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Autore: PaganGod    20/04/2012    1 recensioni
“Vi sono pomeriggi, in estate, durante i quali il tempo sembra più lento, vischioso.
In quei momenti, per brevissimi istanti, è possibile intuire quel che c’è oltre la Soglia.
Comprendere come tutto sia parte di Tutto.
Poi l’attimo passa e rimane solo una Verità: non vi sono esseri più infidi delle Fate...”
Questo racconto è il primo di una serie dedicata a colui che protegge il
nostro mondo dalla distruzione. Un uomo che nessuno nota ma che
fa si che la realtà non si sfaldi sotto il suo stesso peso.
Ogni custode ricorda ciò che i suoi predecessori ricordano,
ogni racconto è un ricordo differente, e nel corso dei secoli
il Custode imparerà una grande verità...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo del Custode'
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La Nascita

 

Una brezza fredda e lamentosa, come il recitare i nomi degli angeli, mi carezzava il volto e mi scompigliava i capelli. Mi asciugai il sudore che imperlava la mia fronte e tornai a spingere puntando i piedi e inarcando il busto. Il pesante sarcofago di pietra consunta e grigia non accennava a spostarsi né a barcollare. Era incrostato da chissà quanti millenni di muschi, edere velenose e radici friabili.

 

Sentivo lo sguardo beffardo delle Fate aleggiare alle mie spalle come stiletti nella mia schiena. Non avrei ceduto. Non avrebbero vinto!

 

Rocce di ogni forma e dimensione ondeggiavano nel cielo buio e privo di stelle. Una pioggia finissima e obliqua rendeva il terreno scivoloso e l’erba sembrava avvinghiare con dita sottili le mie caviglie. Sbuffai e imprecai. Nessun uomo, mi dissi, o spirito o dio può fermarmi in questo momento! Un suono, come di flauto, stridulo e dissonante si accese nel nero orizzonte che mi circondava. Era insistente, pressante, costante. Non mi permise di concentrarmi nello sforzo…

 

Aprii gli occhi nella semi oscurità di un pomeriggio piovoso.

Gocce minute battevano leggere sulle imposte socchiuse del mio studiolo. In giornate come quella comprendevo quanto l’immane accozzaglia di libri, talismani, ciondoli e strumenti vari rendesse la mia casa piuttosto inquietante. Il ronzio di sottofondo, al quale ero assuefatto da molto tempo, mi indicò la presenza del mio personal.

Da due giorni ormai computava senza sosta i complessi calcoli per determinare la data e il luogo dell’ Incontro. In molti sogni avevo ricevuto indicazioni precise ma non lasciai nulla al caso. Lo schermo era prevalentemente nero e mostrava solo alcune cifre scritte in un bianco lattiginoso. Controllai le coordinate. Mancavano ancora una decina di giorni all’incontro e avevo tutto il tempo di prepararmi.

Spensi il computer con la bonomia con cui si da un giorno di riposo al proprio fedele maggiordomo. Scesi al primo piano, attraversai la minuscola cucina e mi diressi nella stanza del Cerchio.

Un paio di ore di meditazione, mi consigliai ad alta voce, mi avrebbero di certo fatto bene. Notai, non senza una certa impressione, che iniziavo a parlare da solo. La cosa non mi stupiva in sé. Mi stupiva la consapevolezza della solitudine che il mio compito imponeva, secoli di solitudine.

 

Mi chiesi se anche i miei predecessori avessero avuto la stessa sensazione.

 

Mi apparve avvolta in una nebbia bassa e strana. Da principio avvertii solo un vago disegno ripetuto come pietre di pavimentazione decorate o come un immenso mosaico.

Man mano che i miei occhi si abituavano alla penombra potevo osservare le case dai muri di mattoni rossi che coronavano una piazza. Al centro svettava una fontana maestosa composta da figure geometriche inquietanti e candide come il ghiaccio battuto dal sole. L’acqua scrosciava limpida ricadendo e disperdendosi in una miriade di rivoli scintillanti nei meandri delle assurde intersezioni.

 

Dove avevo già visto quella scena? Nei miei sogni? Nelle mie vite precedenti? Nel momento in cui la fusione sarebbe stata completa avrei saputo ancora distinguere i ricordi? Decisi di immergermi dove nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di seguirmi e mi sedetti nel Cerchio.

 

Nei giorni seguenti mi limitai a meditare, a digiunare e a preparare le valigie per il viaggio. Partenza, viaggio, arrivo, tutto si svolse come direttamente assistito dagli dei. Arrivai nel luogo indicatomi senza intoppi e decisi di compiere un breve sopralluogo.

La piazza era esattamente come la ricordavo. Ma la ricordavo?

La gente mi circondava. Li percepivo come figure non stabili, non reali. Asincrone. Si muovevano lentamente, stancamente. Si trascinavano al limite di un limbo. Forse il mio stesso io fluttuava tra la realtà solida e la variabilità dell’eternità.

Mi sedetti sul bordo della fontana. Alcuni spruzzi di acqua gelida colpirono il mio volto. Lo scroscio dell’acqua era ad un tempo unico e molteplice, formato da numerose armoniche. Una ragazza dal maglione rosso mi sorrise, ricambiai.

Ormai era il momento.

 

Un buio innaturale pervase l’intero mio campo visivo. Strutture che sfidavano l’immaginazione fuoriuscirono dal terreno contorcendosi come megaliti viventi. Su ognuna di esse riconoscevo milioni di simboli incisi, scolpiti e dipinti. Era un tempio antico come il tempo stesso, significativo per me e tutti i miei predecessori, ma immaginario e irraggiungibile per chiunque altro.

D’innanzi a me si addensavano nebbie con adunche protuberanze ed escrescenze. Erano i guardiani di quel luogo senza tempo.

Non li temevo.

 

Una voce triplice e risonante si fece udire da ogni dove.

“Sei pronto?” chiese.

“Lo sono.” risposi con convinzione.

 

Mi apparve la loro immagine dolce e evanescente. Lunghissimi capelli nero corvino ondeggiavano nell’aria e vesti indefinite si dissolvevano nella nebbia così come i loro volti. Erano splendide e affettuose così come dovrebbero essere le Fate dei sogni ma le loro espressioni, così avvenenti, mi apparivano maligne e tenebrose. In quelli che ormai erano i miei ricordi conoscevo le loro azioni, i loro pensieri, i loro scopi e una parte di me si ribellava e voleva gridare in faccia alle Fate la mia rabbia. Ma non potevo.

 

Un accordo antico come l’universo legava i miei predecessori al loro volere e me con essi. Posi a malincuore un ginocchio a terra e attesi l’investitura.

Séol si avvicinò con passo leggero spandendo nell’aria petali di fiori profumati. Parlò dolcemente, e con essa le altre due, in un unico coro.

“Siamo Séol, la Vita. Ti abbiamo scelto fin dal principio per proteggere gli esseri che vivono nel tempo. Sei pronto a questo?”.

“Lo sono.”

 

Il peso di quella domanda mi colpì allo stomaco ma non avevo varcato le Soglie Proibite per spaventarmi così facilmente. Séol si ritrasse intanto che sua sorella Pìan si fece avanti. Spine di rovi si stendevano sotto i suoi piedi graziosi costellandoli di punture vermiglie.

 

“Noi siamo Pìan, la Morte. Sei pronto a stendere il velo grigio del nulla su chi ostacola il nostro cammino?”

“Lo sono!”

 

Un brivido corse lungo la schiena facendomi esitare. Pìan si ritirò umilmente mentre, con le mani giunte in grembo e con un passo tanto leggero da non manifestarsi, avanzò Anàm. Mi guardò a lungo con gli occhi neri e lucenti.

 

“Noi siamo Anàm, lo Spirito del Mondo. Leggiamo nei tuoi occhi il lampo dell’odio. Il nostro agire ha un fine superiore e giusto. Sei pronto a perseguirlo senza domande?”

 

Mi guardò con un sorriso bonario e carico di gentilezza. Lo odiavo. Da millenni ormai le Fate ricattavano la mia stirpe per agire nel mondo del Tempo e l’odio di centinaia e centinaia di Custodi, viventi nella mia mente, non poteva essere a loro celato.

Mi limitai a rispondere secondo il rito.

”Lo sono!”

 

Il mio Io era stato educato nel corso degli anni per assolvere a quel compito. Ogni mia esperienza, ogni avvenimento della mia vita era stato modellato allo scopo di generare un Custode. Un prescelto delle Fate. Per quanto volessi ribellarmi e distruggere tutto quel reame statico, sapevo di non poter far altro nella vita… e oltre.

Le Fate avanzarono. Anàm, al centro, toccava gli oggetti che Séol a sinistra e Pìan a destra reggevano con le dita sottili e aggraziate. Tra le mani di Séol vi era una maschera di metallo, così lucida da riflettere più e più volte le mani e le vesti della Fata come un magma policromo.

Solo due tasselli triangolari, all’altezza degli occhi, interrompevano la superba perfezione di quell’oggetto. Pìan reggeva due stiletti d’argento dalle lame sottilissime, lunghe, perfette. Mi porsero gli oggetti con solennità mentre Anàm infondeva in essi, e in me, il potere dei Reami senza Tempo.

Ormai il rito era compiuto e con esso il mio destino. Mi congedarono recitando un salmo più antico dell’uomo e del mondo.
Le Fate sparirono in un soffio, il tempio si ritrasse in un silenzio completo.

 

Durò un attimo. Un battito di ciglia.

 

La ragazza dal maglione rosso mi guardò con perplessità. Non so valutare quali espressioni percorsero il mio viso durante il colloquio. So, per certo, che un sorriso obliquo sfigurò la mia abituale impassibilità.

I miei occhi lampeggiarono di millenaria follia mentre il viso delle Fate si dissolveva nel volto meno grazioso, ma più umano, della mia interlocutrice.

Sorrise di nuovo e parlò muovendo appena le labbra, era vagamente divertita : “Stai bene? “

Aveva in mano alcuni libri e fascicoli.

“Sono solo un po’ stanco. Grazie.” risposi.

Mi sentivo ancora stordito dall’esperienza appena vissuta e avevo un aspetto febbricitante.

“Scusami ma devo andare.” le dissi alzandomi.

Osservò il mio incedere mentre mi allontanavo verso l’arco a sesto acuto che fungeva da uscita verso i vicoli del centro storico. Non la vidi, la percepii. Il potere degli Antichi fluiva nel mio corpo. Ero ebbro.

 

Tornai alle mie occupazioni quotidiane, monotone forse ma rassicuranti. Ora potevo vedere ben al di là del visibile e anche la stanza, che da sempre era il mio rifugio, diventava piena di effluvi, presenze, passaggi e altro di cui non voglio narrare.

Un senso di malinconia mi pervase. Coscientemente avevo accettato quel ruolo eppure, come il suicida guarda il vuoto sotto di sé, ero anche cosciente che non avrei mai più potuto essere un uomo qualunque e ignorare i mondi oltre le Soglie.

 

Nei giorni a seguire mi abituai alla mia nuova condizione, alle visioni e agli incubi. Eppure quando giunse la chiamata, mi colse impreparato. Ero impegnato nel calcolo di un portale che mi sembrava piuttosto debole quando udii il campanello suonare.

Scesi con calma e aprii la porta.

Il sole del tardo pomeriggio mi accecò per un attimo e fui costretto a stringere gli occhi. C’erano due donne e un uomo vestiti piuttosto elegantemente. Non feci in tempo a pronunciare le solite frasi per allontanare i questuanti quando un brivido mi scosse completamente.

 

La realtà intorno a me era mutata, rallentando, deformandosi. Parlarono in sincrono con voci che non appartenevano ai loro corpi. Gli occhi erano spenti e fissavano il vuoto, dondolavano lentamente. “Abbiamo visto e abbiamo sentito. Candele sono state accese, voci stanno cantando. I loro riti noi non approviamo.

Vai e ferma il loro salmodiare. Va e compi il tuo dovere Custode. Noi abbiamo parlato.”

 

Con l’eco di quelle parole nelle orecchie chiusi la porta sgarbatamente. Udii gli epiteti che mi vennero scagliati dagli inconsapevoli emissari ma non ci badai.

 

Un abisso senza fine si estendeva in verticale irregolarmente sotto i miei piedi. In esso figure indistinguibili si contorcevano e grugnivano. Invocavano in mille lingue mostrando i loro arti scarni e deformi. Osservavo la scena colmo di disgusto e vertigine. Un senso di colpevolezza invase il mio animo. Io avevo causato tutto quel dolore. Io ero il fautore di tanta disperazione. Provavo il desiderio di affogare tutte le mie colpe, in quel mare di anime torturate.

Quali colpe mi chiesi? C’è forse colpa nell’eseguire ciò che la propria natura impone? Si sente colpevole il lupo che azzanna il coniglio? Si sente colpevole la gazzella per non aver corso abbastanza?

 

Mi destai pieno di interrogativi.

La sveglia sul comodino mostrava, con segni sanguigni, la tarda ora della notte. Era il momento di agire. Ero la spada fiammeggiante della punizione, ero lo schiaffo del padre, ero il chirurgo che recideva l’arto malato. Entrai nella sala del Cerchio. Sul pavimento della stanza perfettamente cubica era posta una struttura circolare di rame e bronzo. Era così complessa da descrivere l’intero universo eppure semplice per chi sapeva leggerne la simbologia. Rappresentava il Cosmo e le sue Soglie, lo Spazio e il Tempo.

Rappresentava ogni punto di questo mondo e ogni suo momento. Mi posizionai al centro della struttura come ero solito fare quando dovevo immergermi nella meditazione. Non esitai. Inspirai profondamente tanto da sentirmi leggero.

Bagliori come di fiamma, come spiriti inquieti, eruttarono da ogni simbolo del Cerchio man mano che avvicinavo la mano destra, aperta, a coprirmi il volto. Fu un istante interminabile. Non so se sarò capace di descrivere le sensazioni intensissime che provai. Era come vivere tutto il tempo in un unico momento, come un vortice.

Quando tolsi la mano il mio volto era coperto dalla maschera di metallo del Custode. Sentivo una strana forza, una strana determinazione che mi era normalmente estranea. Sentivo il rumore del mio respiro incupito dallo schermo metallico e percepivo il mio essere reso più minaccioso, più inquietante.

 

Tracciai con le mani i Segni, come a scrivere nell’aria i miei desideri.

 

In un istante mi trovai nascosto dalle ombre proiettate da una balconata che correva tutto intorno ad un enorme capannone abbandonato. Dai finestroni opachi, posti molti metri sopra di me, proveniva una luce diafana. Echi ritmici rimbombavano da una parete all’altra del magazzino. Dal lato opposto potevo vedere chiaramente, alla luce di molte candele, figure aggraziate danzare in circolo con movimenti a tratti sinuosi a tratti rigidi come burattini.

Una voce, rauca e polverosa, prese il sopravvento sulle altre e chiamò una lunga serie di nomi di angeli e di demoni invocandone i favori e la protezione. Percepivo la presenza degli spiriti intorno al cerchio mentre l’entità invocata non era ancora presente. Una miriade di fluidi erano ansiosi di insinuarsi in uno spiraglio per passare nella nostra realtà.

Forse erano defunti inquieti, forse elementali. Non aveva importanza. Non avrebbero dovuto entrare, questo era il volere delle Tre.

 

Quando mossi il primo passo fuori dalle ombre ebbi l’impressione di aver compiuto quel gesto milioni di volte. Il mio corpo si muoveva quasi automaticamente con la pratica di secoli e secoli. Mi notarono solo quando fui a pochi metri da loro.

Le giovani danzatrici seminude fuggirono in varie direzioni cercando riparo, piangendo, gridando in preda al panico. Evidentemente mi avevano riconosciuto.

Chi non conosce l’ira del Custode? Chi tra gli stregoni non cerca da sempre riparo dai miei occhi? I tre celebranti bardati riccamente di paramenti dorati rimasero impietriti. I due uomini ai lati della sacerdotessa accennarono qualche pallido sortilegio e qualche scongiuro poi, disarmati, tentarono di darsi alla fuga ma si arrestarono ansimanti al mio comando.

Non sapevano forse che sono invincibile?

 

L’anziana strega mi fissava piena di sgomento e rabbia, per lei ero un demone intruso, l’ostacolo da superare per compiere qualsiasi prodigio. Non poteva sapere che, dietro la maschera del Custode, dietro l’entità verso la quale si lanciavano scongiuri e si tracciavano circoli, si celava in realtà un semplice uomo. Tesi le braccia verso l’esterno con le palme aperte. Nelle mani si materializzarono gli stiletti richiamati dalle mie parole. Li affondai simmetricamente nello sterno dei due celebranti ai lati. Le lame affondarono senza nessuna difficoltà portando una morte silenziosa e istantanea, giusta. Mentre compivo quella triste operazione fissavo negli occhi la sacerdotessa. Aveva i capelli bianchi e il volto percorso da minute rughe. Vedendo la mia determinazione mi sfidò con fierezza.

In altre occasioni avrei ammirato la sua forza e la sua brama di conoscenza. Estrassi gli stiletti. Produssero un suono cristallino come diapason celestiale. Puntai le lame verso la gola della celebrante. Vidi il mio volto, coperto e policromo, riflettersi nelle sue pupille umide di rabbia. Affondai le lame nelle tenere carni della donna. Spirò in un gorgoglio sommesso. Chiusi gli occhi per qualche istante. Portai i pugnali, in verticale, di fronte a me e pronunciai la frase prescritta nella lingua antica.

Un vento evocato dal nulla spense le candele e mi indicò che le Fate avevano approvato il mio gesto e si stavano appropriando degli spiriti colpevoli dei celebranti. Le danzatrici erano fuggite approfittando delle ombre e delle casse sparse per il magazzino, non c’era bisogno di eliminare anche loro. Le porte metalliche del capannone sbattevano ritmicamente in balia del vento.

Il mio compito era finito.

 

Camminai lentamente nella penombra, chiamai una Soglia e la attraversai. Ora che la furia di giustizia si era spenta avevo la morte nel cuore. Non avrei mai potuto tornare indietro. Ora non più.

 

Nel buio degli eoni che ora è la mia dimora, osservo vivide le immagini del mio passato.

 

Quella fu la prima volta.

 

Nel Destino c’è sempre una nota ironica, una connotazione faceta. Non ho potuto scegliere quale fosse la via da dare alla mia vita e ora, dopo tanto tempo, vengo giudicato per colpe non volontariamente commesse. Avrei dovuto rifiutare? Essere più forte? Ma come ci si può opporre al Destino?

Fin dalla notte dei tempi io e tutti quelli come me, siamo stati forgiati per un compito specifico da volontà eterne e impietose.

 

La nostra unica colpa è stata di non poter scegliere.

Ora sono stanco di ricordare spegnerò la mente per concedermi un po’ di riposo e immergermi negli incubi che da sempre mi sono compagni ed amici.

 

Ora lasciami andare.

 

Potrai evocarmi in futuro per conoscere altro di me se lo vorrai. L’ardore di conoscere che leggo nei tuoi occhi mi intenerisce e mi spaventa.

Forse dovrei impedirti di addentrarti in certi misteri.

 

Ma chi sono io per oppormi al Destino?

  
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