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Autore: _joy    19/04/2012    2 recensioni
E – diciamocelo – cosa sarà mai una mail importante nell’ordine delle priorità dell’universo?
Ordine che ha fatto sì che oggi Ben Barnes – BEN BARNES – sia seduto a pochi metri da me?
Gin/Ben
[Serie "Forever" - Capitolo I]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forever'
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È matto. Non c’è altra spiegazione.
Cammino nervosa per strada, cercando di ripararmi sotto i cornicioni delle case dalla pioggia battente.
Tremo e impreco dentro di me.
Ma come è possibile?
Mi scarica senza troppi complimenti e poi, cosa fa? Mi segue per strada? Mi abbraccia?
Ma quando mai! Ma non esiste al mondo!
Ma allora…perché?
Cosa vuole? Cosa succede?
Non so dove andare, ma non riesco a smettere di camminare. Mi sento un leone in gabbia.
Attraverso di corsa la piazza, con la testa abbassata contro la pioggia.
Potrebbe essere una buona idea iniziare a riflettere su dove passare la notte. Questo paesetto è minuscolo e ci sono solo un paio di B&B: lo so, perché ero io a occuparmi della sistemazione dei giornalisti.
Escludiamo subito quello dove ho dormito finora, perché quando ce ne siamo andate la signora ha detto che aveva già promesso la stanza a una coppia di tedeschi che volevano fermarsi una notte in più. Provo l’altro, ma senza nessun risultato: sono al completo.
Impreco mentalmente contro quei crucchi affamati di vacanza (poverelli) mentre cammino come un’anima in pena. Sono tornata in pineta. Vedo un invitante angolino riparato dagli alberi che sembra vagamente più asciutto.
Ma non è pericoloso ripararsi sotto gli alberi durante i temporali?
Esito. Lo so che non dovrei. Ma sto letteralmente grondando e potrei riposarmi solo un nanosecondo…
Mi avvicino al tronco e poggio le spalle. Che freddo, se non mi prende un colpo oggi…
Allora, Gin, pensa. Che si fa adesso?
Mi lascio scivolare a terra: tanto sono fradicia, cosa sarà una macchia d’erba sulla mia mise?
Cerco di legarmi i capelli con mani tremanti quando sento all’improvviso una voce:
«Sei diventata matta?»
Faccio un salto di tre metri per la paura. È Ben.
E sembra furioso. D’istinto mi irrigidisco, ma non mi alzo. Oddio, quanto sono stanca.
«Con un temporale del genere tu vai a sederti sotto un albero? Ma sei matta davvero!»
Io volto la testa da un’altra parte e non gli rispondo. Sapere che ha ragione non mi rende i suoi rimproveri più graditi.
Sento improvvisamente una mano afferrarmi il braccio e strattonarmi.
«Alzati!»
Mi fa voltare di lato e, per ritrovare l’equilibrio, allungo l’altra mano per terra e la immergo nel fango. Bleah. Ben mi sta ancora tirando.
«Lasciami! Insomma, cosa vuoi?»
Faccio per tirarmi indietro i capelli con la mano sporca e mi fermo appena in tempo.
«Voglio che ti alzi e vieni via di qui. E che smetti di comportarti come una pazza furiosa.»
Io? Una pazza furiosa? E lui allora?
«Senti chi parla! Ma tu non eri quello che non è assolutamente il mio ragazzo e a cui non interesso abbastanza? Allora vattene!»
«Non ho mai detto che non mi interessi!»
«No, è vero: l’hai dimostrato, il che è peggio»
«Senti Gin» Ben esita «possiamo parlarne, ma adesso…»
Possiamo parlarne?
«Ma come ti permetti di trattarmi con condiscendenza? Hai fatto tutto tu, fino a prova contraria.»
«Va bene, è colpa mia. Dai, alzati»
Giuro, ora lo prendo a schiaffi.
Mi muovo goffamente per alzarmi (ho sempre un braccio in mano a Ben e sono in ginocchio nel fango) perché non voglio che mi torreggi sopra. È comunque più alto di me, ma fa niente.
Strattono il braccio che mi tiene, ma lui non si allontana.
Molto bene.
Gli marcio contro, fino ad arrivargli a un centimetro. Lo guardo negli occhi e scandisco:
«Tu-mi-devi-stare-molto-molto-lontano»
«Guarda che parli con un inglese, non con un analfabeta»
Oh, divertente.
«Tu, invece, non parli con una scema. Io non ho bisogno di una balia che viene a cercarmi.»
«Anche Francesca e Tommaso sono venuti a cercarti. Solo che tutti e due pensavano che non potevi essere così stupida da venire in pineta con il temporale, per cui sono andati in un’altra direzione»
«Stai dicendo che sono una stupida?»
«Sto dicendo che ti sforzi molto di sembrarlo»
Sono senza fiato. Ma come…osa?
E non cede di una virgola. Non ha fatto nemmeno un passo indietro. Non lo ammetterò mai,  nemmeno  con me stessa, ma questo me lo fa piacere ancora di più. Maledetto.
«Ben» riprovo «Soffri di amnesia?»
«Cosa vuol dire?»
Ah, pure. Nemmeno la lingua mi dà una mano.
«Che non ti ricordi le cose!»
Ma tu dimmi se devo insultarlo e poi spiegargli le parole che uso!
«Hai presente: tu, io, stamattina e oggi pomeriggio? O ti faccio un disegno?»
«Gin, ascolta. Ma dobbiamo parlarne adesso, sotto la pioggia?»
«Sì!» grido «Dobbiamo parlarne finché non capisco cosa ti è preso! Perché ti sei comportato come uno stronzo! E se tu sei una persona che non dà peso alle cose che dice, io invece lo faccio! Quindi se vuoi giocare, fallo con qualche stupida ragazzetta disposta a starci solo perché sei famoso, ma non permetterti mai più di pensare che io sia così! A me non me ne frega niente se sei Ben Barnes!»
Ben si acciglia.
«Non penserai che io mi approfitto delle donne perché sono famoso?»
«Certo che lo penso. Guarda come hai trattato me!»
E mentre lo dico, sento la vergogna che mi fa avvampare le guance. Odio mettermi dalla parte di quella debole e piagnona che elemosina spiegazioni. C’è qualcosa da spiegare dopo quanto è successo? No.
Come mi direbbe Sara: La verità è che non gli piaci abbastanza.
Lo so. Me ne vergogno. Ma non posso farci niente.
Ben mi prende per le spalle e mi scuote con forza. Per un attimo, mi fa quasi paura da quanto è arrabbiato.
«Non è così! Io non lo farei mai! Non capisci Gin? Non capisci che è il contrario?»
Abbassa le mani e la sua espressione, di colpo, diventa triste e vulnerabile.
«Non lo sai quant’è difficile… la gente che si interessa a te perché sei famoso. Le ragazze che prima ti ignoravano poi, all’improvviso, ti stanno tutte attorno perché sei un attore. Non so mai se posso fidarmi. O di chi. Uno sbaglio e finisci sui giornali. Sai quanto è difficile avere una vita privata? Te ne rendi conto?»
«No. E ti dirò la verità: non me ne frega niente. Io non sono così. Ma per chi mi prendi? Per una che starebbe con te per poi correre dai giornalisti a spifferare tutto?»
«Tu ci lavori, con i giornalisti» mi dice, ancora triste.
Cosa? Cosa? Ma per chi mi prende?
Boccheggio.
«Ma…ma…ma che cosa stai dicendo? Ma non penserai davvero una cosa del genere? Io?»
Sono talmente scioccata da quest’idea assurda che mi zittisco un attimo per raccogliere le idee.
«Non starò a farti un discorso di serietà professionale. Parliamoci chiaro: io i giornalisti li conosco. Se volessi, potrei inventare storie su di te. Ho il tuo numero in rubrica. Ma io detesto la stampa di gossip. La odio. Non mi ci avvicinerei nemmeno morta. Proprio perché la conosco. Non ci hai pensato?»
«Non…lo so» esita «Non ci avevo nemmeno pensato finché Colin non ha sollevato il problema…»
«Ah» dico, ferita «così è questo che sono? Un problema?»
«No, no Gin. Davvero. Io…io non lo so. Un po’ sì.»
Ma chi cavolo si crede di essere Colin Firth per insinuare una cosa del genere su di me? Sono incazzata nera.
«Di bene in meglio, allora.»
«Non per i giornalisti. Io…e te. Non era, ecco…previsto»
E no, eh. No, no, no e poi ancora no.
«Ah, perché tu prevedi chi incontrerai nella vita? Come fai? Ce l’hai scritto nell’agenda degli impegni, tra un’intervista e un servizio fotografico? Chi te la scrive, l’agenda? Sibilla Cooman?»
Aggrotta le sopracciglia e io non posso trattenermi dall’aggiungere:
«Harry Potter…»
«Lo so, la prof di divinazione»
Lo sa? Voglio sposarlo!
No, no! Gin, stai concentrata!
«Luca ha visto il film l’altroieri. Non prendermi in giro.»
«Non ti prendo in giro. Secondo te ho voglia di ridere?»
«No. Io… senti, mi dispiace. Sono stato…maleducato. Lo so. Non volevo. Se possiamo… cioè, se vuoi…»
«Se voglio…cosa?»
Esita.
«Ben! Cosa?»
«Io… Gin, senti, ma se ne parliamo dopo?»
Dopo?
«No. Ne parliamo ora.»
Voglio disperatamente, disperatamente credere che questa situazione si possa sistemare. Magari si è spaventato per questa cosa della stampa. Ma a questo punto? Bè, se fosse a me della stampa non frega niente: il mio lavoro mi ha fatto sviluppare un’allergia per i giornalisti impiccioni. Lo capirà. Glielo farò capire io. E poi…e poi cosa succederà?
«Non so. Devo pensarci…»
Deve pensarci. Come dire: una secchiata d’acqua. Io sto qui a fantasticare di storie che si recuperano e lui mi tira un’altra mazzata. Me lo merito, si vede che prima non ha colpito abbastanza forte, se io ancora sono qui a sperarci.
Lo aggiro e comincio a camminare per allontanarmi. Mi segue subito.
«Dai, non fare così.»
Ma così come? Mi mordo il labbro per non sbottare e coprirlo di insulti.
«Gin, aspetta.»
Accelero. Ma quando lui mi afferra il braccio scivolo. Incespichiamo entrambi e finiamo lunghi distesi nel fango.
 
Ho steso Ben Barnes. Letteralmente.
 
Voglio sprofondare. Qui, nella melma, va benissimo.
Ben si alza con una smorfia. Poi, incredibilmente, mi guarda e si mette a ridere.
Quanto farò schifo, mi chiedo, per farlo ridere così?
Eppure…non so, vederlo ridere mi fa provare una strana sensazione di calore. È così….non so. Non so cosa mi prende, ma io lo voglio. Ho bisogno di lui. Mi sento come se nient’altro valesse la pena di…
Povera me, come sono ridotta. Melmosa e scema.
Mi alzo in silenzio e Ben mi prende la mano.
«Tutto bene?»
«A meraviglia» rispondo, secca.
Sorride ancora. E mi passa una mano sulla guancia per togliermi un po’ di fango. Mi ritraggo imbarazzata.
«Sei un disastro»
«Immagino che tu pensi di essere bello e pulito»
«Mmmm…ok. Siamo due disastri»
Tu non troppo, a dire la verità.
«Sei molto arrabbiata?»
«Sì» replico subito, decisa.
Lui ci pensa un attimo.
«Ti fermi da noi stanotte?»
«No»
«Testona. Fermati, e parliamo»
«No. Se hai qualcosa da dirmi, dilla adesso»
«Ma perché non possiamo aspettare e parlarne con calma?»
«Perché se hai qualcosa da dire, puoi farlo in qualsiasi momento e in qualsiasi posto. Anche se piove. E se non hai niente da dire, è inutile che perdiamo tempo.»
«È bianco o nero con te, per forza?»
«Sì» gli dico semplicemente «O tutto o niente. Ma scegli adesso.»
Gli sto dando un ultimatum. Io! Sono fiera di me: ho una paura assurda di quello che sceglierà, ma sono fiera di me.
«Non posso scegliere adesso, non così. Non si può scegliere senza riflettere»
Ah.
Bè, immagino che sia il rischio della scommessa: tu ti lanci e sai che puoi vincere. O puoi perdere.
Come me ora.
Forse – dico forse – una parte di me ci sperava.
Ritraggo dolcemente la mano dalla sua.
«Invece, secondo me, ci sono cose su cui non occorre riflettere. Ci sono cose che sai e basta. E se non sai la risposta…bè, è solo un modo di dire che la sai, ma non vuoi darla»
Mi guarda confuso. Io sospiro.
«Comprare una casa non si decide su due piedi. Lasciare il tuo lavoro. Tranne me oggi, a quanto pare, ma lasciamo perdere. Immagino che quando scegli se accettare una parte in film tu ci rifletta su»
Annuisce, e io proseguo.
«Ma se io ti piaccio, devi saperlo. O è sì, o è no. E se devi pensarci su, vuol dire che è no. Non è una cosa che ora è “forse”, tra due ore è “no” e stasera è di nuovo “sì”»
I miei occhi si inumidiscono, ma lotto per mantenere la voce ferma.
«Se lo chiedi a me… se mi chiedi se tu mi piaci, io la risposta la so. Non ci devo pensare. Se tu devi farlo, vuol dire che io ti piaccio abbastanza per stare con me due ore, come stamattina… ma per poi scaricarmi come hai fatto oggi pomeriggio»
«No, non è vero. Io non l’ho fatto perché non mi piaci. L’ho fatto…»
«Invece sì, Ben» lo interrompo «Perché se io ti piacessi davvero, non ti sarebbe nemmeno venuto in mente di farlo. Per nessuna ragione, giornalisti o meno. Come ti sentiresti tu se, dopo stamattina, all’improvviso io ti dicessi: “oh guarda, scusa, ci ho pensato su negli ultimi cinque minuti e ho deciso che non voglio un ragazzo famoso che gira per il mondo, ma uno che vive nella mia stessa città”?»
Lui tace, ma io lo incalzo.
«Dai, sii sincero. Se avessi fatto così, cosa avresti pensato?»
«Non…so. Credo che…sì, avrei pensato che volevi scaricarmi. Ma è diverso.»
«È diverso se sei tu a scaricare me? Perché? Perché sei famoso e la tua motivazione vale più della mia? Perché sei famoso e quindi non vieni scaricato dalle donne?»
«No!» sbotta «Perché tu…insomma, non penso che…»
«Vedi che non ci hai nemmeno pensato? Non ti poni nemmeno il problema, perché sei sicuro che non ti avrei mai scaricato io»
Gli leggo in faccia che ho ragione. E il mio orgoglio si infiamma.
«Bè, mi dispiace deluderti. Sì, vero, non l’avrei fatto. E mi sento molto stupida a dirlo, per quel che vale. Ma io non sono una con cui puoi sperare di avere un flirt e cavartela così. Soprattutto senza mettere le cose in chiaro. Io non ci sto per una volta e via. E se sei Ben Barnes, io me ne frego. Direi la stessa cosa a chiunque. Se ne valesse la pena, lo direi a chiunque. Tutto o niente, con me»
Lui apre la bocca per parlare, ma sembra indeciso su cosa dire. Ci fissiamo in silenzio per un attimo lungo una vita. E poi sentiamo delle voci.
Arrivano Francesca, Tommaso e Livia.
Francesca mi abbraccia, Livia sembra preoccupata. Io mi sento svuotata. Come se avessi terminato ogni residuo di energia. Una piccola parte di me sa che è bene aver messo le cose in chiaro e detto quello che volevo dirgli da subito. La restante parte di me si sente come se fosse stata schiacciata da un tir.
Quando finisce questa giornata? Chiedetemelo ora, se vorrei premere “Rewind”. Manco morta.
Torniamo in paese. Ormai mi rassegno a lasciare dei solchi per terra in questo posto.
Al bar, mi fiondo in bagno. Due secondi dopo, arriva Ben. Siamo conciati da far pena. Io, che stavo sussurrando a Francesca cosa ci siamo detti, mi zittisco e cerco di assumere un’aria innocente, tipo “Oh-non-mi-hai-affatto-appena-rovinato-la-vita”. Mi lavo le mani e cerco di sistemarmi i capelli.
Va bene, è una battaglia persa.
Non so da dove cominciare. Volto la testa…e mi prende un colpo.
Ben si è sfilato la maglietta per mettersi la felpa che Tommaso gli sta porgendo.
Muoio.
Non va bene. Non va affatto bene.
«Devo farmi una doccia» dice, alzando la zip mentre, contemporaneamente, arriccia il naso.
«In effetti, fate paura tutti e due. Vi siete rotolati per terra?»
Lo sapevo. Ecco che ricominciano. Infatti, Tommaso mi guarda e dice:
«Immagino tu non stia riconsiderando l’idea di venire da noi»
«Infatti»
«Nemmeno per una doccia? Sei conciata da far spavento»
Questo è un colpo basso, decisamente.
E muoio anche di freddo. Ho i vestiti fradici, i capelli zuppi e sono completamente infangata.
Cazzo.
Tommaso mi legge in faccia che sono prossima alla resa e, cavallerescamente, non me lo fa notare.
Va bene, andiamo in questa maledetta casa.
 
Ora che sono qui, ammetto che un bagno in vasca ha i suoi pregi.
Mi lavo anche i capelli e poi frugo nel borsone alla ricerca di qualcosa da mettermi, ma ho solo cose leggere. Tommaso e Ben si offrono di prestarmi una felpa e io prendo quella di Tommaso. Ben non dice niente, ma mi lancia un’occhiata poco convinta. Devo anche rimboccarmi le maniche due volte.
Mi alletterebbe molto l’idea di andare a dormire e svegliarmi tra un mese, ma appena scendo in salotto Luca mi salta in braccio e dice che vuole andare al concerto. Anche io non avrei chiesto niente di meglio, solo qualche ora fa. Matteo coinvolge Tommaso e Francesca in una partita con i videogiochi. Io mi siedo sul divano con Luca e Ben, che sta leggendo, dopo un po’ ci si avvicina. Io evito il suo sguardo. Luca sta giocando con i miei capelli e il braccialetto che ha al polso si impiglia nei miei ricci. Lui tira e io faccio una smorfia, finché Ben non gli prende il braccino e gli dice che ci pensa lui.
Scivola sul divano vicino a me e mi libera. Poi lascia una mano tra i miei capelli, finché io non allontano la testa. Luca scende dalle mie ginocchia per andare a giocare con Matteo.
«Cosa leggi?» gli chiedo, perché il silenzio tra noi è davvero pesante, considerando soprattutto il baccano che fanno gli altri quattro, davanti al televisore.
«Il testo per Vampire Academy» mi risponde.
Lo fa apposta. Lo sa che ora voglio vederlo.
Infatti me lo mostra e io lo divoro e poi ci mettiamo a parlare. Arriva anche Livia e, quando Tommaso ci dice che sono le otto, a me sembra impossibile. Di già? Ma com’è possibile che quando sto con lui il tempo vola e io mi sento così bene?
Decidiamo di tornare in paese per cena, perché Luca non la smette più di cantare l’Ombelico del mondo. Mangiamo mentre i musicisti fanno il sound-check e poi aspettiamo il concerto. Si esibiscono quattro cantanti e Jovanotti è l’ultimo. Io lo adoro, ma stasera inspiegabilmente nemmeno la musica riesce a coinvolgermi. Mi sento come se avessi spento un interruttore e ora ci fosse tutto buio, dentro e attorno a me.
Fingo di divertirmi mentre Francesca e Tommaso ballano con i bambini e Livia e Colin (cui ho detto sì e no due parole da dopo il discorso con Ben in pineta, e grazie mille) parlano con Ben del film.
Ma non riesco proprio rilassarmi. Ho un peso sul cuore.
E quando arriva Jovanotti, paradossalmente sto peggio. Canta Tutto l’amore che ho, e Francesca grida a Tommaso che siamo state insieme al concerto a Milano. Entrambe lo adoriamo. Tommaso l’ha visto a Firenze.
Ben ovviamente non sa di chi parliamo e non sembra troppo convinto. Luca gli saltella attorno cantando (sa una parola su dieci, è troppo dolce) e Ben ride e lo prende in braccio. Tommaso glielo mette sulle spalle e poi solleva Matteo. Luca mi tende la manina e io gliela stringo. A Il più grande spettacolo dopo il Big Ben, Luca si agita talmente tanto che Ben fa una smorfia e lo fa scendere a terra, ma lo tiene per mano.
E poi, è la volta di A te.
Già questa canzone di suo mi fa venire i brividi ogni volta che la ascolto, ma oggi… oggi è semplicemente troppo.
A te che sei l’unica al mondo 
L’unica ragione per arrivare fino in fondo 
Ad ogni mio respiro 


Oddio.
Forza Gin, stringi i denti. Luca mi tira la mano e si mette a cantare anche lui. Gli faccio un sorriso, ma temo sia abbastanza stentato.
A te che sei,
semplicemente sei,
sostanza dei giorni miei,
sostanza dei sogni miei
 
E… incredibile! Tommaso si china verso Francesca e, dopo un attimo, si baciano appassionatamente. Io mi precipito a prendere Matteo, perché Tommaso gli ha lasciato la mano. Lo porto da noi e il piccolo ride e indica suo zio e Francesca. Ben alza un sopracciglio e sorride ai bambini.
Io, invece, cerco di trattenere le lacrime.
A te che sei il mio grande amore 
Ed il mio amore grande 
A te che hai preso la mia vita 
E ne hai fatto molto di più 
A te che hai dato senso al tempo 
Senza misurarlo 
A te che sei il mio amore grande 
Ed il mio grande amore 



E poi diventa semplicemente troppo. Mi viene da piangere, per cui metto di forza la manina di Matteo in quella di Ben e mi allontano quasi di corsa, approfittando del fatto che ci sono i bambini e non può seguirmi.
 
Vago per le stradine e svolto in un paio di vicoli. Quando vedo una panchina, mi ci lascio cadere sopra.
Mi asciugo gli occhi e sospiro. E poi sento una mano sulla spalla. Chiudo gli occhi e dico:
«Per tua informazione, questa canzone mi fa sempre piangere, Ben. Potresti…»
Poi mi volto e mi zittisco. Non è Ben. È Arnaldo. Allontano di scatto la sua mano e mi alzo in piedi.
 «Ciao» dico, circospetta. Che palle. Ma proprio adesso dovevo incontrarlo?
«E così quello ti lascia a piangere qui tutta sola?» farfuglia lui.
Che cavolo? Ma è ubriaco?
Oddio, il capo ubriaco. Mi scappa quasi da ridere.
«Allora, dov’è Dorian?»
«Si chiama Ben» gli dico.
«Ah. Ben. Sì. Come bene. Voi due state bene insieme…o no?»
Mi guarda perplesso. Mi manca solo di dover dare delle spiegazioni a lui e sono a posto. Faccio un gesto vago con il capo che potrebbe significare qualunque cosa.
«Che peccato. Gli attori sono gente strana, Ginevra. Egoisti. Egocentrici. È difficile viverci assieme»
Quasi mi viene da dargli ragione. Poi, all’improvviso, lui si avvicina.
«Mentre tu…sei…così…»
Eh?
«…bella»
Cosa? Bella?
Arnaldo allunga una mano verso la zip della mia felpa. Io mi ritraggo di scatto e mi guardo attorno.
Deserto.
Ecco. Sono la solita cogliona. Da una vita mi sento ripetere che non si deve andare nelle strade deserte e solitarie da sole e con il buio e io che faccio? Finisco in una strada deserta e solitaria, di notte, da sola. Anzi, con il mio ex capo sbronzo. E non so se è un miglioramento. Ma temo di no. Infatti le sue parole me lo confermano.
«Tu mi hai lasciato, ma…»
«Ma cosa stai dicendo? Io mi sono licenziata!»
«È lo stesso» scuote la testa e barcolla un po’ «Vedi uno giovane e con i soldi e puf! Te ne vai»
«Puf un corno! Io mi sono licenziata perché tu sei uno stronzo!»
«No, è perché tu sei una facile. E lui è giovane, ricco e famoso»
«Io non sono per niente una facile e lui…è lui. Non c’entrano niente i soldi o la fama. È lui e basta»
Non faccio in tempo a finire di parlare che Arnaldo mi prende per un braccio. Io mi divincolo, ma lui è molto più forte di me. Fa per accarezzarmi una guancia ma io mi ritraggo. Mi afferra i capelli. Io grido.
Cerco di allontanarmi ma lui stringe la presa e, nel muovermi, si strappa una manica della felpa.
Non riesco a pensare lucidamente, non so cosa fare. Una parte del mio cervello rifiuta semplicemente l’idea: insomma, è il mio ex capo. Quel coglione senza cervello.
L’altra parte è meno ottimista.
Arnaldo mi spinge di forza sulla panchina e, al contatto improvviso con il metallo, io strillo per il dolore. Lui mi si avvicina mentre continuo a divincolarmi, ma sembro una bambina nelle mani di un adulto, per quello che riesco a fare.
Poi, all’improvviso, la presa su di me si allenta. Alzo la testa e vedo Tommaso che quasi lo alza di peso e lo sbatte a terra.
Ho una mezza idea di alzarmi per impedirgli di ammazzarlo di botte, visto che sembra averne tutta l’aria, ma un’ombra copre la mia visuale.
Ben.
Ha un’aria stravolta mentre si china su di me e mi prende tra le braccia. E appena mi stringe, il mio corpo si rilassa e inizio a tremare.
Oddio. Ho davvero, davvero rischiato che…?
Lui mi stringe, mi accarezza i capelli e io scoppio a piangere. E piango mentre mi culla e mi bisbiglia parole in inglese che non capisco assolutamente. Piango mentre lui mi ripete di stare tranquilla, che c’è lui con me e che non mi lascerà e non riesco a smettere.
Sfogo la rabbia, la paura e il senso di solitudine che mi è rimasto addosso da questa giornata assurda.
E quando finalmente smetto di singhiozzare, Ben è ancora lì che mi abbraccia. Mi bacia la fronte e mi scosta piano per guardarmi preoccupato. Poi mi abbraccia ancora e mi accarezza la schiena.
Sono svuotata. Appoggio la testa sulla sua spalla e mi abbandono alla sensazione meravigliosa di essere tra le sue braccia.
Potrei restare per sempre così e far finta che non esista nient’altro.
Ben mi volta e mi solleva le gambe sulle sue. Poi mi abbraccia di nuovo.
Sento le sue mani sulla schiena e sui capelli, le sue labbra sulle guance mentre mi bacia piano. Poi mi asciuga una lacrima.
Alzo gli occhi e vedo che è preoccupato. Davvero. Per me. Ed è incazzato nero, si vede da come serra la mascella. Distrattamente, gli faccio una carezza sul viso, perché non mi piace vederlo così teso. Voglio che mi sorrida. Lui mi prende la mano, mi guarda negli occhi.
E poi mi bacia. All’improvviso. Un bacio vero, come quello che mi ha dato stamattina.
E io non mi faccio domande, ma lo stringo a me.
Ci baciamo e io mi dimentico persino quanto è appena successo, tanto che, quando alla fine ci separiamo per respirare, guardo oltre la sua spalla e vedo Arnaldo fissarmi a occhi sgranati, con Tommaso e Colin che lo tengono fermo.
Ah. Giusto.
Ehm.
Ben si volta per vedere cosa sto guardando e si incupisce subito. Si alza e poi mi guarda preoccupato, ma mi alzo anche io e metto la mano nella sua. Lui la stringe subito. Ci avviciniamo e io, incredibilmente, mi sento serena, tranquilla e protetta.
Guardo quel verme del mio ex capo e non provo niente, se non disgusto.
«Stai bene, Gin?» mi chiede Tommaso, teso.
Annuisco. Guardo Colin, che è impassibile. Sta trattenendo a forza un uomo, ma ha l’aria di uno che guarda il panorama. Cioè, di un inglese composto e impenetrabile che guarda il panorama.  Ora, se si azzarda a dire qualcosa sul fatto che potrei vendere lo scoop alla stampa, lo prendo a pedate.
«Bene» mi dice «Direi che non è il caso di chiamare la polizia. Consideriamolo… un incidente»
Figuriamoci se non lo diceva. Niente scandali.
«No, invece» dice subito Ben «Non esiste. L’ha aggredita»
«Non essere impulsivo» lo riprende Colin.
Ma Ben, testardo, mi passa un braccio attorno alla vita e mi stringe a sé.
«No, Colin. Invece la chiamiamo, la polizia. Poteva…poteva…» mi guarda e serra le labbra.
«Ben, è tutto ok. Davvero. Sto bene. Probabilmente non avrebbe…voglio dire, non credo che…»
«Sono d’accordo con Ben» afferma Tommaso. «Mi dispiace, Colin, ma ha ragione. L’ha aggredita. Se non fossimo arrivati noi poteva succederle qualsiasi cosa. E tu, testona: si può sapere dove vai da sola di notte?»
«Eh, io…ehm…volevo fare due passi» dico precipitosamente.
Tommaso sbuffa e Colin inarca un sopracciglio, ma Ben mi stringe più forte. E io, ostentatamente, mi appoggio a lui. Poi fisso Arnaldo.
«Potrei denunciarti, coglione: lo sai vero?»
Ma lui ghigna e guarda Ben.
«Sai, Ginevra, ho sempre amato di te questo tuo spirito indomabile. Anche quando lavori sei così. Immagino che quando il nostro grande attore ti porta a letto, tu lo sia anche di più»
Non faccio in tempo a trattenere Ben.
In un attimo gli è addosso e gli tira un pugno, e poi un altro.
Tommaso si precipita a prenderlo, ma deve sollevarlo quasi di peso.
«Lasciami subito!» ansima Ben.
Ma io decido in un attimo. Non voglio metterlo in mezzo a una storia così squallida.
Mi faccio avanti e poso la mano sul braccio di Ben, che ancora si dibatte per liberarsi dalla presa di Tommaso.
«Ben, calmati. Dai.»
Lui è ancora teso, ma mi guarda e vedo che accenna a rilassarsi. Tommaso aspetta di vederlo fermo e poi lo lascia. Io gli prendo la mano e lo guardo, poi gli passo un braccio attorno alla vita. Ha ancora le labbra serrate e sembra che faccia fatica a controllarsi, ma per il momento almeno sta fermo. Ok. Guardo di nuovo Arnaldo.
«Questa è l’ultima volta che ti vedo» scandisco «Non voglio incrociarti mai più. Sei un poveraccio e non vali la fatica di passare la nottata al comando della polizia. Ma se solo ti azzardi a far trapelare mezza parola su stasera e su Ben, ti avviso che me la paghi»
Lui ha la solita aria di sufficienza che ho sempre detestato, ma si spegne anche quella quando preciso:
«I miei genitori sono avvocati. Tutti e due, e lo sai. Io ci metto davvero un secondo a rovinarti la vita. Prima ti denuncio, poi ti sbatto su tutti i giornali raccontando che sei un porco, oltre che un idiota incompetente. E lo sai che ho i contatti per farlo.»
Ci guardiamo un secondo poi lui, furioso, annuisce. Colin lo lascia e gli dà una spinta.
«Vattene»
E lui se ne va, imprecandoci contro.
«Però» dice Tommaso «Ben, credo sia la prima volta che ti vedo fare a pugni. Che cavaliere» mi strizza l’occhio.
Ma Ben è ancora teso e rigido come un manico di scopa. Colin prende Tommaso per il braccio e mi dice:
«Noi ci avviamo. Vi aspettiamo al bar. Non tardate troppo, fa freddo»
Io annuisco.
Poi, appena siamo soli, mi volto ad abbracciare Ben. Non dico niente, lo stringo solo. E quando sento che lui fa ancora fatica a rasserenarsi gli sussurro che sto bene, che non voglio vederlo così.
Mi abbraccia forte e nasconde il viso nell’incavo del mio collo. Stavolta sono io ad accarezzargli i capelli.
«È tutto a posto, davvero»
«Se penso che potevi…»
«Shhh…tranquillo. Sto bene»
«Se andavamo alla polizia…»
«Non pensavo fossi un tipo sanguinario» gli dico, scherzando. E quando vedo che non risponde e non mi guarda, gli accarezzo piano la nuca e gli sussurro:
«Però magari potresti…»
«Cosa?»
Gli bacio il collo e lui freme.
«Potresti darmi un bacio, magari»
Finalmente sorride. E posa le labbra sulle mie.
Come bacia, ragazzi. Solo che quando fa scorrere le mani sulla mia schiena io sobbalzo.
«Ahi!»
«Cos’è successo?»
Mi guardo il fianco. Mi sta già uscendo un livido, dove ho sbattuto sulla panchina, prima. Ben stringe gli occhi.
«Niente, è un livido»
«Non direi niente. Io…»
Lo zittisco baciandolo di nuovo. Chi se ne frega di uno stupido livido, al momento ho in testa cose più importanti.
Ci baciamo ancora e ancora e ancora. Non sento nemmeno più il freddo.
Ben è delicatissimo, come se avesse paura di farmi male. Mi accarezza, più che stringermi. Ogni tanto si ferma un momento per guardarmi, come per assicurarsi che io stia veramente bene.
Io, per parte mia, non ci capisco letteralmente più niente. Sono famelica. Sarei capace di strappargli i vestiti qui, adesso, per strada.
Quando si ferma ancora, mugugno qualcosa e me lo tiro più vicino. Lui ride sulle mie labbra.
«Ehi, piano»
«Ma non sono le donne che lo dicono, di solito?» ansimo io.
«Credo di sì. Sicura che stai bene?»
«Ben, se me lo chiedi ancora, te lo do io un pugno. Ok?»
Lui ride ancora e poi mi bacia di nuovo. Ora sì che ragioniamo. Quando ci stacchiamo, mi appoggio a lui. Ho il vago sentore che dovremmo tornare dagli altri, ma non voglio. Non voglio lasciar passare questo momento: e se si allontana di nuovo da me, cosa faccio?
Alla fine, Tommaso e Francesca ci vengono a cercare.
«Ma insomma!» strilla lei «Vi pare modo? Sono morta di paura! E voi non tornavate! Gin, stai bene? Tommaso dice che Arnaldo, quello stronzo…»
Sorrido. Direi che la sua cotta assurda per Arnaldo rimarrà il nostro piccolo segreto.
«Sto bene, Fra»
«Ma se glielo chiedi due volte, ti prende a pugni» scherza Ben.
«Veramente, il pugile qui sei tu» ribatte Tommaso.
«A proposito di coppie…» gli dice subito Ben.
Ah! È vero!!!!!
«Ah!!!!!» strillo io «Mi ero dimenticata!!!»
E abbraccio Francesca, che borbotta un “ma come ti eri dimenticata?” seppellita nella mia felpa. Ma mi abbraccia.
E torniamo al bar, tutti e quattro. Due coppie. Livia e Colin hanno portato a casa i bambini, ma noi ci fermiamo a bere qualcosa. Tommaso ride del mio bicchiere di succo di frutta, mentre Ben mi abbraccia da dietro e mi bacia piano il collo. Francesca si scola tre tequila una dietro l’altra, perché dice che deve riprendersi dalle emozioni del giorno e, alla fine, Tommaso deve portarla alla macchina praticamente di peso.
Io rido, ma ho paura. Mi sembra di essere tornata a questa mattina e temo di avere un altro brusco risveglio.
Quando arriviamo a casa, Tommaso mi dice:
«Non è che domani mattina vuoi prendere un treno alle 6, vero?»
«No, lei resta» risponde Ben per me. E poi aggiunge: «Accompagna Francesca di sopra. A Gin penso io»
Il che è tutto un programma. Decisamente.
Saliamo le scale insieme e Ben entra in camera sua per prendermi una t-shirt. Io resto ferma sulla porta. Lui si avvicina con la maglietta, me la porge ma poi ci ripensa. Mi prende per mano, mi fa entrare e chiude la porta.
Si siede sul letto e mi fa cenno di avvicinarmi. Poi sorride e mi dice:
«Non ti mangio. Cioè, almeno ci provo»
Mi sa che sembro impanicata. Insomma, Gin, calma.
Vado a sedermi accanto a lui e lui mi prende la mano e mi dice:
«Voglio scusarmi con te. Ho pensato molto a quello che mi hai detto e a come mi sono comportato e tu hai ragione»
Mi dà un bacio leggero sulle labbra e aggiunge:
«Chiedimi se tu mi piaci»
Oddio.
«Dimmelo tu. Sei in debito.»
Sorride.
«Tu mi piaci»
Meno male.
«Mi sono comportato male, perché per me è una cosa nuova. Dicevo davvero, quando ho detto che ero felice di aver trovato te. Sono felice. Però ho avuto paura, perché affezionarmi a qualcuno, con la vita che faccio, significa che molto probabilmente soffrirò io e farò soffrire anche te»
«Non mi importa» dico di getto.
«A me sì. Non voglio farti del male. E ho paura anche io di soffrire»
«Ben Barnes» gli dico «Se pensi di scaricarmi un’altra volta…»
Mi bacia. E quando si allontana da me mi dice:
«Zitta, tocca a me.»
Ok. Io non fiato.
«Quello dei giornalisti era un problema. Colin sa cosa significa cercare di proteggere se stessi e la propria famiglia dalla stampa che ti sta sempre addosso e ha cercato di darmi un consiglio. Ma io di te mi fido.»
Mi accarezza il dorso della mano con il pollice e si fa pensieroso.
«Avevi ragione anche quando mi hai detto che mi sono spaventato, oggi, a sentire che tutti ci consideravano una coppia. Ma dopo stasera, io… Io non so cosa avrei fatto se ti fosse successo….qualcosa di brutto. Quindi, tu mi piaci. Molto.»
Bene. Un modo un po’ estremo di realizzarlo, ma se è servito...
«Solo che non so dove ci porterà questa cosa. Non so quanto viaggerò per lavoro e dove. Tu qui hai la tua famiglia, gli amici. Devi trovare la tua strada. E per me il mio lavoro è importante. Ma passo mesi all’estero, chissà dove. E non solo per le riprese. Ci sono i tour promozionali, c’è la mia famiglia, a casa. I miei amici. Dimmi la verità: tutto questo non ti spaventa?»
«Un po’ sì» ammetto «Perché è tutto così…enorme. Però ne vale la pena, per me»
«Secondo me non te ne rendi davvero conto…e ho paura che, quando vedrai com’è la mia vita, non ti starà bene»
«Io voglio stare con te. E se tu sei tutto questo, va bene. Ce la farò»
«Lo dici adesso Gin, ma poi…»
«Ma lo dirò anche poi. Quindi, basta»
«Ma se…»
Stavolta lo bacio io. Dopo un po’ mi stacco e gli sussurro:
«Zitto»
Lui sorride e mi abbraccia e a me non sembra vero. Lo sento. È convinto. L’ho convinto. Oddio.
«Quindi» dice.
«Quindi» dico.
«Quindi, che si fa?»
«Bè, per esempio, potresti accompagnarmi a Milano»
Sorride.
«Pensavo che Milano fosse una città grigia e senza cielo»
«Un po’ sì. Ma siccome io non ti ho ancora perdonato, non ti conviene fare troppo il difficile»
Mi sorride in modo così dolce che io mi sciolgo.
«Devo farmi perdonare, quindi?»
«C’è bisogno che lo chiedi?» rispondo, angelica.
Ride.
«Va bene, capito. Sarà dura.»
«E non sai quanto!»
Poi mi spinge sul letto e mi bacia e tutte le preoccupazioni mi sfuggono di mente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

   
 
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