Ciao, adorati!
Tre giorni e rieccomi qui, come volevasi dimostrare! Pubblico
un’altra storia
oggi, perché nei prossimi tempi sarò decisamente
impegnata, e probabilmente non
potrò pubblicare come negli scorsi giorni … ma
bando alle ciance!
Ritorno allo slash, il mio adorato slash, e al continuo rincorrersi e
scoprirsi
di questi due personaggi meravigliosi che, senza esagerare, hanno
veramente
aggiunto un qualcosa in più alla mia vita.
Sperando di non aver fatto troppo male, al solito, vi auguro buona
lettura!
S.
*
Sherlock aveva in mano la stessa foto da qualche minuto, raffigurante
una donna
dai capelli rossi con una visibile ferita alla testa, riversa sul
pavimento. A
quanto aveva capito, aveva raggiunto i due solo da pochi minuti, la
donna era
stata trovata così nel suo appartamento dopo che la sorella,
preoccupata che
lei non rispondesse ai suoi tentativi di rintracciarla, era arrivata al
suo
appartamento.
“Era tornata da un viaggio” decretò
Sherlock, tenendo gli occhi fissi sulla foto.
John dubitava che si fosse accorto del suo arrivo, ma dopotutto ci era
abituato. “…e in tutta fretta aggiungerei, a
giudicare dallo stato dei vestiti
nella sua borsa. E’ come se avesse ricevuto una qualche
chiamata, o un
messaggio e si fosse precipitata a Londra il più presto
possibile” concluse.
Lestrade guardava Sherlock e poi la foto, rispettivamente, come se
ancora si
stupisse delle sue capacità.
“E dove si trovava?
Qual
era la meta del viaggio?” domandò poi John,
cercando di inserirsi nella conversazione.
Sherlock alzò lo sguardo, fissando il volto di John,
probabilmente accortosi in
quel momento della sua presenza nella stanza.
“Oh, John” lo salutò di sfuggita.
“Bentornato”.
John gli rispose con un
cenno del capo, senza volerlo distogliere dalla sua riflessione.
Sherlock però
non tornò subito ad esaminare le fotografie, con sommo
stupore del medico. Si
soffermò ancora sulla figura del dottore, lasciando vagare
gli occhi dalla sua
testa ai suoi piedi e poi tornando all’altezza del viso,
guardandolo fisso, in
una maniera che metteva John abbastanza a disagio.
“Sherlock? Va tutto bene?” gli domandò
Lestrade, notando il vivo interesse di
Sherlock per John. Il detective scosse la testa e sembrò
quasi risvegliarsi da
una specie di trance ipnotica. Guardò Lestrade, poi le foto,
poi il pavimento e
nuovamente John, come se cercasse di riconnettere in pochi secondi dove
si
trovasse e cosa stesse facendo.
“Oh, io…si…tutto bene.
Dicevamo… il viaggio” si ricompose, ma John
riusciva a
vedere ancora una nota stonata nell’espressione del
coinquilino. Si guardò di
sfuggita allo specchio sopra il camino, cercando di capire cosa avesse
attirato
l’attenzione di Sherlock a quel modo. La zip dei jeans era
sollevata,
ringraziando il Cielo, la cintura era al suo posto e non
c’erano macchie o
difetti di sorta sulla camicia azzurra. Sfiorò i primi tre
bottoni,
opportunamente slacciati, data la giornata assolata, e non
riscontrò alcun
problema. E allora…perché?
“Viaggio,
si” ripetè
nuovamente Sherlock,
lanciando ancora delle occhiate fugaci a John. “Probabilmente
un viaggio in
treno, dato che le dimensioni della valigia e dagli evidenti segni
sulle,
sulle…” deglutì mentre muoveva la testa
in maniera decisamente strana, prima
avanti e poi indietro, come se si stesse auto convincendo di non
rivolgere lo
sguardo da qualche parte, senza successo. Ed ecco che pochi secondi
dopo, i
suoi occhi erano nuovamente rivolti verso il medico.
John tossicchiò, sentendosi in imbarazzo sotto lo sguardo
indecifrabile del
detective. Lo scrutava come se fosse attirato da una forza sconosciuta,
qualcosa che gli impediva di poter distogliergli gli occhi di dosso, e
John
sentì il sangue irrorargli le guance, e
anche qualcos’altro, particolare a cui non voleva
minimamente pensare,
facendolo arrossire più del dovuto. Sherlock era veramente
un mistero, certe
volte.
Lestrade, dal canto suo, sembrava vivacemente interessato alla cosa,
nonostante
non andasse certo a suo favore quell’improvvisa mancanza di
concentrazione da
parte di Sherlock. Sorrideva con espressione furba, come se avesse
capito
qualcosa che agli altri non era dato sapere.
“Sherlock, continua” cercò di dire John,
nel vano tentativo di mettere fine a
quell’attenta osservazione.
Ancora una volta Sherlock sussultò. Boccheggiò,
cercando di riallacciarsi al
discorso, e John cominciò a sentirsi decisamente preoccupato
da quel
comportamento. Non lo aveva mai visto metterci tanto per una semplice
analisi
di prove, di solito bastavano cinque minuti per farti un quadro chiaro,
lampante, di ciò che era
o non era
successo. Quel giorno invece Lestrade era lì da almeno dieci
minuti e dalla
bocca di Sherlock erano usciti solo dettagli di poca importanza.
“Treno. Per i segni
di
consunzione sulle calze, all’altezza delle
caviglie…per…per via dei”
guardò
nuovamente John, ma stavolta per un paio di secondi. “Dei
poggiapiedi. Nei
treni più vecchi non presentano protezione e la superficie
irregolare può
tagliare…il…” nuova occhiata.
“Il nylon dei collant”.
“Oh, molto bene. Controlleremo le partenze e i numeri dei
treni allora, per
restringere il campo, escludendo i mezzi più
moderni” asserì l’Ispettore,
mordendosi un labbro per non ridacchiare. Gli mise tra le mani
un’altra
fotografia, stavolta con il contenuto della borsa della vittima e lo
sguardo di
Sherlock sembrò vagare da un particolare all’altro
senza realmente vederlo. E
non era da lui, no affatto.
“Sherlock, per
piacere,
cosa c’è che non va?” John adesso era
seriamente inquieto. Da quando lo aveva
guardato la prima volta aveva cominciato a comportarsi in quella
maniera
stramba e il problema non sembrava affatto sulla via di una
risoluzione. Anzi,
se possibile, Sherlock sembrava ogni secondo più in
difficoltà.
Il detective guardò il medico ancora una volta, umettandosi
le labbra e
puntando gli occhi dritti dei suoi. Poi si spostò sulla sua
bocca, sul suo
collo, e infine sul petto, leggermente lasciato scoperto dalla camicia
sbottonata. Si soffermò in quello specificò punto
per molto più tempo del
necessario.
“Io…sto...sto bene” balbettò,
e questo riuscì solo ad agitare John ancora di
più. Quando mai il geniale Sherlock Holmes rimaneva
così scosso da non riuscire
quasi a formulare una frase di senso compiuto? Urgeva indagare.
“Non stai bene,
Sherlock. Proprio per niente” disse Lestrade con una
certa energia, con un sorriso ebete sul viso. Era veramente
insopportabile, con
quell’aria saccente e quell’espressione
indicibilmente fastidiosa. Se aveva
capito qualcosa, perché non lo diceva e basta?
“Sherlock?”
disse John ancora,
impossibilitato a bloccare l’avanzare di una strana
sensazione alla bocca dello
stomaco. Si sentiva decisamente strano sotto quello sguardo attento,
indagatore, ma in cui non leggeva solo un’insana voglia di
mettersi in mostra
bensì una sorta di…interesse.
Sherlock gemette quando si sentì chiamare
nuovamente, e mosse le labbra come per parlare ma nessun suono
uscì dalla sua
bocca. John sentì il cuore balzargli nel petto. In un
secondo, qualcosa lo
illuminò sul motivo di tanto interesse, di quella tanto
minuziosa analisi da
parte del detective. Per avvalorare la sua ipotesi alzò
leggermente la mano
verso il suo petto, slacciando un altro bottone con nonchalance,
facendolo
sembrare un gesto disinteressato e dettato solo dalla calura che
invadeva il
salotto. Poi guardò nuovamente Sherlock e lo vide deglutire
con una certa
energia, mentre la mano libera che non reggeva la fotografia stringeva
il
bracciolo della poltrona come se volesse passarci attraverso.
“Oh, Dio, si” la
quieta belva nel
petto di John ruggì ed esultò trionfante a quella
piccola ma terribilmente
piacevole scoperta. Sapere che Sherlock aveva una
vulnerabilità, cosa che John
non avrebbe mai creduto possibile, e sapere che lui stesso era quella
debolezza, o meglio, quei tre miseri e importantissimi bottoncini della
sua
camicia, gli faceva tremare le ginocchia come un ragazzino alla sua
prima
cotta.
E adesso che sapeva, non si sarebbe certo lasciato sfuggire
l’occasione di
tormentare almeno un pochino il povero
Sherlock.
“Ho detto che sto bene. Io… lasciatemi guardare
ancora questa foto” disse, con
tono aggressivo, probabilmente combattendo una battaglia
all’ultimo sangue con
sé stesso. Scuoteva leggermente la testa mentre osservava la
fotografia senza
dire nulla, senza riuscire a concentrarsi abbastanza, senza riuscire a
leggervi
nulla, impossibilitato a distogliere la mente da quei maledetti
bottoni.
Sherlock ne aveva bisogno, in
realtà.
Non era un capriccio, o una stravaganza dettata da un momento di noia.
Sherlock
era rapito da John come non lo era
mai stato, nemmeno per la più intricata delle sue indagini.
“Io credo che… la vittima abbia fatto
visita…ad…ad un…” mosse la
testa, mentre
John ridacchiava tra sé e sé, assumendo una posa
diversa sulla poltrona, in
modo che la visuale per Sherlock non fosse impedita in alcun modo.
“Ho bisogno
di un secondo” sbottò poi il detective, scrollando
le spalle con aria
indispettita, come se non reputasse normale cedere ai suoi istinti per
una
volta. John poteva capirlo: per Sherlock doveva essere frustrante non
riuscire
a ragionare coerentemente.
Lestrade osservava la scena come se seguisse un emozionante film
d’azione alla
tv. Guardò John e fingendo di stropicciarsi gli occhi,
ammiccò, anche se
visibilmente imbarazzato.
Poi un telefono squillò, proprio quello
dell’Ispettore, che si alzò in piedi continuando
la conversazione sul pianerottolo dell’appartamento. Aveva
lasciato il mazzetto
di fotografie sul divano, così John si sporse e lo
sostituì momentaneamente, sedendosi
sul divano proprio accanto alla poltrona di Sherlock, che aveva accolto
il suo
repentino avvicinamento con un’espressione contrita e
sconvolta del viso. John
non sapeva se esserne contento o preoccupato, ma optò per la
prima ipotesi:
sicuramente era rimasto interdetto dalla troppa improvvisa vicinanza,
in un
troppo rapido lasso di tempo.
“Sei distratto da qualcosa, Sherlock?” lo
punzecchiò ancora John, approfittando
dell’ assenza dell’Ispettore. “Sembri
davvero in difficoltà. Vuoi che ti aiuti
a concentrarti?” gli propose e quasi si spaventò
dell’energico e inaspettato
gesto di diniego del coinquilino. Inevitabilmente, questi era tornato a
guardarlo, e adesso, a quella distanza tanto breve, anche il
più innocente e
ingenuo dei bambini si sarebbe accorto di dove gli occhi di Sherlock
erano
dolorosamente fissi. John sorrise e incrociò le gambe,
portando la mano al
petto, fingendo di sfiorare un quarto bottone. Sherlock trattenne
bruscamente
il respiro.
“Dammi un’altra foto, John. Da quella…
precedente non sono riuscito a trarre
nulla” sbottò, sussurrando le parole con voce
roca. John, cercando di non
assumere l’espressione terribilmente compiaciuta che avrebbe
voluto sfoggiare
orgogliosamente, gli porse la terza foto, quella dell’esterno
dell’appartamento. Nel frattempo Lestrade, conclusa la
telefonata, era rimasto
in piedi dietro Sherlock ad osservare con lui la foto.
“E’… hai detto che la scena
è…nei pressi di…Battersea?”
disse, esitante, come
se non ne fosse poi così sicuro, nonostante Lestrade gli
avesse illustrato
approfonditamente il caso nemmeno mezz’ora prima.
“Tottenham, in verità” lo corresse
l’Ispettore, con aria più divertita che
contrariata.
Sherlock emise un verso simile ad una specie di latrato lamentoso.
“Non riesco a concentrarmi, per l’amor del
Cielo!” sbraitò poi, sfogandosi,
quasi accoltellando il bracciolo della poltrona con la forchetta della
colazione. La vestaglia gli cadde su una spalla quando si
alzò violentemente
dalla poltrona, per poi crollarci nuovamente sopra in un gesto
esasperato.
“Forse dovrei tornare in un altro momento. Oggi hai la
mente…altrove. Capita a
tutti” asserì Lestrade.
“Non a me!” sbottò, Sherlock
violentemente. L’Ispettore afferrò la foto dalle
mani di Sherlock prima che la distruggesse e lo guardò in
cagnesco, nonostante
ormai conoscesse perfettamente il suo carattere. John gli porse le
altre e gli
sorrise, complice, mentre l’Ispettore si avviava verso la
porta.
“Buona giornata, Greg” lo salutò John,
lanciando di quando in quando
un’occhiata furtiva verso Sherlock.
“Beh, a presto. Buon proseguimento
di
giornata” si bloccò davanti alla porta e sorrise
tra sé e sé, con una qualche
divertente immagine nella testa, per poi chiudere la porta con un
rumore secco.
Sherlock adesso era sdraiato
sulla poltrona, con le gambe che
sporgevano di quasi tutta la lunghezza dal bracciolo, poggiando appena
sul parquet.
Da lontano sembrava quasi che si fosse addormentato, ma quando John
guardò
meglio, appoggiato alla colonna accanto alla porta
d’ingresso, si accorse di
come in realtà lo stesse palesemente osservando, con gli
occhi chiusi per metà.
E il bersaglio di quell’occhiata furtiva ma quasi tagliente,
era sempre,
esattamente lo stesso.
“Hai dormito poco, Sherlock. Ho sempre detto che la tua
mancanza di sonno ti
avrebbe fatto male, prima o poi” disse John, prendendolo in
giro. Sherlock
sbuffò, senza poter fare a meno di seguirlo con lo sguardo,
come se John fosse
un buffo burattinaio e Sherlock una marionetta alla sua totale
mercé.
“Dormo anche troppo, per i miei gusti” rispose,
tagliente. “Il problema è un
sovraccarico di… dati visivi”
commentò.
John fu sorpreso da quelle parole. Sembrava voler imboccare la strada
giusta, a
quanto sembrava.
“Ah si? E cosa…hai visto
di tanto
interessante da mandare in tilt così il tuo brillante
cervello?” gli domandò,
cercando di modulare la sua voce così da sembrare totalmente
innocente e priva
di secondi scopi. Sherlock sbiancò.
“Ho visto…cose” rispose, conscio
probabilmente del suo inutile arrampicarsi
sugli specchi, ma deciso a nascondersi fino alla fine.
John scoppiò a ridere a quella risposta. Fremeva
d’eccitazione davanti a quello
Sherlock così diverso dal solito, così teso,
così ingenuo, così…umano.
“Oh, cose. Cose alla TV? Cose sul quotidiano?
Cose…nell’appartamento?”
sottolineò quell’ultima parola con particolare
enfasi mentre guardava Sherlock
incollargli nuovamente gli occhi addosso. Con un coraggio che nemmeno
lui
sapeva di avere, sorrise al detective, e si sedette sul bracciolo della
sua
poltrona, come a voler annullare il più possibile le
distanze tra loro, per
mettere il coinquilino alle strette fino all’inevitabile
confessione. E Cielo, era
certo che si sarebbe goduto ogni singola sfumatura di voce, ogni
brillio nei
suoi occhi mentre ammetteva di
essere
ipnotizzato dalla sola vista della sua camicia…
Chiuse gli occhi e si godette per un secondo la scena, prima di tornare
a tormentare
il povero detective. Sherlock non rispose, non subito, prendendosi del
tempo
per pensare, per mordersi la lingua a sangue per la mancanza di voce,
di
pensieri, di parole.
Non si era mai sentito così, mai in vita sua. John aveva
segnato per lui l’inizio
di tante cose, e adesso, al suo lunghissimo e personale bastone delle
esperienze avrebbe aggiunto un’altra fondamentale tacca, a
ricordare la prima
volta in cui Sherlock Holmes era rimasto completamente senza
parole.
“Nell’appartamento. Ma non voglio
parlarne” cercò di chiudere lì, ma John
era
intenzionato a non liquidare l’argomento tanto facilmente.
“E ora va meglio, Sherlock? Che sai dirmi sulle foto che hai
visto?”.
Sherlock sembrò sorpreso della domanda, e storse il naso,
come uno scolaretto
interrogato a sorpresa dalla maestra senza aver aperto libro.
“Le hai viste anche tu, quelle foto” rispose il
detective con un gesto della
mano.
“Si, le ho viste. Voglio sapere cosa ci hai visto tu” domandò.
“Prima di essere distratto.
Sempre che tu abbia visto qualcosa” specificò il
dottore, accomodandosi meglio,
e cercando di sfiorare il più possibile Sherlock senza farlo
sembrare
volontario. Il detective si agitava sulla seduta della poltrona senza
trovare
pace, come se fosse sdraiato sui chiodi. E John si sentiva
straordinariamente onnipotente.
Il detective sembrò volerlo fulminare col solo ausilio degli
occhi.
“Certo che ho visto qualcosa.
Non
dovrei parlarne con te. Potresti andare in giro a raccontarlo a
qualcuno, a…Sarah”
pronunciò il nome con tono
stizzito. “o chissà chi altro”.
John scoppiò a ridere.
“Sherlock, risolviamo casi insieme da mesi e mesi.. A cosa
dobbiamo questa improvvisa
mossa di coscienza?”.
Sherlock sbuffò, cercando in tutti i modi e con tutte le sue
forze di ignorare
le dita di John, che adesso si muovevano di nuovo intorno al terzo
bottone con
preoccupante frequenza. Lo sfiorava, lo rigirava tra le dita con
metodica e
studiata lentezza. Sherlock rivalutò la teoria
dell’autocombustione umana, in
quel momento. Valutò la distanza tra lui e la fonte
d’acqua più vicina, dato
che si sentiva letteralmente bruciare,
a quella vista. Cercò di non pensare a quanto stupido doveva
sembrare.
“Ho capito, Sherlock, non hai intenzione di
rispondere” lo assecondò il medico,
lasciando la presa sulla camicia e dirigendosi verso la cucina. Il
suono che
uscì dalla bocca di Sherlock era di pura delusione, come se
qualcuno avesse
staccato la corrente durante la scena clou di un film avvincente.
“Ti faccio un tè” propose John, e
Sherlock mugolò in segno d’assenso.
Mentre trafficava col bollitore e le due tazze, John pensò
alle sue prossime
mosse. Doveva trovare un modo, anche uno solo per mettere Sherlock alle
strette
e costringerlo ad ammettere il motivo della sua distrazione. Aveva
aspettato
troppo, patito troppo quando
pensava
che Sherlock non nutrisse alcun interesse, e adesso che aveva in mano
la carta
vincente, quel perfetto e ricco asso nella manica non poteva affatto
farsi
sfuggire l’occasione.
Gettò un’occhiata a Sherlock, che lo guardava
sottecchi nascondendosi dietro
allo schienale della poltrona per evitare di essere beccato a fissarlo,
come se
credesse che John non si fosse accorto di nulla. John
sogghignò, scuotendo la
testa mentre qualche idea interessante cominciava a balenargli nella
mente.
Porse la tazza a Sherlock e si sedette nuovamente accanto a lui, questa
volta
più vicino, per assicurarsi che l’amico avesse una
perfetta visuale su di lui,
poi avvicinò la tazza alle labbra.
Una goccia di tè scivolò distrattamente
(o forse no?) sul suo mento, lenta e ostacolata dal lieve accenno di
barba, per
poi correre decisamente più lesta e agile lungo la curva del
mento e a sfiorare
il collo liscio fino a morire sul suo petto, intrappolata fra la sua
pelle e il
tessuto chiaro della camicia.
Sherlock era rimasto con la sua tazzina a mezz’aria, con la
bocca spalancata e
l’espressione di chi ha appena visto un fantasma svolazzare
per casa. Il labbro
inferiore tremava leggermente e la mano che reggeva il piattino cedette
per un
attimo lasciando che questo rotolasse liberamente per il tappeto senza
che Sherlock
nemmeno se ne accorgesse.
“Oh Dio” sussurrò Sherlock, incurante di
aver parlato a voce così alta.
John ne approfittò, gongolando dentro di sè come
un matto per essere riuscito
in quel gigantesco passo avanti.
“Come, scusa?” chiese, finendo il suo tè.
Sherlock scosse la testa, con veemenza.
“Niente, pensavo a voce alta” rispose
l’altro, finendo anche lui la bevanda con
tale foga da rischiare di soffocarsi. John si voltò per
frenare una sorta di
primitivo urlo di vittoria.
“Comunque, dovrò lavare questa camicia”
esordì poi John con la stessa imperturbabilità
di quando chiedeva a Sherlock cosa desiderava per cena. “Fa
veramente caldo, ed
è anche sporca di tè”.
Sherlock artigliò i cuscini della poltrona, afferrando il
cuscino da dietro la
schiena stringendolo tra le braccia a mo di scudo, come se si
aspettasse da un
momento all’altro che John gli saltasse addosso. John si mise
a ridere, più per
esasperazione che per sincero divertimento.
“Sherlock, non ti ho minacciato con un coltello. Che ti
prende?” domandò,
mentre il detective stringeva ancora a sé il cuscino, con
una certa veemenza.
“Fallo in camera tua” sbottò il
detective, come se stesse parlando sotto
tortura. “Non puoi spogliarti qui, la Signora Hudson
potrebbe… potrebbe entrare
all’improvviso” addusse come scusa, inconsapevole
di quanto poco credibile
sembrasse alle orecchie del medico.
“Oh ma la Signora Hudson era sposata, Sherlock. E non credo
si sconvolgerebbe
poi così tanto per un uomo a petto nudo”.
Sherlock si lamentò, con un’espressione stressata
ad inasprirgli i bei tratti.
John aveva solo voglia di gridare dalla soddisfazione.
“E’ anziana, John. Certe cose le fanno
effetto”.
“Io le farei effetto? Non sono mica… David
Beckham” replicò.
Sherlock lo guardò con sufficienza.
“Non mi è mai piaciuto David Beckham”
affermò.
“Però ti piaccio io”
“Ovviamente, John. Cento volte di più”.
Un silenzio pesante e imbarazzato scese al 221B nel momento esatto in
cui
Sherlock Holmes si accorse di cosa aveva detto, in quel veloce botta e
risposta.
Guardò John ancora una volta, questa volta senza
preoccuparsi minimamente di
sembrare sconvolto o insistente e qualcosa dentro John
sembrò esplodere,
bruciare, scaldandogli il cuore e rendendolo eccitato, felice, appagato
come mai
nella sua vita.
“Ecco, fantastico” grugnì, stringendo i
denti e dando un pugno abbastanza
violento alla poltrona.
“Sherlock…” John cercò di
tranquillizzarlo, con la testa in un altro mondo.
“Togliti quel sorriso dalla faccia, John.
E’già imbarazzante così”
disse
Sherlock con un tono di voce grave, come se fosse incredibilmente
arrabbiato
con sé stesso. Il medico non aveva però la minima
intenzione di smettere di
sorridere, più che altro perché gli sembrava
impossibile assumere uno stato
d’animo diverso da quello, in quel momento. Si crogiolava
nell’assoluta beata
consapevolezza che il suo coinquilino era attratto da lui.
“Non chiedermelo Sherlock, ti prego. E’ il momento
più gratificante di tutta la
mia vita, lasciamelo godere in pace”.
Sherlock si voltò, dando la schiena a John, con aria offesa.
John, cercando di
entrare per un secondo nella mentalità del coinquilino, si
avvicinò di più a
lui, sedendosi nello spazio lasciato libero dal detective cingendogli i
fianchi
da dietro e attirando la schiena di Sherlock al suo petto. Forse era
stato
troppo intraprendente, Sherlock si era immediatamente irrigidito al
contatto,
ma John sentiva nel suo cuore che era la cosa più giusta da
fare al momento.
Non c’era nessuna malizia in quell’abbraccio,
nessun fine nascosto. John voleva
solamente rassicurare il suo migliore amico.
“A me va bene, Sherlock. Non cambia niente, va tutto
bene” lo strinse di più, accarezzandogli
il dorso delle mani, provocandogli una piacevole pelle d’oca.
Sherlock non
rispose. Con dolcezza infinita, John gli accarezzò
l’intera lunghezza delle
braccia, la leggera peluria sugli avambracci, il polso nodoso, le dita
lunghe e
affusolate. Il detective si rilassò completamente contro di
lui, e ad un certo
punto lo vide voltarsi appena, con le labbra schiuse.
“E a me che non va bene” sussurrò.
Il cuore di John sembrò voler sprofondare in un baratro
senza fine. Accelerò la
sua corsa, e la mano del dottore si bloccò, lo sguardo perso
e la mente
completamente svuotata, per quelle parole taglienti, letali quanto una
lama.
Sherlock però sembrò accorgersi della reazione di
John e si spinse dolcemente
contro di lui, come un gatto in cerca di coccole.
“Io non…io non volevo dire…
io…” biascicò, con una certa incertezza
nella voce.
“Io voglio provare, tu vai…bene, più
che bene. Quello che non va…sono io”
ammise, chinando il capo nuovamente.
In quel momento, se possibile, l’affetto di John per lui, l’amore di John per lui,
raggiunse livelli inimmaginabili. Lo
strinse a sé con ancora più vigore, ma senza
fargli male, lasciandolo abituare
a quel calore, a quella stretta salda ma senza violenza alcuna. Se
Sherlock
voleva imparare, John sarebbe stato il suo maestro.
“Non importa, Sherlock” sussurrò al suo
orecchio, con tono sereno,
tranquillizzante. “Beh, magari andare completamente nel
pallone per una camicia
slacciata non è propriamente normale, ma ci
lavoreremo”.
Il coinquilino gli diede una botta amichevole sul braccio, come a
sgridarlo
silenziosamente.
“Così non mi aiuti, John. Mi fai sentire ancora
più stupido”.
John ridacchiò contro il suo collo, facendogli quasi il
solletico.
“Scusa. E’ che tutto questo è
talmente…incredibile
che non posso rimanere serio”.
“Grazie per tutta la fiducia che riponevi in me” la
frecciatina di Sherlock
arrivò dritta a destinazione.
“Beh, non sei propriamente un tipo che esterna i suoi
sentimenti. Fino a ieri
eri convinto di non averne”.
“Infatti è colpa tua. Mi fai uno strano effetto,
John. Mi rendi…vulnerabile”
il tono con cui pronunciò
l’ultima parola era un misto di insicurezza e sollievo, come
se non sapesse se
fosse esattamente un bene o un male. Per John invece, era la cosa
più bella che
Sherlock gli avesse mai detto.
“Non sempre è un male, Sherlock”.
“Lo spero per te, John”.
Sherlock si voltò lentamente, attento a non colpire John
nello spazio ristretto
della poltrona. Dopo qualche complicato spostamento, riuscirono a
ritrovarsi
entrambi rannicchiati l’uno di fronte all’altro,
John che ancora gli cingeva la
vita e la schiena come se non volesse lasciarlo andar via.
“Posso farti una domanda?” chiese poi John,
cercando di essere il più delicato
possibile. Sherlock annuì.
“Mi hai visto in accappatoio decine di volte, e non hai fatto
una piega. Come
mai questa…cosa ti fomenta così tanto?”
bisbigliò, accarezzando il viso
dell’altro con la punta delle dita. Sherlock alzò
le spalle.
“Non lo so. Non c’è esattamente una
spiegazione, credo. Mi piace e basta”
rispose lui, guardando altrove, leggermente rosso in viso. “E
poi…non ho molti
margini di paragone per definire… le mie
preferenze” continuò ancora, cercando
di guardare ovunque ma non verso John.
Il medico gli accarezzò una guancia.
“Avremo tempo per scoprirlo” lo
rassicurò, avvicinandosi ancora al volto di
Sherlock. Sapeva benissimo cosa voleva fare, desiderava quel momento da
mesi e
mesi, ma adesso che era arrivato ad un passo da quel gesto si sentiva
come
bloccato, spaventato che Sherlock potesse reputarlo un passo troppo
lungo, per
lui. Mille dubbi si scontravano nella mente del dottore mentre gli
occhi di
Sherlock tornavano ad incatenarsi ai suoi, con un sorriso appena
accennato
sulle labbra e un’espressione dolce, fiduciosa.
Sherlock sospirò, distogliendo completamente la sua
attenzione.
“Non mi sono goduto per niente il mio tè, oggi,
grazie a te” cominciò a dire,
senza che John capisse dove volesse andare a parare. “Non ce
n’è dell’altro?”.
John si guardò intorno, cercando di capire le motivazioni di
Sherlock, o meglio
quale messaggio cercasse di trasmettergli con quella domanda. Confuso,
scosse
la testa.
“Non ce n’è più, mi
dispiace”.
Il detective annuì con condiscendenza, mentre chiudeva gli
occhi respirando
profondamente, come se dovesse raccogliere coraggio e buona
volontà per
qualcosa che John ignorava.
“Allora dovrò accontentarmi”
mormorò ancora, mentre la sua bocca scivolava
lungo il suo collo, con somma sorpresa del dottore.
“Oh” riuscì solo a gemere, comprendendo
all’improvviso.
La bocca di Sherlock continuò il suo percorso, catturando la
scia di quella
solitaria goccia di tè ormai asciutto, assaporandola piano a
piene labbra. John
rabbrividì all’improvvisa intraprendenza di
Sherlock, che non avrebbe mai e poi
mai finito di stupirlo, godendosi il tocco delicato delle sue labbra in
quell’area tanto sensibile. Quando la bocca del detective si
spostò sul petto a
lambire quella tanto agognata frazione di pelle, John trattenne il
respiro.
“Questo…è… veramente
buono” disse, decisamente accaldato e decisamente su di
giri. Sherlock si sollevò, con attesa e compiacimento nello
sguardo.
“Oh bene. Ne sono felice. Ti è piaciuto il piccolo
esperimento?” domandò, con
finta indifferenza. John rise.
“Perfettamente riuscito” si complimentò.
“Magari potremmo fare
altri…esperimenti, in futuro” propose, entusiasta.
Sherlock guardò il soffitto,
pensieroso.
“Potrei essere d’accordo. Ma non durante il
lavoro” si assicurò, puntandogli
contro il dito. John aveva solamente una voglia pressante, incolmabile,
incredibile di baciarlo.
“Oh che peccato!” esclamò, fingendo
tristezza e rassegnazione. “Già immaginavo
in quante maniere avrei potuto ricattarti su questa tua piccola
debolezza.
Magari minacciando di raccontarla ad Anderson”
suggerì e dalla bocca di
Sherlock provenne un suono tra il disgustato e l’atterrito.
“Non oseresti” disse Sherlock, allarmato.
“Non immagini nemmeno di cosa sarei capace” rispose
John, con la sua più
convincente espressione cattiva.
Sherlock non riuscì a trattenere un ghigno.
“Cosa posso fare per convincerti a tenere la bocca
chiusa?” domandò, fintamente
in ansia.
John ridacchiò, pericolosamente vicino al viso del detective.
“Ci devo pensare…attentamente”
rispose il dottore, divertito.
Sherlock sorrise, e si avvicinò ancora fino a quando John
poté notare ogni
sfumatura dei suoi occhi azzurri, ogni pagliuzza più scura,
ogni riflesso
dorato. Ad un certo punto fu talmente vicino che riuscì a
sentire il suo
respiro sulle proprie labbra, come una carezza piacevole, preludio a
qualcosa
di ancora più bello. E Sherlock lo baciò.
John mugolò, mentre spingeva la propria bocca contro quella
del detective, con
entusiasmo palpabile e con molta, molta partecipazione. Se era vero che
per
Sherlock era la prima esperienza, allora doveva essere uno studente
tremendamente veloce e dotato, dato che per John quel bacio si stava
rivelando
essere sicuramente il migliore che avesse mai ricevuto in vita sua.
Il mondo si fermò, in quei minuti eternamente lunghi, mentre
le loro mani si
stringevano con forza, come se l’uno non volesse mai lasciare
andare l’altro,
emulando le loro labbra ancora unite, strette in
quell’abbraccio dolce,
appassionato.
Quando si separarono, John aveva quasi le lacrime agli occhi per le
mille
emozioni, troppo intense per essere descritte a voce.
“Questo ti basta?” chiese Sherlock, con il respiro
smorzato, ancora sconvolto
dall’intensità del bacio.
Il medico lo accarezzò sulla guancia, con amore, poggiando
la fronte contro
quella di Sherlock.
A John bastò.
*