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Autore: Melian_Belt    23/04/2012    6 recensioni
Nella Roma del 410 d.C., uno schiavo viene acquistato da una potente famiglia romana e si trova a vivere in un mondo diverso da quello al quale era abituato. Ma l'elemento più disturbante si rivelerà il nuovo padrone, destinato a dare una svolta inaspettata a quello che credeva il suo destino già segnato.
Slash, tanto per cambiare U_U
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non mi muovo, quasi non respiro, quando il cugino del padrone esce da me e ansimando si lascia cadere sul materasso. Continuo a guardare fuori dalla finestra, senza davvero vedere nulla. Se mi muovessi, il dolore che provo alla base della schiena diventerebbe insopportabile, e con esso arriverebbero non so quali altri pensieri e sensazioni che al momento voglio evitare. Nascondo il viso nel cuscino e mi concentro sulla profondità dei miei respiri, sperando che arrivi il sonno a portarmi via.
Mi irrigidisco, sentendo delle dita giocherellare con i miei capelli. “Ehi, sei vivo?”.
Sposto la testa, togliendomi dal suo tocco, senza rispondere. Ridacchia: “Davvero, sei un tipo strano”.
Il peso accanto a me sul letto scompare, un rumore di tessuto su pelle. Dei passi e finalmente rimango solo. Non riesco a capire come funzioni il tempo in questo momento, mi sembra che sia stato tutto velocissimo, probabilmente perché è stato così. Mi tiro un po’ su, un labbro tra i denti non per il dolore, ma per la rabbia che mi fa tremare le braccia, con le quali sostengo il mio corpo inarcato.
Il dolore non è terribile, ho sperimentato di peggio, ma le mani bruciano, le fasciature ormai completamente fuori posto, dei fili di marionetta che pendono dagli avambracci. In ginocchio, fisso il muro davanti a me, un piccolo disegno di satiro con flauto, che danza in un rosso accesso.
Il respiro mi muore in petto e la rabbia esplode, ma non c’è nulla che possa aiutarmi a sfogarla, a tirarla fuori, quello che è appena successo incancellabile. In un impeto senza pensiero sbatto il pugno contro la parete, gridando per il dolore e la furia, una ferita si apre e il sangue si confonde con il pompeiano dello stucco.
Gli occhi sbarrati e il fiato pesante allungo un braccio per riprendermi la tunica, mettendola alla bell’è meglio. Rimango seduto sul bordo del letto, la testa fra le mani a tirare i capelli, incastrando le dita nei ricci. Una goccia di sudore mi scende per il collo e la asciugo con un gesto nervoso.
Mi passo una mano sul naso, gli occhi lucidi che fanno male, due orbite vuote su cui le palpebre si irrigidiscono. Cerco di calmare il respiro, ma non cambia il masso in mezzo al petto.
Spalanco gli occhi quando sento dei rumori dalle scale, dei leggeri passi in corsa. Vorrei alzarmi, andare via, ma rimango congelato sul posto, continuando a fissare la penombra fuori dalla stanza come se dovesse uscirvi un mostro.
Sembra un’allucinazione, il viso del padrone, il fiato pesante e la toga che cade disordinatamente su una spalla. Corruga la fronte e guarda la stanza, i grandi occhi castani che si poggiano su di me con fare interrogativo. Si tira su la spallina caduta in un gesto meccanico: “Cos’è successo?”.
Le mie spalle si inarcano mentre rido amaramente, scuotendo la testa. Vorrei rispondere qualcosa, ma non mi viene in mente niente. Vorrei fare finta che non sia successo nulla, forse se taccio non lo saprà mai. Ma ho una strana voglia, il desiderio di sbattergli tutto in faccia, un pensiero irrazionale che però si ingrandisce in pochi attimi, prendendo il controllo della mia testa.
 “Chiedilo a tuo cugino”. Una frase banale, sibilata a denti stretti, ma fatico a mettere una parola dietro l’altra in un filo coerente. Sbarra gli occhi, il bel viso una maschera di smarrimento per interminabili secondi.
Apre la bocca, ma la richiude senza parlare. Si passa una mano tra i capelli ordinati, le sfumature di cedro e castagno delle sue ciocche evidenziate dagli oli che le ungono, tenendole indietro a liberare la fronte pensierosa. Torna a guardarmi, incapace di decidere come agire.
Sorrido, un acido inarcamento delle labbra: “Vuoi il tuo turno?”. Spalanco le braccia: “Prego, padrone”.
Ormai non penso più, non mi interessa se è un comportamento ridicolo da parte di uno schiavo, se verrò punito per questo. Tanto non ho niente da perdere.
Mi tiro in piedi, avvicinandomi a rapidi passi. Non vedo bene, una patina sugli occhi mi confonde la vista: “Forza! Perché fai il gentile con me, eh? Io sono uno schiavo, tu il padrone, più facile di così si muore!”. Grido, il viso ora a pochi centimetri dal suo.
Continua a tenere il viso corrucciato, ma una strana durezza gli fossilizza i lineamenti, le iridi due pozze di pensieri che non riesco a leggere.
Lo guardo dall’alto della mia altezza, fregandomene di dovermi mostrare inferiore davanti al mio padrone, gli occhi stretti a due fessure gelide: “Cos’era che dovevi dirmi? Che vuoi vendermi a tuo cugino? O magari sono un regalo, dato via insieme a un paio di specchi e di fottuti dipinti!”.
Mi poggia una mano sul petto, allontanandomi un poco da sé: “Io ti avevo detto di non uscire”.
Per un attimo mi mancano le parole, la rabbia impedisce alla bocca di funzionare a dovere: “Ah…è…è colpa mia adesso? È colpa mia?”.
Mi accorgo della luce severa che ora gli illumina lo sguardo, dell’aria grave che aleggia intorno alla sua figura, ma non realizzo del tutto. “Che stupido sono stato…” mormoro, indietreggiando. “Un perfetto idiota”.
Mi giro, dandogli le spalle. Aspetto che se ne vada, che mi dica qualcosa, ma lui continua a rimanere lì, respirando piano.
“Fa qualcosa! Piantala di startene sempre a pensare per la miseria!”.
“Devi lasciare Roma”.
Torno a guardarlo, gli occhi sbarrati: “Come?”.
Il padrone non muta espressione, un leggero stringersi delle labbra  a indicarne la tensione. Il suo sguardo sembra guardarmi attraverso, una miriade di pensieri cupi che si alternano negli occhi intelligenti: “Un esercito di barbari ha distrutto le legioni del nord. Stanno arrivando”.  

  
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