.
Ridacchiò, al solo
pensiero.
“Sai, magari se tu
ci aiuti,
verrà meglio” trillò la bambina,
saltellando sulle ginocchia allegramente. Il
fratello sembrava aver appena visto un fantasma.
“Claire… che stai facendo?” le
gridò contro il fratello, sbigottito nel vedere
la sua sorellina allearsi spudoratamente con il nemico. “Lui
non può
aiutarci!”.
La bambina lo
guardò con
aria allegra e lievemente stupita, come se non vedesse affatto il
motivo per
cui un adulto non potesse giocare con loro.
“E perché?” domandò.
Il bambino sembrò incapace di rispondere.
Balbettò qualcosa prima di rinunciare
a dare una risposta, come se pensare fosse fin troppo faticoso.
“Perché
si” fu tutto
quello che disse.
John fissava ancora la scena, senza volersi perdere nemmeno un secondo
della
reazione del coinquilino; era deciso ad assistere ad uno spettacolo
quasi più
unico che raro.
Sherlock dal canto suo era sbiancato, assumendo un colorito ancora
più pallido
di quanto già non fosse. Apriva e chiudeva la bocca come se
non riuscisse a
connettere voce e cervello quanto bastava per produrre un suono,
inspiegabilmente. Guardava la bambina come se fosse la creatura
più bislacca su
cui avesse mai posato gli occhi e piegò il capo come per
studiarla da un’altra
angolazione, tentando in tutti i modi di cercare una spiegazione
alternativa,
un altro significato,
probabilmente,
per l’invito che gli aveva rivolto.
John non riuscì più a trattenersi e
scoppiò in una risata divertita.
“Sherlock non c’è bisogno di pensarci
tanto. Non ti ha chiesto di procurarle
un’arma da fuoco. Non ci sono secondi fini” il
medico era più che motivato ad
incoraggiarlo verso la giusta direzione. Sherlock gli rispose con un
cenno
della mano, come se lo invitasse a rimanere in silenzio. Il medico si
ammutolì,
sorridendo.
“Mi hai… mi hai chiesto di aiutarti con il
castello?” domandò alla fine, dopo
quella pausa che sembrava durare da un' eternità. La bambina
annuì
energicamente, scuotendo i ciuffetti biondi e porgendogli educatamente
una
delle due palette, quella più grande, giudicandola
probabilmente più adatta
alle proporzioni del detective. Sherlock non staccò gli
occhi dalla mano di lei,
seguendone ogni movimento mentre gli porgeva il giocattolo, e lo prese
fra le
mani soppesandolo come se fosse un gioiello della Corona.
“Forza, prendi un
po’ di
sabbia e mettila qui” esclamò la bimba entusiasta
e trepidante, allungandogli
il secchiello, in attesa. Sherlock, ancora sconvolto, anche se
decisamente più
sollevato rispetto a poco prima, affondò la paletta nella
sabbia e ne sollevò
un mucchietto sostanzioso per poi versarlo nel piccolo secchio giallo.
Il fratellino della piccola li guardava sconvolto, come se non avesse
mai visto
nulla di più strano in vita sua, e ancora con
quell’espressione tradita e
imbronciata sul viso scosse la testa e corse sotto
l’ombrellone dei suoi
genitori, probabilmente a cercare consolazione.
“Bravo!”
commentò la
bambina senza perdere il suo perenne sorriso. John avrebbe voluto avere
una
memoria fotografica abbastanza sviluppata per poter imprimere a fuoco
quel
momento nella sua testa, anche se era sicuro che
quell’immagine non l’avrebbe
mai e poi mai dimenticata. Sherlock Holmes, inginocchiato sulla
spiaggia a
costruire castelli di sabbia con una bambina di cinque anni. Se
qualcuno gli
avesse detto che una cosa del genere sarebbe accaduta, lui lo avrebbe
preso
certamente per pazzo.
La piccola nel frattempo aveva preso una buona velocità e
coordinazione con
Sherlock, che scavava e riempiva il secchiello con sabbia bagnata,
rinforzandolo con pietrisco e qualche conchiglia. Lui studiava i propri
movimenti e quelli della bambina con qualcosa che John non riusciva a
definire
con una semplice parola. Incredulità? Ammirazione? Divertimento?
Sembrava rapito dalla metodica costruzione, dai movimenti veloci, dallo
scavare
e costruire, sollevare e rinforzare, come se si trovasse davanti ad un
caso
particolarmente complicato e stimolante.
“Verrà fuori proprio bello”
squillò la bambina con sguardo estatico, osservando
la prima torretta del castello, venuta straordinariamente bene grazie
all’abilità di Sherlock. Il detective
annuì, compiaciuto.
“Suppongo di si” commentò.
Poi la piccola si voltò a fissarlo nuovamente.
“Però sarebbe meglio senza tutta quella roba
addosso, che ne dici?” chiese la
bambina, con tutta la dolcezza e sincerità della sua
età. “Potresti distruggere
tutto, alzandoti. E poi fa così caaaldo”
si sventolò con la manina paffuta.
Sherlock esitò e si morse un labbro, probabilmente
combattendo con se stesso
verso la sua decennale avversione. Non poteva dare
l’impressione di abbandonare
i propri principi, men che meno per la richiesta di una bambina, per
quanto
adorabile fosse, e oltretutto aveva detto a John che non lo avrebbe mai
fatto.
Era un uomo che aveva sempre dato un certo peso alla parola data, anche
verso
sé stesso. Aveva promesso che mai e poi mai si sarebbe
spogliato ancora in
spiaggia, aveva promesso che mai più avrebbe cercato di
giocare con altri
bambini, e intendeva mantenere la sua parola, nonostante ormai fosse
adulto.
Peccato che involontariamente, e spinto da qualcosa che neanche lui
stesso
sapeva definire, avesse già mancato ad una delle due promesse.
Sospirò
profondamente, e
guardando altrove, attento a non incrociare lo sguardo di John o della
piccola
Claire, si sfilò il cappotto di dosso, abbandonandolo sullo
scoglio vicino. Si
sfilò rapidamente la camicia viola e la porse a John, sempre
senza guardarlo.
Scese poi ai pantaloni scuri che rimosse con innata lentezza, come se
volesse
ritardare il più possibile il momento in cui tutta la
spiaggia avrebbe ammirato
il famoso, intelligentissimo Consulting
Detective Sherlock Holmes in un costume a bermuda rosso, con
stampe
fantasia che addosso a lui, anche se non lo avrebbe mai e poi mai
riconosciuto,
stava meravigliosamente bene.
“Sta. Zitto” il detective minacciò John
sibilando le parole tra i denti, sicuro
del pronto commento del dottore.
“Va bene” sussurrò
quest’ultimo, afferrando al volo i pantaloni del detective,
soffocando una risatina divertita.
“Molto bravo!” Claire batté le mani,
come per complimentarsi del gesto con
Sherlock, che indeciso sul come reagire, le rivolse un sorriso appena
accennato. Cosa avrebbe detto la gente se avesse saputo che Sherlock
Holmes si
lasciava andare a infantili smancerie e sorrisini con una cinquenne?
La bambina però,
probabilmente non pensandola affatto allo stesso modo, gettò
le braccia al
collo di Sherlock e stringendolo dolcemente, gli stampò un
bacio delicato sulla
guancia.
John era in visibilio per lo sguardo impietrito del suo migliore amico,
in
reazione a quel bacio. Sembrava essersi irrigidito
all’istante, come se
qualcuno gli avesse appena tirato uno schiaffo in piena faccia. Dopo
qualche
secondo in totale silenzio, dove però John poté
quasi vedere quel geniale cervello
in frenetica attività, sospirò,
apparendo un po’ più sciolto.
Scrollò le spalle,
come se
cercasse di riacquistare una certa compostezza e si
scompigliò i capelli, guardando
la piccola.
“Beh, ora siamo pronti, cosa dici?” disse alla
bambina, che ancora una volta
annuì nella buffa imitazione di un gesto militare, ansiosa
di continuare, come
un soldatino agli ordini del suo capitano.
“Agli
ordini!” ridacchiò.
Sherlock rivolse poi gli occhi a John, fulminandolo con uno sguardo
alla ‘una-sola
parola-su-questo-a-qualcuno-e-te-la-vedrai-con-me’
e tossicchiò, eloquentemente.
Più in
là, Lestrade, sua
moglie e la Signora Hudson osservavano la scena a bocca aperta.
John lo guardò annuendo e sorrise, incapace di fare altro di
fronte a quella
realtà perfetta e incredibile allo stesso tempo.
Quando Sherlock fu sicuro che John non avrebbe commentato in alcun
modo, piegò
appena le labbra, come in segno di ringraziamento e gli porse un
secchiello
vuoto, sventolandoglielo davanti in un gesto eloquente.
“Che ne dici di dare una mano, John?”
John ridacchiò,
ricordando
tra sé e sé quanti dubbi avesse avuto
nell’organizzare quella gita, con
Sherlock che sbraitava sul fatto che non sarebbe venuto, che era meglio
rimandare, e tutto il resto. Poi pensò a quanto quel giorno
gli avesse
regalato, e si complimentò con sé stesso per
essere riuscito a non dare retta
al coinquilino, mandandola a monte.
Aveva visto la compostezza e la freddezza di Sherlock sgretolarsi
completamente
davanti agli occhi dolci e la vocina allegra di una tenera fanciullina,
e lo
aveva visto giocare con lei senza
una
protesta, senza battere ciglio anche se visibilmente sbigottito e
terribilmente
impacciato.
Aveva visto le sue paure, la sua insofferenza
venire totalmente annullate da un bacio sulla guancia.
E alla fine, guardando
Sherlock sollevare un’altra torretta, incoraggiato dai
versetti allegri di
quell’adorabile bimbetta, ogni suo dubbio fu completamente
spazzato via.
Era stata davvero un’idea perfetta.