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Autore: Noth    19/04/2012    9 recensioni
(Lo sai, delle rondini?)
« Hai perso il lavoro? »
« In realtà non lo ho mai avuto. » sorrisi. « I miei mi hanno ripudiato. »
L’uomo fece saettare le sopracciglia fino alla parte più alta della sua fronte spaziosa e sbattè più volte le palpebre.
« Dovevi essere proprio un figlio terribile. » commentò, ridacchiando tra sé per la battuta appena fatta.
Sorrisi di rimando, appoggiando la custodia per terra e sedendomi al bancone, sentendo i jeans bagnati squittire a contatto con la pelle dei sedili.
« Solo un po’ troppo gay per loro. » alzai le spalle.
Il barista mi imitò e passò uno straccio sul bancone coperto di briciole.
« Ah, ragazzo, certa gente non sa capire l’amore. » disse.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Do you know about swallows?
-Capitolo 2-

 









La prima cosa che pensai fu che doveva avermi preso fuoco la testa nel sonno, magari mi ero addormentato in quel quartiere dove c’era quella banda di ragazzini con vaghi istinti piromani.

Poi ricordai.

E probabilmente fu la mancanza di odore di fumo e pipì di cane che mi suggerì che non potevo essere in strada, assieme alla morbidezza del cuscino nel quale affondavo la testa e dal quale non la volevo alzare. Dovevo ammettere che non era per niente male, e che mi era mancato parecchio. Non feci subito caso al fatto che faceva troppo caldo per avere addosso solo un lenzuolo ed un copriletto, almeno così sembrava e, mentre i miei sensi si disinibivano – fatta eccezione per la testa che sembrava essersi staccata ed avere vita propria, mi accorsi di avere un corpo schiacciato addosso. Cercai di riunire i pezzi alla meglio e, grazie a qualche flash confuso, riuscii a ricordare qualcosa. Il corpo doveva essere del figlio di quello strano e gentile barista che mi aveva salvato dalle intemperie, perché ricordavo, più o meno, che mi avesse proposto di stare a casa sua per la notte. L’immagine che avevo in mente però lo ritraeva con un tutù azzurro di tulle, e dubitavo fosse andata veramente così. Scavai ancora un po’ più a fondo e sfidai il mio mal di testa per trovare invidia, affetto, nostalgia e rondini.

Rondini?

Che diamine c’entravano le rondini con la serata?

Visto che non riuscivo a ricordarlo mi arresi e sospirai, massaggiandomi le tempie nel tentativo di alleviare la sensazione di caos alla testa. Era
come se la avessero inserita in una campana e dei gargoyle si stessero divertendo a sbatterci i martelli contro per creare un fracasso infernale.

Terribile.

Dovevo ammettere che Sean – o forse era John, ma cominciava con la B… - comunque il barista, era stato molto gentile ad ospitarmi per la notte. Per quanto ne sapeva potevo essere un malvivente, non che non ne avessi l’aspetto, oppure avere la sifilide, o la febbre gialla o chissà quale infezione, eppure di aveva accolto, e gli ero davvero grato per questo. Probabilmente se fossi uscito dal bar nello stato in cui ero mi avrebbero veramente investito, o magari derubato, anche se, a dirla tutta, la cosa più preziosa che possedevo erano le mie Converse bucate e la mia chitarra che nessuno avrebbe mai toccato. Non se ero ancora vivo ed in grado di mordere.

A proposito di chitarra…

Il corpo accanto a me si mosse lentamente, accompagnato da un verso soddisfatto di stiracchiamento, mentre guardava la sveglia ed imprecava.

« Oh, merda. » disse, e si alzò in piedi di colpo, levandomi la coperta di dosso ed incespicando al buio fino ad arrivare all’interruttore per accendere la luce. Il lampo luminoso mi ferì gli occhi come fuoco, e lui non appena si accorse di me si lasciò sfuggire un verso quasi sorpreso.

« Oh, ciao. Scusami l’irruenza, ma sono in ritardo. » aggiunse a mo’ di spiegazione, aprendo l’armadio e frugandoci dentro alla ricerca di vestiti.

Cercai di mettermi seduto, ma la testa pesava come un macigno e feci un verso lamentoso. Cercai di tenere gli occhi aperti e mi voltai verso la
sveglia: erano le sei e mezza del mattino quindi, se mi era andata bene, avevo dormito forse tre o quattro ore.

« Sono le sei e mezza, porca miseria, nemmeno dormendo a Central Park mi sveglio così presto. » bofonchiai, mentre lui si girava e mi
squadrava. Ora che potevo vederlo bene aveva qualcosa, nell’aspetto, che faceva pensare agli angeli. I suoi capelli erano morbidi e castani,
scompigliati ma in maniera quasi ordinata, non come i miei che se ci avessi ficcato in mezzo una forchetta, probabilmente mi ci sarebbero volute
sei ere geologiche per estrarla. La pelle era decisamente più chiara della mia, un po’ come quella di Biancaneve, ma di sicuro non per via del
bisogno di fiaba, di sicuro non in un mondo consumista come quello in cui vivevamo. L’attenzione non poteva trattenersi dallo schizzare agli
occhi, che erano chiari, limpidi, di un colore che non riuscivo a definire, da quella distanza ed in quello stato, se fossero verdi, grigi o azzurri.

Mi squadravano curiosi e svegli, con un sopracciglio alzato in segno di scetticismo.

« Probabilmente perché tu non devi andare ad insegnare canto in una clinica per bambini, al contrario di me. » rispose, e continuò la sua ricerca
estraendo un maglione grigio fumo con scollo a V dall’armadio con aria vittoriosa.

« No, immagino di no. » sospirai, e cercai di far passare il mal di testa con qualche respiro ma, com’era ovvio per tutte le mie brillanti idee, non
funzionò. Chiusi e riaprii gli occhi e vidi il giovane che si infilava dei pantaloni saltellando su un piede solo e cercando di non cadere. Mi
concentrai sull’idea di non arrossire come uno sfigato e mi voltai verso la finestra con le tende serrate.

« Dai, alzati, dobbiamo andare. » disse, portandosi le mani tra i capelli e mettendoli miracolosamente in ordine con un paio di movimenti di polso
e della lacca a nuvola spruzzata sulla testa.

« Dobbiamo? » domandai confuso. Non sapevo chi era, non sapevo come si chiamava, non sapevo bene dov’ero ed ora dovevo seguirlo? Io
avevo pensato di ringraziare per l’ospitalità e darmela a gambe prima di diventare dipendente dal mio spasmodico bisogno di affetto che Sean –
o forse John o qualcosa con la B… Burt!

Eccolo là, sapevo che mi sarebbe venuto in mente.

« Sì, dobbiamo. Ieri sera papà mi ha detto di volerti parlare ed ora è sicuramente fuori a passeggiare, quindi dovremo tornare dopo. Mi chiedo
se quell’uomo sia un vampiro, a volte, non dorme mai. » commentò, dandosi una lunga occhiata di approvazione allo specchio e voltandosi.

Dalla sua carnagione chiara non avrei bocciato subito l’idea che fosse figlio di un vampiro, ma i vampiri procreavano solo in Twilight, quindi
scossi la testa per scacciare l’assurdo pensiero.

« Non posso andare per i fatti miei e tornare questa sera a ringraziarlo? » chiesi, anche se in realtà, dopo un breve riassaggio della vita
mondana, non avevo voglia di lasciarla andare di nuovo per del tutto.

« Non direi. Ieri eri ubriaco fradicio e non mi fido di te, quindi ti terrò d’occhio per mio padre. » disse, e poi mi squadrò con aria critica. « Vieni
vestito così, tu? »

Mi misi finalmente a sedere, ignorando il conato che ne provenne, e mi guardai: il giaccone stropicciato ed i vestiti sempre uguali. Per non parlare dell’odore di smog che emanavo.

Il ragazzo roteò gli occhi ed aprì la porta, indicandomi di seguirlo. Mi guardai i piedi e notai che nessuno mi aveva tolto le scarpe, quindi ci avevo
dormito e chissà che macello avevo creato sotto le lenzuola. La voce del giovane riecheggiò per l’appartamento.

« Adesso ti do qualcosa per il mal di testa e la nausea, poi scendiamo al bar a fare colazione. » gridò, e chiusi gli occhi per come l’urlo rimbombò
nella mia testa.

Che cavolo, pensai, arrivo.

Mi tirai in piedi e mi scossi per liberarmi dall’intorpidimento generale del miei nervi, cercando di camminare nonostante ogni passo mi
rimbalzasse dolorosamente nel cranio.

« Tizio ubriaco con un nido in testa? Ti muovi? » strillò, e quasi mi venne un infarto.

« Arrivo, cavolo, arrivo! Un secondo! Devo prima ricordarmi come si mette un piede davanti all’altro! » risposi acido, mentre la bile mi risaliva
amara in gola.

Quando arrivai in quella che doveva essere la cucina, il ragazzo mi porse un bicchiere di quella che sembrava acqua calda.

« Acqua e limone. Vedrai che passa tutto, trucchi da figlio di un barista. » mi sorrise lievemente e mi guardò mentre lo bevevo con aria diffidente. Il mio stomaco accolse la bevanda con un applauso di borbottii ed un sonoro tonfo.


Poco da stupirsi, visto che avevo la pancia vuota.
« Direi che è ora di fare colazione. » suggerì, e prese il cappotto e le chiavi prima di aprire la porta d’ingresso e precipitarsi giù per le scale come
una furia con me al seguito.

« Non so nemmeno come ti chiami! » gridai, mentre correvo dietro di lui, cercando di tenere il passo nonostante la spossatezza.

Come poteva essere così attivo a quell’ora?

Lui si voltò con un’espressione divertita.

« Sono Kurt! » mi gridò di rimando, e si voltò per aprire la porta che dava sul bar del padre e che ci avrebbe permesso di arrivare fuori.

« Blaine! » risposi, guardando quella bettola come se la vedessi per la prima volta.
Poi scorsi la custodia della mia chitarra per terra e mi
precipitai a prenderla ed a issarmela sulla spalla come sempre. Ora sì che mi sentivo completo.

« Cos’è un’esclamazione? » rispose divertito mentre girava le chiavi dentro la serratura della porta d’ingresso del locale. « Comunque lasciala
qui quella, la prenderai quando torni. »

Scossi la testa e strinsi la custodia più strettamente a me.

« Cosa? No, è il mio nome. » squittii sorpreso. « E questa si chiama Ellie e non ho intenzione di lasciarla qui. È il mio portafortuna, non ho problemi a portarmela dietro. » aggiunsi.

Lui fece spallucce ed aprì la porta, invitandomi a seguirlo.

 
 
***

 
 
« Non ho un soldo per pagarmi la colazione al bar. Davvero, starò buono, buono seduto fuori e ti aspetterò. » proposi, con le mani nelle tasche del giubbotto e la testa incassata tra le spalle. L’aria mattutina mi si insinuava dentro le maniche e nel colletto, facendomi rabbrividire.

Kurt mi lanciò un’occhiata ovvia mentre camminava spedito verso Dio solo sa quale bar.

« Non se ne parla, te la pago io, posso permettermi di comprarti un caffè. Meglio spendere qualche dollaro piuttosto che doverti accompagnare
in ospedale dopo che sarai svenuto per la fame. Quanto tempo è che non fai un pasto decente? » chiese.

Ridacchiai e mi feci serio di colpo, scuotendo la testa.

« Oh, bè, sono abbastanza sicuro di fare quasi un pasto al giorno. » risposi, accelerando il passo per stargli accanto.

« Quasi? Ma come diamine ti guadagni da vivere? » sbottò, guardandomi con un’espressione mista tra sconcerto e curiosità.

Indicai la custodia alle mie spalle con un cenno della testa.

« Suono agli angoli delle strade. » spiegai.

« Cioè fai le elemosina. »

Lo guardai torvo.

« Oh, no io… io… faccio arte. » borbottai in risposta, e lui scoppiò a ridere.

« Certo. »

« Almeno faccio qualcosa che mi piace. » puntualizzai, e alzai il mento con aria offesa.

Rideva di me, della mia vita, mentre lui era al sicuro nella sua casa, nel suo letto, con un padre che lo amava ed un lavoro fisso.

Era facile ridere di un povero sfigato sognatore senza una cavolo di casa come me.

« Anche a me piace quello che faccio. » rispose, e nel suo sguardo non vi era nulla di offensivo o di provocatorio, era solo una constatazione.

« Beato te, allora. » risposi monosillabico.

« Beati noi. » precisò.

Feci un verso accondiscendente.

« Quindi come sei arrivato ad essere un senza tetto? » domandò, curioso come era sempre stato fino ad adesso. Non ero sicuro di volerglielo dire, anche se in realtà la sera prima lo avevo praticamente raccontato a un intero bar, quindi che differenza faceva?

« Che fai, cerchi di fare conversazione? »

Lui sorrise e guardò l’orologio.

« Mettiamola così, in realtà non sei obbligato a rispondere, ma non vedo cosa ci sia di male. »

Sorrisi inconsciamente, guardandomi i piedi e domandandomi da quanto era che non avevo un vero e proprio dialogo con un essere umano.

Bè, se non contavamo lo sproloquio fatto da ubriaco con il padre di Kurt.

« I miei genitori mi ripudiarono dopo che feci coming-out con loro. Non mi aspettavo che sarebbero stati così categorici, mi avevano sempre
viziato e fatto un sacco di regali, ma immagino che, a pensarci ora, non avrei dovuto confondere quei regali con l’affetto. Non avevano tempo per me, non ne avevano mai avuto, nemmeno per mio fratello. Probabilmente lui, semplicemente, decise di seguire le loro orme e non fece l’errore di essere gay. Che posso dire, andarmene è stata una liberazione. » spiegai, mentre lui mi ascoltava in silenzio, elucubrando tutto ciò che dicevo, come se lo stesse registrando. « Scioccato? Pensavi che fossi un disoccupato alcolista che picchia la moglie la sera quando torna a casa? Mi dispiace deluderti. » scherzai, anche se forse aveva davvero pensato questo di me.

Ora che ci pensavo Burt la sera doveva avergli raccontato a grandi linee la mia situazione, prima di scaraventarmi nel letto con Kurt, ricordavo avessero parlato qualche secondo.

« Non scioccato, disgustato. » puntualizzò, accelerando il passo come se si fosse infervorato.

« Oh. » risposi, sorpreso. Non avevo pensato che avrebbe potuto infastidirlo. Tendevo a dimenticare, così come avevo fatto con i miei, che
l’omosessualità poteva essere un qualcosa di disgustoso agli occhi di alcuni, nonostante il progresso e nonostante si stesse facendo luce
sull’argomento. Strinsi le labbra in una linea sottile, improvvisamente avevo poca voglia di camminargli accanto. Ero pacifico di natura, ma il disprezzo per pregiudizio mi ricordava troppo la reazione dell’uomo e della donna che mi avevano cresciuto. Sicuramente non faceva piacere, anche se dicevo di averlo superato.

« Non intendevo disgusto verso di te, ovviamente, perché sarebbe alquanto ipocrita. » precisò Kurt in seguito, accorgendosi del silenzio
imbarazzante di cui eravamo diventati vittima, e fece schizzare le sopracciglia verso l’alto con aria ovvia.

Quell’espressione era una costante nel suo viso e, se potevo dirlo io che lo conoscevo sì e no da un’ora, voleva dire che era davvero forte in lui.

« Ipocrita? » domandai scettico, davvero non comprendendo dove volesse andare a parare.

Lui annuì, divertito.

« Sono gay anche io, sarebbe molto stupido se mi disgustassi, non credi? » disse, e dopo avermi guardato tornò a fissare l’enorme strada davanti a noi.

In quel momento furono le mie sopracciglia quelle a schizzare verso l’attaccatura dei capelli, perché dovevo ammettere che davvero non me lo
aspettavo.

« Oh. » ripetei, a corto di parole.

« Che c’è, mister “oh”? Pensavi di essere l’unico gay al mondo? » domandò divertito, tirandosi su meglio la tracolla che portava in spalla.

« Ovvio che non lo pensavo. » risposi stizzito. Mi aveva già dato un soprannome, davvero simpatico. « Non me lo aspettavo e basta. »

Kurt rise, in maniera semplice e liberatoria. Una maniera che fece, infine, sorridere anche me.

« Non stare sulla difensiva, non attacco nessuno, e comunque siamo arrivati. Dì al tuo stomaco che riceverà del cibo a breve. »

In tutta risposta l’organo al centro del mio petto borbottò lamentoso, e Kurt sorrise, senza guardarmi.

« Sia chiaro che non sono una banca, comunque. Ti offrirò la colazione a patto che non ordini un camion di muffin, o una betoniera di caffè. » mi
ammonì.

Feci finta di pensarci su.

« Vedrò cosa posso fare. »

Kurt fece un verso scettico.

« In caso ti metterai a ballare e cantare qua davanti, suonando la chitarra per pagarti la colazione. » propose, e guardò di nuovo l’orologio.

Giusto, eravamo in ritardo.

« Non devo preoccuparmi che mi farai ordinare e poi non pagherai nulla lasciandomi nella merda, vero? »

Lui sorrise.

« Non ci avevo pensato, ma grazie per l’idea. »

Divenni improvvisamente diffidente.

Lui alzò gli occhi al cielo.

« Cavolo, scherzavo, ho detto che ti avrei offerto la colazione ed ovviamente lo farò. » disse esasperato, spingendomi dentro il bar a forza.

« Va bene, va bene, scusa se sospetto di un ragazzo che ho appena conosciuto e che mi porta a fare colazione  in un bar con aria sospetta come se dovesse incontrarsi con un mafioso e gli servisse un testimone. » sbottai, imitandolo mentre controllava continuamente l’orologio.

Lui sbuffò.

« Andiamo, mister “sono proprio simpatico”, prima che mi penta della mia proposta di pagarti la colazione. »

« Oh, quindi qui qualcuno si sta pentendo. » puntualizzai, incrociando le braccia con aria divertita.

« Taci e ordina. » rispose, guardando il bancone.

Decisamente.

Avere rapporti umani mi era decisamente mancato.















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Spazio Autrice:
Aggiornamento veloce per grande turbine di idee.
Prossimo aggiornamente sara Nobody Said It Was Easy.

Grazie per ogni supporto, siete speciali, davvero.
Grazie.
Noth
   
 
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