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Autore: SAranel    21/04/2012    6 recensioni
Sherlock viene consultato per un caso, ma appena si accorge della presenza di John nella stessa stanza, sembra perdere completamente la concentrazione. Quale sarà il motivo?
“Sherlock, per piacere, cosa c’è che non va?” John adesso era seriamente inquieto. Da quando lo aveva guardato la prima volta aveva cominciato a comportarsi in quella maniera stramba e il problema non sembrava affatto sulla via di una risoluzione. Anzi, se possibile, Sherlock sembrava ogni secondo più in difficoltà.
Il detective guardò il medico ancora una volta, umettandosi le labbra e puntando gli occhi dritti dei suoi. Poi si spostò sulla sua bocca, sul suo collo, e infine sul petto, leggermente lasciato scoperto dalla camicia sbottonata. Si soffermò in quello specificò punto per molto più tempo del necessario.
“Io…sto...sto bene” balbettò.[...]
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao, adorati!
Tre giorni e rieccomi qui, come volevasi dimostrare! Pubblico un’altra storia oggi, perché nei prossimi tempi sarò decisamente impegnata, e probabilmente non potrò pubblicare come negli scorsi giorni … ma bando alle ciance!
Ritorno allo slash, il mio adorato slash, e al continuo rincorrersi e scoprirsi di questi due personaggi meravigliosi che, senza esagerare, hanno veramente aggiunto un qualcosa in più alla mia vita.
Sperando di non aver fatto troppo male, al solito, vi auguro buona lettura!
S.

 


Una piccola distrazione
*


John sedeva sulla sua poltrona preferita, di fronte a quella di Sherlock, e l’Ispettore Lestrade era sul divano, con un buon numero di fotografie nella mano destra che porgeva a Sherlock una alla volta, per un consulto sulla scena di un crimine.
Sherlock aveva in mano la stessa foto da qualche minuto, raffigurante una donna dai capelli rossi con una visibile ferita alla testa, riversa sul pavimento. A quanto aveva capito, aveva raggiunto i due solo da pochi minuti, la donna era stata trovata così nel suo appartamento dopo che la sorella, preoccupata che lei non rispondesse ai suoi tentativi di rintracciarla, era arrivata al suo appartamento.
“Era tornata da un viaggio” decretò Sherlock, tenendo gli occhi fissi sulla foto. John dubitava che si fosse accorto del suo arrivo, ma dopotutto ci era abituato. “…e in tutta fretta aggiungerei, a giudicare dallo stato dei vestiti nella sua borsa. E’ come se avesse ricevuto una qualche chiamata, o un messaggio e si fosse precipitata a Londra il più presto possibile” concluse. Lestrade guardava Sherlock e poi la foto, rispettivamente, come se ancora si stupisse delle sue capacità.

“E dove si trovava? Qual era la meta del viaggio?” domandò poi John, cercando di inserirsi nella conversazione. Sherlock alzò lo sguardo, fissando il volto di John, probabilmente accortosi in quel momento della sua presenza nella stanza.
“Oh, John” lo salutò di sfuggita. “Bentornato”.

John gli rispose con un cenno del capo, senza volerlo distogliere dalla sua riflessione. Sherlock però non tornò subito ad esaminare le fotografie, con sommo stupore del medico. Si soffermò ancora sulla figura del dottore, lasciando vagare gli occhi dalla sua testa ai suoi piedi e poi tornando all’altezza del viso, guardandolo fisso, in una maniera che metteva John abbastanza a disagio.
“Sherlock? Va tutto bene?” gli domandò Lestrade, notando il vivo interesse di Sherlock per John. Il detective scosse la testa e sembrò quasi risvegliarsi da una specie di trance ipnotica. Guardò Lestrade, poi le foto, poi il pavimento e nuovamente John, come se cercasse di riconnettere in pochi secondi dove si trovasse e cosa stesse facendo.
“Oh, io…si…tutto bene. Dicevamo… il viaggio” si ricompose, ma John riusciva a vedere ancora una nota stonata nell’espressione del coinquilino. Si guardò di sfuggita allo specchio sopra il camino, cercando di capire cosa avesse attirato l’attenzione di Sherlock a quel modo. La zip dei jeans era sollevata, ringraziando il Cielo, la cintura era al suo posto e non c’erano macchie o difetti di sorta sulla camicia azzurra. Sfiorò i primi tre bottoni, opportunamente slacciati, data la giornata assolata, e non riscontrò alcun problema. E allora…perché?

Viaggio, siripetè nuovamente Sherlock, lanciando ancora delle occhiate fugaci a John. “Probabilmente un viaggio in treno, dato che le dimensioni della valigia e dagli evidenti segni sulle, sulle…” deglutì mentre muoveva la testa in maniera decisamente strana, prima avanti e poi indietro, come se si stesse auto convincendo di non rivolgere lo sguardo da qualche parte, senza successo. Ed ecco che pochi secondi dopo, i suoi occhi erano nuovamente rivolti verso il medico.
John tossicchiò, sentendosi in imbarazzo sotto lo sguardo indecifrabile del detective. Lo scrutava come se fosse attirato da una forza sconosciuta, qualcosa che gli impediva di poter distogliergli gli occhi di dosso, e John sentì il sangue irrorargli le guance, e anche qualcos’altro, particolare a cui non voleva minimamente pensare, facendolo arrossire più del dovuto. Sherlock era veramente un mistero, certe volte.
Lestrade, dal canto suo, sembrava vivacemente interessato alla cosa, nonostante non andasse certo a suo favore quell’improvvisa mancanza di concentrazione da parte di Sherlock. Sorrideva con espressione furba, come se avesse capito qualcosa che agli altri non era dato sapere.
“Sherlock, continua” cercò di dire John, nel vano tentativo di mettere fine a quell’attenta osservazione.
Ancora una volta Sherlock sussultò. Boccheggiò, cercando di riallacciarsi al discorso, e John cominciò a sentirsi decisamente preoccupato da quel comportamento. Non lo aveva mai visto metterci tanto per una semplice analisi di prove, di solito bastavano cinque minuti per farti un quadro chiaro, lampante, di ciò che era o non era successo. Quel giorno invece Lestrade era lì da almeno dieci minuti e dalla bocca di Sherlock erano usciti solo dettagli di poca importanza.

“Treno. Per i segni di consunzione sulle calze, all’altezza delle caviglie…per…per via dei” guardò nuovamente John, ma stavolta per un paio di secondi. “Dei poggiapiedi. Nei treni più vecchi non presentano protezione e la superficie irregolare può tagliare…il…” nuova occhiata. “Il nylon dei collant”.
“Oh, molto bene. Controlleremo le partenze e i numeri dei treni allora, per restringere il campo, escludendo i mezzi più moderni” asserì l’Ispettore, mordendosi un labbro per non ridacchiare. Gli mise tra le mani un’altra fotografia, stavolta con il contenuto della borsa della vittima e lo sguardo di Sherlock sembrò vagare da un particolare all’altro senza realmente vederlo. E non era da lui, no affatto.

“Sherlock, per piacere, cosa c’è che non va?” John adesso era seriamente inquieto. Da quando lo aveva guardato la prima volta aveva cominciato a comportarsi in quella maniera stramba e il problema non sembrava affatto sulla via di una risoluzione. Anzi, se possibile, Sherlock sembrava ogni secondo più in difficoltà.
Il detective guardò il medico ancora una volta, umettandosi le labbra e puntando gli occhi dritti dei suoi. Poi si spostò sulla sua bocca, sul suo collo, e infine sul petto, leggermente lasciato scoperto dalla camicia sbottonata. Si soffermò in quello specificò punto per molto più tempo del necessario.
“Io…sto...sto bene” balbettò, e questo riuscì solo ad agitare John ancora di più. Quando mai il geniale Sherlock Holmes rimaneva così scosso da non riuscire quasi a formulare una frase di senso compiuto? Urgeva indagare.

“Non stai bene, Sherlock. Proprio per niente” disse Lestrade con una certa energia, con un sorriso ebete sul viso. Era veramente insopportabile, con quell’aria saccente e quell’espressione indicibilmente fastidiosa. Se aveva capito qualcosa, perché non lo diceva e basta?
Sherlock?” disse John ancora, impossibilitato a bloccare l’avanzare di una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Si sentiva decisamente strano sotto quello sguardo attento, indagatore, ma in cui non leggeva solo un’insana voglia di mettersi in mostra bensì una sorta di…interesse. Sherlock gemette quando si sentì chiamare nuovamente, e mosse le labbra come per parlare ma nessun suono uscì dalla sua bocca. John sentì il cuore balzargli nel petto. In un secondo, qualcosa lo illuminò sul motivo di tanto interesse, di quella tanto minuziosa analisi da parte del detective. Per avvalorare la sua ipotesi alzò leggermente la mano verso il suo petto, slacciando un altro bottone con nonchalance, facendolo sembrare un gesto disinteressato e dettato solo dalla calura che invadeva il salotto. Poi guardò nuovamente Sherlock e lo vide deglutire con una certa energia, mentre la mano libera che non reggeva la fotografia stringeva il bracciolo della poltrona come se volesse passarci attraverso.
“Oh, Dio, si” la quieta belva nel petto di John ruggì ed esultò trionfante a quella piccola ma terribilmente piacevole scoperta. Sapere che Sherlock aveva una vulnerabilità, cosa che John non avrebbe mai creduto possibile, e sapere che lui stesso era quella debolezza, o meglio, quei tre miseri e importantissimi bottoncini della sua camicia, gli faceva tremare le ginocchia come un ragazzino alla sua prima cotta.
E adesso che sapeva, non si sarebbe certo lasciato sfuggire l’occasione di tormentare almeno un pochino il povero Sherlock.
“Ho detto che sto bene. Io… lasciatemi guardare ancora questa foto” disse, con tono aggressivo, probabilmente combattendo una battaglia all’ultimo sangue con sé stesso. Scuoteva leggermente la testa mentre osservava la fotografia senza dire nulla, senza riuscire a concentrarsi abbastanza, senza riuscire a leggervi nulla, impossibilitato a distogliere la mente da quei maledetti bottoni. Sherlock ne aveva bisogno, in realtà.
Non era un capriccio, o una stravaganza dettata da un momento di noia. Sherlock era rapito da John come non lo era mai stato, nemmeno per la più intricata delle sue indagini.
“Io credo che… la vittima abbia fatto visita…ad…ad un…” mosse la testa, mentre John ridacchiava tra sé e sé, assumendo una posa diversa sulla poltrona, in modo che la visuale per Sherlock non fosse impedita in alcun modo. “Ho bisogno di un secondo” sbottò poi il detective, scrollando le spalle con aria indispettita, come se non reputasse normale cedere ai suoi istinti per una volta. John poteva capirlo: per Sherlock doveva essere frustrante non riuscire a ragionare coerentemente.
Lestrade osservava la scena come se seguisse un emozionante film d’azione alla tv. Guardò John e fingendo di stropicciarsi gli occhi, ammiccò, anche se visibilmente imbarazzato.
Poi un telefono squillò, proprio quello dell’Ispettore, che si alzò in piedi continuando la conversazione sul pianerottolo dell’appartamento. Aveva lasciato il mazzetto di fotografie sul divano, così John si sporse e lo sostituì momentaneamente, sedendosi sul divano proprio accanto alla poltrona di Sherlock, che aveva accolto il suo repentino avvicinamento con un’espressione contrita e sconvolta del viso. John non sapeva se esserne contento o preoccupato, ma optò per la prima ipotesi: sicuramente era rimasto interdetto dalla troppa improvvisa vicinanza, in un troppo rapido lasso di tempo.
“Sei distratto da qualcosa, Sherlock?” lo punzecchiò ancora John, approfittando dell’ assenza dell’Ispettore. “Sembri davvero in difficoltà. Vuoi che ti aiuti a concentrarti?” gli propose e quasi si spaventò dell’energico e inaspettato gesto di diniego del coinquilino. Inevitabilmente, questi era tornato a guardarlo, e adesso, a quella distanza tanto breve, anche il più innocente e ingenuo dei bambini si sarebbe accorto di dove gli occhi di Sherlock erano dolorosamente fissi. John sorrise e incrociò le gambe, portando la mano al petto, fingendo di sfiorare un quarto bottone. Sherlock trattenne bruscamente il respiro.
“Dammi un’altra foto, John. Da quella… precedente non sono riuscito a trarre nulla” sbottò, sussurrando le parole con voce roca. John, cercando di non assumere l’espressione terribilmente compiaciuta che avrebbe voluto sfoggiare orgogliosamente, gli porse la terza foto, quella dell’esterno dell’appartamento. Nel frattempo Lestrade, conclusa la telefonata, era rimasto in piedi dietro Sherlock ad osservare con lui la foto.
“E’… hai detto che la scena è…nei pressi di…Battersea?” disse, esitante, come se non ne fosse poi così sicuro, nonostante Lestrade gli avesse illustrato approfonditamente il caso nemmeno mezz’ora prima.
“Tottenham, in verità” lo corresse l’Ispettore, con aria più divertita che contrariata.
Sherlock emise un verso simile ad una specie di latrato lamentoso.
“Non riesco a concentrarmi, per l’amor del Cielo!” sbraitò poi, sfogandosi, quasi accoltellando il bracciolo della poltrona con la forchetta della colazione. La vestaglia gli cadde su una spalla quando si alzò violentemente dalla poltrona, per poi crollarci nuovamente sopra in un gesto esasperato.
“Forse dovrei tornare in un altro momento. Oggi hai la mente…altrove. Capita a tutti” asserì Lestrade.
“Non a me!” sbottò, Sherlock violentemente. L’Ispettore afferrò la foto dalle mani di Sherlock prima che la distruggesse e lo guardò in cagnesco, nonostante ormai conoscesse perfettamente il suo carattere. John gli porse le altre e gli sorrise, complice, mentre l’Ispettore si avviava verso la porta.
“Buona giornata, Greg” lo salutò John, lanciando di quando in quando un’occhiata furtiva verso Sherlock.
“Beh, a presto. Buon proseguimento di giornata” si bloccò davanti alla porta e sorrise tra sé e sé, con una qualche divertente immagine nella testa, per poi chiudere la porta con un rumore secco.

Sherlock adesso era sdraiato sulla poltrona, con le gambe che sporgevano di quasi tutta la lunghezza dal bracciolo, poggiando appena sul parquet.
Da lontano sembrava quasi che si fosse addormentato, ma quando John guardò meglio, appoggiato alla colonna accanto alla porta d’ingresso, si accorse di come in realtà lo stesse palesemente osservando, con gli occhi chiusi per metà. E il bersaglio di quell’occhiata furtiva ma quasi tagliente, era sempre, esattamente lo stesso.
“Hai dormito poco, Sherlock. Ho sempre detto che la tua mancanza di sonno ti avrebbe fatto male, prima o poi” disse John, prendendolo in giro. Sherlock sbuffò, senza poter fare a meno di seguirlo con lo sguardo, come se John fosse un buffo burattinaio e Sherlock una marionetta alla sua totale mercé.
“Dormo anche troppo, per i miei gusti” rispose, tagliente. “Il problema è un sovraccarico di… dati visivi” commentò.
John fu sorpreso da quelle parole. Sembrava voler imboccare la strada giusta, a quanto sembrava.
“Ah si? E cosa…hai visto di tanto interessante da mandare in tilt così il tuo brillante cervello?” gli domandò, cercando di modulare la sua voce così da sembrare totalmente innocente e priva di secondi scopi. Sherlock sbiancò.
“Ho visto…cose” rispose, conscio probabilmente del suo inutile arrampicarsi sugli specchi, ma deciso a nascondersi fino alla fine.
John scoppiò a ridere a quella risposta. Fremeva d’eccitazione davanti a quello Sherlock così diverso dal solito, così teso, così ingenuo, così…umano.
“Oh, cose. Cose alla TV? Cose sul quotidiano? Cose…nell’appartamento?” sottolineò quell’ultima parola con particolare enfasi mentre guardava Sherlock incollargli nuovamente gli occhi addosso. Con un coraggio che nemmeno lui sapeva di avere, sorrise al detective, e si sedette sul bracciolo della sua poltrona, come a voler annullare il più possibile le distanze tra loro, per mettere il coinquilino alle strette fino all’inevitabile confessione. E Cielo, era certo che si sarebbe goduto ogni singola sfumatura di voce, ogni brillio nei suoi occhi mentre ammetteva di essere ipnotizzato dalla sola vista della sua camicia…
Chiuse gli occhi e si godette per un secondo la scena, prima di tornare a tormentare il povero detective. Sherlock non rispose, non subito, prendendosi del tempo per pensare, per mordersi la lingua a sangue per la mancanza di voce, di pensieri, di parole.
Non si era mai sentito così, mai in vita sua. John aveva segnato per lui l’inizio di tante cose, e adesso, al suo lunghissimo e personale bastone delle esperienze avrebbe aggiunto un’altra fondamentale tacca, a ricordare la prima volta in cui Sherlock Holmes era rimasto completamente senza parole.
“Nell’appartamento. Ma non voglio parlarne” cercò di chiudere lì, ma John era intenzionato a non liquidare l’argomento tanto facilmente.
“E ora va meglio, Sherlock? Che sai dirmi sulle foto che hai visto?”.
Sherlock sembrò sorpreso della domanda, e storse il naso, come uno scolaretto interrogato a sorpresa dalla maestra senza aver aperto libro.
“Le hai viste anche tu, quelle foto” rispose il detective con un gesto della mano.
“Si, le ho viste. Voglio sapere cosa ci hai visto tu” domandò. “Prima di essere distratto. Sempre che tu abbia visto qualcosa” specificò il dottore, accomodandosi meglio, e cercando di sfiorare il più possibile Sherlock senza farlo sembrare volontario. Il detective si agitava sulla seduta della poltrona senza trovare pace, come se fosse sdraiato sui chiodi. E John si sentiva straordinariamente onnipotente. Il detective sembrò volerlo fulminare col solo ausilio degli occhi.
“Certo che ho visto qualcosa. Non dovrei parlarne con te. Potresti andare in giro a raccontarlo a qualcuno, a…Sarah” pronunciò il nome con tono stizzito. “o chissà chi altro”.
John scoppiò a ridere.
“Sherlock, risolviamo casi insieme da mesi e mesi.. A cosa dobbiamo questa improvvisa mossa di coscienza?”.
Sherlock sbuffò, cercando in tutti i modi e con tutte le sue forze di ignorare le dita di John, che adesso si muovevano di nuovo intorno al terzo bottone con preoccupante frequenza. Lo sfiorava, lo rigirava tra le dita con metodica e studiata lentezza. Sherlock rivalutò la teoria dell’autocombustione umana, in quel momento. Valutò la distanza tra lui e la fonte d’acqua più vicina, dato che si sentiva letteralmente bruciare, a quella vista. Cercò di non pensare a quanto stupido doveva sembrare.
“Ho capito, Sherlock, non hai intenzione di rispondere” lo assecondò il medico, lasciando la presa sulla camicia e dirigendosi verso la cucina. Il suono che uscì dalla bocca di Sherlock era di pura delusione, come se qualcuno avesse staccato la corrente durante la scena clou di un film avvincente.
“Ti faccio un tè” propose John, e Sherlock mugolò in segno d’assenso.
Mentre trafficava col bollitore e le due tazze, John pensò alle sue prossime mosse. Doveva trovare un modo, anche uno solo per mettere Sherlock alle strette e costringerlo ad ammettere il motivo della sua distrazione. Aveva aspettato troppo, patito troppo quando pensava che Sherlock non nutrisse alcun interesse, e adesso che aveva in mano la carta vincente, quel perfetto e ricco asso nella manica non poteva affatto farsi sfuggire l’occasione.
Gettò un’occhiata a Sherlock, che lo guardava sottecchi nascondendosi dietro allo schienale della poltrona per evitare di essere beccato a fissarlo, come se credesse che John non si fosse accorto di nulla. John sogghignò, scuotendo la testa mentre qualche idea interessante cominciava a balenargli nella mente.
Porse la tazza a Sherlock e si sedette nuovamente accanto a lui, questa volta più vicino, per assicurarsi che l’amico avesse una perfetta visuale su di lui, poi avvicinò la tazza alle labbra.
Una goccia di tè scivolò distrattamente (o forse no?) sul suo mento, lenta e ostacolata dal lieve accenno di barba, per poi correre decisamente più lesta e agile lungo la curva del mento e a sfiorare il collo liscio fino a morire sul suo petto, intrappolata fra la sua pelle e il tessuto chiaro della camicia.
Sherlock era rimasto con la sua tazzina a mezz’aria, con la bocca spalancata e l’espressione di chi ha appena visto un fantasma svolazzare per casa. Il labbro inferiore tremava leggermente e la mano che reggeva il piattino cedette per un attimo lasciando che questo rotolasse liberamente per il tappeto senza che Sherlock nemmeno se ne accorgesse.
“Oh Dio” sussurrò Sherlock, incurante di aver parlato a voce così alta.
John ne approfittò, gongolando dentro di sè come un matto per essere riuscito in quel gigantesco passo avanti.
“Come, scusa?” chiese, finendo il suo tè.
Sherlock scosse la testa, con veemenza.
“Niente, pensavo a voce alta” rispose l’altro, finendo anche lui la bevanda con tale foga da rischiare di soffocarsi. John si voltò per frenare una sorta di primitivo urlo di vittoria.
“Comunque, dovrò lavare questa camicia” esordì poi John con la stessa imperturbabilità di quando chiedeva a Sherlock cosa desiderava per cena. “Fa veramente caldo, ed è anche sporca di tè”.
Sherlock artigliò i cuscini della poltrona, afferrando il cuscino da dietro la schiena stringendolo tra le braccia a mo di scudo, come se si aspettasse da un momento all’altro che John gli saltasse addosso. John si mise a ridere, più per esasperazione che per sincero divertimento.
“Sherlock, non ti ho minacciato con un coltello. Che ti prende?” domandò, mentre il detective stringeva ancora a sé il cuscino, con una certa veemenza.
“Fallo in camera tua” sbottò il detective, come se stesse parlando sotto tortura. “Non puoi spogliarti qui, la Signora Hudson potrebbe… potrebbe entrare all’improvviso” addusse come scusa, inconsapevole di quanto poco credibile sembrasse alle orecchie del medico.
“Oh ma la Signora Hudson era sposata, Sherlock. E non credo si sconvolgerebbe poi così tanto per un uomo a petto nudo”.
Sherlock si lamentò, con un’espressione stressata ad inasprirgli i bei tratti. John aveva solo voglia di gridare dalla soddisfazione.
“E’ anziana, John. Certe cose le fanno effetto”.
“Io le farei effetto? Non sono mica… David Beckham” replicò.
Sherlock lo guardò con sufficienza.
“Non mi è mai piaciuto David Beckham” affermò.
“Però ti piaccio io”
“Ovviamente, John. Cento volte di più”.
Un silenzio pesante e imbarazzato scese al 221B nel momento esatto in cui Sherlock Holmes si accorse di cosa aveva detto, in quel veloce botta e risposta.
Guardò John ancora una volta, questa volta senza preoccuparsi minimamente di sembrare sconvolto o insistente e qualcosa dentro John sembrò esplodere, bruciare, scaldandogli il cuore e rendendolo eccitato, felice, appagato come mai nella sua vita.
“Ecco, fantastico” grugnì, stringendo i denti e dando un pugno abbastanza violento alla poltrona.
“Sherlock…” John cercò di tranquillizzarlo, con la testa in un altro mondo.
“Togliti quel sorriso dalla faccia, John. E’già imbarazzante così” disse Sherlock con un tono di voce grave, come se fosse incredibilmente arrabbiato con sé stesso. Il medico non aveva però la minima intenzione di smettere di sorridere, più che altro perché gli sembrava impossibile assumere uno stato d’animo diverso da quello, in quel momento. Si crogiolava nell’assoluta beata consapevolezza che il suo coinquilino era attratto da lui.
“Non chiedermelo Sherlock, ti prego. E’ il momento più gratificante di tutta la mia vita, lasciamelo godere in pace”.
Sherlock si voltò, dando la schiena a John, con aria offesa. John, cercando di entrare per un secondo nella mentalità del coinquilino, si avvicinò di più a lui, sedendosi nello spazio lasciato libero dal detective cingendogli i fianchi da dietro e attirando la schiena di Sherlock al suo petto. Forse era stato troppo intraprendente, Sherlock si era immediatamente irrigidito al contatto, ma John sentiva nel suo cuore che era la cosa più giusta da fare al momento. Non c’era nessuna malizia in quell’abbraccio, nessun fine nascosto. John voleva solamente rassicurare il suo migliore amico.
“A me va bene, Sherlock. Non cambia niente, va tutto bene” lo strinse di più, accarezzandogli il dorso delle mani, provocandogli una piacevole pelle d’oca. Sherlock non rispose. Con dolcezza infinita, John gli accarezzò l’intera lunghezza delle braccia, la leggera peluria sugli avambracci, il polso nodoso, le dita lunghe e affusolate. Il detective si rilassò completamente contro di lui, e ad un certo punto lo vide voltarsi appena, con le labbra schiuse.
“E a me che non va bene” sussurrò.
Il cuore di John sembrò voler sprofondare in un baratro senza fine. Accelerò la sua corsa, e la mano del dottore si bloccò, lo sguardo perso e la mente completamente svuotata, per quelle parole taglienti, letali quanto una lama. Sherlock però sembrò accorgersi della reazione di John e si spinse dolcemente contro di lui, come un gatto in cerca di coccole.
“Io non…io non volevo dire… io…” biascicò, con una certa incertezza nella voce. “Io voglio provare, tu vai…bene, più che bene. Quello che non va…sono io” ammise, chinando il capo nuovamente.
In quel momento, se possibile, l’affetto di John per lui, l’amore di John per lui, raggiunse livelli inimmaginabili. Lo strinse a sé con ancora più vigore, ma senza fargli male, lasciandolo abituare a quel calore, a quella stretta salda ma senza violenza alcuna. Se Sherlock voleva imparare, John sarebbe stato il suo maestro.
“Non importa, Sherlock” sussurrò al suo orecchio, con tono sereno, tranquillizzante. “Beh, magari andare completamente nel pallone per una camicia slacciata non è propriamente normale, ma ci lavoreremo”.
Il coinquilino gli diede una botta amichevole sul braccio, come a sgridarlo silenziosamente.
“Così non mi aiuti, John. Mi fai sentire ancora più stupido”.
John ridacchiò contro il suo collo, facendogli quasi il solletico.
“Scusa. E’ che tutto questo è talmente…incredibile che non posso rimanere serio”.
“Grazie per tutta la fiducia che riponevi in me” la frecciatina di Sherlock arrivò dritta a destinazione.
“Beh, non sei propriamente un tipo che esterna i suoi sentimenti. Fino a ieri eri convinto di non averne”.
“Infatti è colpa tua. Mi fai uno strano effetto, John. Mi rendi…vulnerabile” il tono con cui pronunciò l’ultima parola era un misto di insicurezza e sollievo, come se non sapesse se fosse esattamente un bene o un male. Per John invece, era la cosa più bella che Sherlock gli avesse mai detto.
“Non sempre è un male, Sherlock”.
“Lo spero per te, John”.
Sherlock si voltò lentamente, attento a non colpire John nello spazio ristretto della poltrona. Dopo qualche complicato spostamento, riuscirono a ritrovarsi entrambi rannicchiati l’uno di fronte all’altro, John che ancora gli cingeva la vita e la schiena come se non volesse lasciarlo andar via.
“Posso farti una domanda?” chiese poi John, cercando di essere il più delicato possibile. Sherlock annuì.
“Mi hai visto in accappatoio decine di volte, e non hai fatto una piega. Come mai questa…cosa ti fomenta così tanto?” bisbigliò, accarezzando il viso dell’altro con la punta delle dita. Sherlock alzò le spalle.
“Non lo so. Non c’è esattamente una spiegazione, credo. Mi piace e basta” rispose lui, guardando altrove, leggermente rosso in viso. “E poi…non ho molti margini di paragone per definire… le mie preferenze” continuò ancora, cercando di guardare ovunque ma non verso John.
Il medico gli accarezzò una guancia.
“Avremo tempo per scoprirlo” lo rassicurò, avvicinandosi ancora al volto di Sherlock. Sapeva benissimo cosa voleva fare, desiderava quel momento da mesi e mesi, ma adesso che era arrivato ad un passo da quel gesto si sentiva come bloccato, spaventato che Sherlock potesse reputarlo un passo troppo lungo, per lui. Mille dubbi si scontravano nella mente del dottore mentre gli occhi di Sherlock tornavano ad incatenarsi ai suoi, con un sorriso appena accennato sulle labbra e un’espressione dolce, fiduciosa.
Sherlock sospirò, distogliendo completamente la sua attenzione.
“Non mi sono goduto per niente il mio tè, oggi, grazie a te” cominciò a dire, senza che John capisse dove volesse andare a parare. “Non ce n’è dell’altro?”.
John si guardò intorno, cercando di capire le motivazioni di Sherlock, o meglio quale messaggio cercasse di trasmettergli con quella domanda. Confuso, scosse la testa.
“Non ce n’è più, mi dispiace”.
Il detective annuì con condiscendenza, mentre chiudeva gli occhi respirando profondamente, come se dovesse raccogliere coraggio e buona volontà per qualcosa che John ignorava.
“Allora dovrò accontentarmi” mormorò ancora, mentre la sua bocca scivolava lungo il suo collo, con somma sorpresa del dottore.
“Oh” riuscì solo a gemere, comprendendo all’improvviso.
La bocca di Sherlock continuò il suo percorso, catturando la scia di quella solitaria goccia di tè ormai asciutto, assaporandola piano a piene labbra. John rabbrividì all’improvvisa intraprendenza di Sherlock, che non avrebbe mai e poi mai finito di stupirlo, godendosi il tocco delicato delle sue labbra in quell’area tanto sensibile. Quando la bocca del detective si spostò sul petto a lambire quella tanto agognata frazione di pelle, John trattenne il respiro.
“Questo…è… veramente buono” disse, decisamente accaldato e decisamente su di giri. Sherlock si sollevò, con attesa e compiacimento nello sguardo.
“Oh bene. Ne sono felice. Ti è piaciuto il piccolo esperimento?” domandò, con finta indifferenza. John rise.
“Perfettamente riuscito” si complimentò. “Magari potremmo fare altri…esperimenti, in futuro” propose, entusiasta. Sherlock guardò il soffitto, pensieroso.
“Potrei essere d’accordo. Ma non durante il lavoro” si assicurò, puntandogli contro il dito. John aveva solamente una voglia pressante, incolmabile, incredibile di baciarlo.
“Oh che peccato!” esclamò, fingendo tristezza e rassegnazione. “Già immaginavo in quante maniere avrei potuto ricattarti su questa tua piccola debolezza. Magari minacciando di raccontarla ad Anderson” suggerì e dalla bocca di Sherlock provenne un suono tra il disgustato e l’atterrito.
“Non oseresti” disse Sherlock, allarmato.
“Non immagini nemmeno di cosa sarei capace” rispose John, con la sua più convincente espressione cattiva.
Sherlock non riuscì a trattenere un ghigno.
“Cosa posso fare per convincerti a tenere la bocca chiusa?” domandò, fintamente in ansia.
John ridacchiò, pericolosamente vicino al viso del detective.
“Ci devo pensare…attentamente” rispose il dottore, divertito.
Sherlock sorrise, e si avvicinò ancora fino a quando John poté notare ogni sfumatura dei suoi occhi azzurri, ogni pagliuzza più scura, ogni riflesso dorato. Ad un certo punto fu talmente vicino che riuscì a sentire il suo respiro sulle proprie labbra, come una carezza piacevole, preludio a qualcosa di ancora più bello. E Sherlock lo baciò.
John mugolò, mentre spingeva la propria bocca contro quella del detective, con entusiasmo palpabile e con molta, molta partecipazione. Se era vero che per Sherlock era la prima esperienza, allora doveva essere uno studente tremendamente veloce e dotato, dato che per John quel bacio si stava rivelando essere sicuramente il migliore che avesse mai ricevuto in vita sua.
Il mondo si fermò, in quei minuti eternamente lunghi, mentre le loro mani si stringevano con forza, come se l’uno non volesse mai lasciare andare l’altro, emulando le loro labbra ancora unite, strette in quell’abbraccio dolce, appassionato.
Quando si separarono, John aveva quasi le lacrime agli occhi per le mille emozioni, troppo intense per essere descritte a voce.
“Questo ti basta?” chiese Sherlock, con il respiro smorzato, ancora sconvolto dall’intensità del bacio.
Il medico lo accarezzò sulla guancia, con amore, poggiando la fronte contro quella di Sherlock.
A John bastò.

 

 

 

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