Prima
Classificata
al Contest “Al di là del tempo che fu“, indetto da veronic90
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Nickname Efp: Snap95
Titolo: Victoria’s Gigolo – The Whorehouse Age –
Epoca:
Epoca Vittoriana
Rating:
Arancione
Avvertimenti:
One-Shot
Prompt
usati:
Luogo: Castello della Regina
Scena: Scandalo
Note:
La
Regina Vittoria e
Alberto di Sassonia non sono personaggi che mi appartengono, ma persone
realmente esistite, vissute nell’epoca in cui il racconto è ambientato.
Alcuni
luoghi (ad esempio Whitechapel) sono reali e tutt’ora esistenti, e nel
testo
sono presenti numerosi riferimenti storici corretti (ad esempio il modo
di
vestire, e altri accenni culturali). A differenza, tutti gli altri
personaggi,
fatti narrati e i luoghi rimanenti sono puramente di mia invenzione, e
appartengono solamente a me. In questo racconto ho voluto sottolineare
che
dietro alla superficialità dell’aristocrazia e i suoi sfarzi, era
presente un
assoluto stato di degradazione del popolo e, soprattutto, la
prostituzione,
considerata dagli storici una delle piaghe sociali di questi anni.
Ho lasciato
anche l’uso del
Voi. La forma di cortesia in Inghilterra non è mai esistita, anche se
le
traduzioni italiane di romanzi dell’epoca la adottano.
Victoria’s Gigolo –The Whorehouse Age-
#
Londra, Oggi, 4 Febbraio 1840
La
fine della mia vita.
Questo
è l’esatto istante in cui la mia esistenza sta cessando e il mio cuore
palpita
all’impazzata, isterico, cercando di trovare una via di fuga da questo
corpo
che sta divenendo la sua cella.
La
vista
mi si sta offuscando, nonostante io sia ancora completamente sano, e il
luogo
in cui mi trovo sta pian piano sbiadendo; quell’immenso salone dorato
non mi
sembra più così splendente come lo avevo definito al momento del mio
arrivo,
anche la sua enorme dimensione sembra essere d’un tratto rimpicciolita.
I
grandi lampadari d’argento dondolano sopra la mia testa, come scure
ombre
demoniache portatrici di morte.
Anche
le splendide cortigiane che riempiono la stanza, e i loro gentili
accompagnatori, non hanno più lo stesso intenso profumo; le loro
immense gonne
sono divenute come fiumi di sangue che si vogliono impossessare della
mia
anima.
Possibile
che tutto ciò sia causato dalla suggestione? Davvero la consapevolezza
di dover
morire può avere un simile effetto?
Ora la vista del Barone Schröder di Prussia mi fa scorrere nelle vene
un astio
senza precedenti: è grazie a lui se sono condannato a morte per alto
tradimento
e oltraggio a Sua Maestà la Regina.
Definirei
il mio comportamento omaggio
alla Regina, anziché oltraggio; le
ho
regalato le emozioni più intense di tutta la sua vita, che nessuno
sarebbe mai
più stato in grado di donarle
Il
mio
cuore ha preso a palpitare sempre più veloce e, mentre il mondo sembra
divenire
sempre meno interessante, la mia mente sta decidendo di rivivere
l’origine di
tutta questa storia.
Succede
sempre così: quando si è sul punto di morte, la vita scorre davanti
agli occhi
come un vecchio romanzo impolverato…
#
Londra, 4 Ottobre 1839
L’aria
era umida come ogni altro giorno
dell’anno in quella stramaledetta Londra, ma il vento era troppo freddo
per
essere una mattinata di primo autunno.
Le
strade erano ancora deserte e,
passandoci davanti, notai che la Drogheria era ancora serrata, quindi
dovevano
essere appena le cinque di mattina. Perdevo spesso la cognizione del
tempo
durante le lunghe nottate del mio lurido lavoro.
I
miei piedi si muovevano frenetici sul
marciapiede in ciottolato della sporca periferia, a Whitechapel, quando
notai
una pagina di giornale che svolazzava nei pressi di una bottega.
Lo
raggiunsi e lo afferrai con velocità
animalesca; era una prima pagina stropicciata e sporca di fango, che
probabilmente qualcuno si era lasciato sfuggire dal quotidiano
mattutino.
A
caratteri cubitali sorgeva un titolo che
era impossibile non leggere: “Nozze
Regali per la Regina Victoria.”
L’articolo
annunciava – con
il solito finto entusiasmo che veniva
imposto dalla legge –
le
nozze tra la giovanissima Regina e suo cugino, il principe Alberto di
Sassonia.
La
data era fissata per il dieci Febbraio
dell’anno successivo, giusto il tempo di organizzare i preparativi e
poi la
giovane fanciulla, oltre ad amministrate uno stato, si sarebbe trovata
incastrata con un marito.
Gettai
il foglio a terra con enorme
disprezzo e nascosi le mani nelle tasche dello sgualcito frac che avevo
comprato al mercato dell’usato, per qualche spicciolo.
Al
diavolo la Regina e tutti quegli
stramaledetti aristocratici che vivevano nel lusso più sfrenato, tra
brandy e
sigari, mentre noi poveri disgraziati eravamo ridotti al lastrico.
Quella
notte il lavoro era stato più
schifoso e lurido del solito, e il tempo sembrava non scorrere mai.
Fare
il gigolò a Whitechapel non era proprio un granché.
Gigolò era
anche troppo sofisticata come parola, non
rendeva bene l’idea di quanto squallido fosse ciò che facevo; passavo
le serate
in bordelli – vecchie fabbricati, ora usati per la prostituzione – a
dare via
il mio corpo a vecchie signore vogliose.
Ma il peggio
arrivava quando vedevo entrare dalle porte
degli uomini che volevano fare sesso con me: le offerte che lanciavano
erano
troppo alte per poter essere rifiutate, così chiudevo gli occhi e
gettavo via
tutta la dignità che mi rimaneva, vendendo il mio corpo a degli
omosessuali
troppo codardi per ammettere di esserlo.
Tutto ciò
era ormai la mia routine, non mi faceva più
alcun effetto; solo alcune volte, prima di addormentarmi, chiudevo gli
occhi e
lasciavo che le lacrime scendessero giù come fiumi di solitudine, e mi
dicevo
che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Sapevo che
nulla sarebbe cambiato, che la mia vita ormai
era destinata ad essere lurida e che avrei sempre lottato come un
disperato per
accaparrarmi una pagnotta secca.
Lasciai che
i miei piedi mi portassero nel posto di cui
già sapevo l’identità e indossai la maschera di indifferenza che mi ero
costruito con tanto rigore.
Aprii la
porta cigolante e lasciai che il puzzo stantio
mi entrasse fin dentro ai polmoni.
– Benjamin, brutto
figlia di buona donna, dove ti eri cacciato?!
Non appena
udii il mio nome, mi voltai: Maxwell, il
proprietario di quel bordello, nonché trafficante di prostitute, mi
stava
chiamando, cercando di attirare la mia attenzione con gesti esagerati.
Mi avvicinai
a lui, senza lasciar trapelare alcuna
emozione.
– Ti sta
cercando quel tizio… – si soffermò gesticolando,
evidentemente in cerca del nome della persona in questione – Quello con
la
grana che ha un debole per te!
Si stava
riferendo a Paul, un uomo di mezza età che
chiedeva sempre e solo di me; mi pagava anche relativamente bene, anche
se più
della metà del mio guadagno andava a Maxwell.
– Sì, ho
capito di chi si tratta. – dissi solamente.
– Bene!
Ah-ah! – esclamò, tirandomi una pacca sul sedere
– E adesso vai da lui e mostragli cosa sei capace di prendere dentro a
quel tuo
culetto sodo.
Cercai di
mantenere un’espressione apatica, nonostante il
mio animo si stesse già contorcendo per quello che avrebbe dovuto
sopportare di
lì a poco. Gli invertiti erano i clienti che odiavo di più al mondo;
pagavano
bene, certo, ma era insopportabile farsi sodomizzare.
Forse ero
troppo etero per poter sopportare tutto quello
ancora per molto. Ma qual era la mia alternativa?
I pavimenti
del bordello erano lerci come un letamaio e
la polvere era diventata ormai una decorazione immancabile. I corridoi
erano
stracolmi di giovani donzelle in attesa di clienti o di essere
accettate da
qualche gigolò.
Passai
davanti ad una giovane donna e notai che il suo
vestito rosso, tutto sbiadito, una volta doveva esser stato
incantevolmente
elegante; ora, sopra ad un corpo visibilmente denutrito e maltrattato,
era
divenuto squallido come il resto del posto.
Ed eccola
lì, la porta della stanza in cui ero solito
eseguire i miei sporchi incarichi. Presi un grosso respiro e
oltrepassai la
soglia.
Paul se ne
stava seduto sullo sporco materasso, con
l’aria più ingenua del mondo e gli occhi di un piccolo cucciolo
smarrito; era
evidentemente una persona deviata e molta sola, per questo a volte mi
faceva
persino tenerezza.
– Ciao Ben,
ti stavo aspettando.
Sospirai,
ormai rassegnato al destino che avevo in serbo
e cercai di far uscire un sorriso quantomeno decente.
– Allora, la
mia tariffa è sempre la stessa, di quanto
tempo hai bisogno?
Lui incrociò
le gambe, con un movimento tipicamente
femminile – Mezz’ora?
– Andata.
Così dicendo
presi a levarmi i pantaloni, il frac e la
camicia impregnata di sudore e sporcizia.
Notai che
Paul stava facendo la stessa cosa, solo con una
grazia degna della Vergine Maria.
La stanza si
invase dell’odore del tipico maschio eccitato,
ciò stava a significare che Paul era già più che pronto per il
servizio; per
quanto riguardava me, puzzavo solo di sporco.
Nello stesso
istante in cui il mio cliente si stava
avvicinando a me, con il viso di chi sa che sta per ottenere ciò che
vuole, la
porta della camera si spalancò.
Ciò che
apparve di fronte cambiò per sempre – e in modo
assolutamente profondo – il resto della mia vita.
Due guardie
fecero il loro ingresso placcando Paul e
tenendolo fermo, nonostante egli cercasse in tutti i modi di liberarsi,
implorando pietà.
Il mio cuore
ebbe un sussulto e per un attimo temetti che
avesse smesso di battere, ormai stanco di quanto lo avevo già
maltratto.
La polizia
era penetrata nel bordello e, molto
probabilmente, aveva già arrestato la metà dei poveracci che ci
lavoravano, per
non parlare di Maxwell, che avrebbe avuto più grane di tutti.
Ma i miei
pensieri era proiettati su un unico,
tormentante quesito: sarei andato in galera?
Si
raccontavano macabre storie sui carceri dei sobborghi
di Londra; un giorno una delle lavandaie che stavano tra la Camperdown
Street e
la Buckle, a Whitechapel, mi aveva raccontato di un vecchio lurido –
con
l’abitudine di farsi i ragazzini – che era stato arrestato e portato in
una
gattabuia, dove era rimasto per intere settimane, fino a che non gli
avevano
tagliato la testa.
Dannati
francesi rivoluzionari e dannata la loro
ghigliottina!
La mia vita
faceva schifo, sì, ma non avevo ancora la
fottutissima voglia di finire nell’altro mondo, ammesso che ci fosse.
Prima che
potessi anche solo formulare un altro pensiero,
una delle due guardie mi sferzò un pugno dritto sul naso; il dolore fu
così
forte che il mondo prese a sbiadire, mentre l’unica cosa che mi era
chiara era
il gusto metallico del sangue che mi scivolava sulle labbra.
Poi più
nulla.
Londra,
Ieri, 14 Ottobre 1839
Il puzzo
incredibile ormai era diventato un odore
familiare, un qualcosa che non mi dava nemmeno più fastidio. Distesi le
braccia
e stirai le gambe, cercando di sgranchirmi e di non fare arrugginire
troppo le
ossa.
I miei piedi
erano diventati completamente neri, lerci a
causa dell’acqua e del fango presenti su tutto il pavimento in pietra.
Dov’ero
finito?
In carcere,
ovviamente.
Ormai avevo
perso la cognizione del tempo, ma dovevano
essere passati almeno un paio di giorni, se non di più. Mi sembravano
mesi,
anzi, anni.
Mi ero
svegliato direttamente dentro quella sudicia
cella, dopo essere svenuto, con il naso gonfio e il sangue incrostato
sul viso.
La routine era sempre la stessa: ad una certa ora – a me ignota – mi
portavano
un piatto di brodaglia indefinita, un pezzo di pane secco e vecchio ed
infine
una scodella di acqua.
Mi
trattavano proprio come l’ultimo scarto umano, la
feccia ingombrante di Londra, una delle tante formiche che facevano
parte di
quella parte di popolazione – se così si poteva dire – consumata dai
vizi,
dall’oblio e dalla vergogna.
La fetta di
Londra che la Regina Victoria stava cercando
di cancellare con tutta sé stessa.
Mentre i
miei pensieri vagheggiavano sulle possibilità di
fuggire da quell’incubo, le sbarre vennero aperte ed emisero dei
cigolii
insopportabili; lo stesso uomo che ogni giorno mi sbatteva in faccia
quell’orrendo pasto che osavano chiamare cibo mi stava ora di fronte.
Ero libero?
Non dovevo farmi troppe illusioni, forse mi
stavano portando alla forca.
– Alzati.
Veloce.
Feci come
diceva senza neanche provare minimamente a
contestare. Le mie gambe si erano intorpidite, era troppo tempo che non
facevo
una passeggiata.
Non cercai
nemmeno di domandare dove stessimo andando,
avevo il terrore di scoprire la risposta. La guardia mi diede una
spinta sulla
schiena facendomi incespicare, ma per fortuna riuscii a tenermi in
piedi.
– Voltati.
In mano
teneva un bastone ed un lungo foulard nero, uno
di quelli che spesso i miei clienti mi chiedevano di usare per dei
giochi
erotici piccanti, ma ero sicuro che l’utilità non era la medesima.
– Che cosa…
– non riuscii a finire la frase che la
guardia mi assestò una bastonata nell’incavo delle ginocchia; le mie
gambe
cedettero e io caddi a terra, piegato in due dal dolore.
– Non voglio
sentire la tua lurida voce corrotta da
Satana, verme schifoso.
Trattenni a
stento le lacrime, ricacciandole dentro agli
occhi. Per quanto la mia condizione fosse misera, mantenevo ancora un
minimo di
dignità, nel profondo del mio cuore.
A volte mi
chiedevo che diavolo avessi fatto di male per
meritarmi una vita come quella, ma la maggior parte delle volte ero
troppo
incasinato a salvarmi il culo per pormi certe domande esistenziali.
Mi bendò gli
occhi e non opposi resistenza, ormai sfinito
e senza speranze. Non avevo più neanche la minima voglia di sapere se
stessi
per morire, era troppo anche per me.
Avevo
superato notti di gelido inverno nascosto sotto a
tetti in legno marcito, vecchie donne e finti uomini eterosessuali che
volevano
il mio corpo; avevo sopportato la fame, la sete e la solitudine.
Ma come
potevo affrontare la morte?
Sentii che
mi avevano ammanettato e ora mi stavano
trascinando a forza, in un posto di cui non conoscevo l’identità. Fino
a quanto
può sprofondare l’animo umano?
Ora stavo
incespicando, cercando di tenermi in piedi, su
delle scale che non vedevo, poiché la mia vista era oscurata dalla
benda nera.
– Ora devi
tenere la bocca chiusa, mi hai capito? –
sibilò la voce della guardia.
Udii dei
forti rumori, come se dei grossi portoni si
stessero aprendo. Era assolutamente frustrante non poter vedere ciò che
stava
accadendo intorno a me.
Una nuova
spinta. Questa volta caddi a terra
rovinosamente, sbucciandomi un ginocchio.
Notai che il
terreno non era in pietra fredda come la
prigione, ma bensì era un pavimento liscio come non ne avevo mai
toccati in
tutta la mia vita.
Qualcuno
prese ad armeggiare con la fascia che mi copriva
gli occhi, fino a togliermela del tutto.
Ciò che vidi
mi sconvolse, nel vero senso della parola.
Mi trovavo
in una stanza immensa e lussureggiante; i
pavimenti non solo erano lisci, ma in oro così splendente da essere
incredibile. Tutte le pareti erano accuratamente decorate e sul
soffitto si
espandeva un maestoso affresco pittoresco.
Tutta la
stanza era pervasa da un fresco odore
primaverile e l’aria era dannatamente pura, se messa in confronto al
puzzo del
bordello o della prigione.
Quando volsi
la testa davanti a me, mi trovai di fronte
ad un immenso trono placcato in oro massiccio, su cui sedeva una donna
estremamente regale e severa. Capii dove mi trovavo.
Buckingham
Palace.
E quella
seduta sul trono era la Regina Victoria in
persona.
Sua Maestà
la Regina di Inghilterra aveva una presenza
assolutamente forte, ti metteva in soggezione come nessun altro
–soprattutto se
quest’altro indossava, come me, degli abiti squallidi.
La gente a
Whitechapel la descriveva come una brutta
strega puritana che castigava noi peccatori, solamente perché era
invidiosa
della nostra bellezza, cosa che lei non possedeva; ma ora che mi
trovavo di
fronte a lei, potevo constatare che non era brutta. Certo, non era la
donna più
bella che avessi mai visto, e aveva dei difetti – come ad esempio un
naso un
po’ troppo sporgente – ma il suo portamento cancellava ogni
imperfezione,
rendendola la donna più incantevole di tutta Inghilterra.
Indossava un
ampio abito color verde smeraldo, che si
apriva coprendo gran parte del trono; l’evidente scollatura valorizzava
un seno
prosperoso e un collo da cigno.
I capelli
scuri erano raccolti accuratamente sopra la
testa e alle orecchie portava due splendidi orecchini in smeraldo.
In
quell’istante mi sentii ancora più squallido, sudicio
e inutile: un vero parassita della società.
– E così voi
dovete essere Sir Benjamin Fisher.
La sua voce
tuonò come un fulmine in una notte
silenziosa: non avevo mai sentito una tonalità vocale così solenne.
Tutto ciò la
rendeva ancora più affascinante.
–
Rispondile, idiota! – sussurrò la guardia, tirandomi un
calcio.
– I-io… –
presi a balbettare cercando di mettere insieme
delle parole – Sì, Maestà. Sono io.
La donna
prese a battere le mani sui braccioli del trono
regale, cosa che mi fece salire ulteriormente l’ansia.
– Uhm. So
che sei stato arrestato. Saresti così gentile
da esplicarmi il motivo?
Quella sua
falsa gentilezza era così inquietante, da
renderle il viso simile ad una bambola di porcellana: splendida,
intoccabile;
l’unica differenza che tra le due era che la Regina era
indistruttibile.
Cercai di
rimettermi composto e trovare le parole giuste
per dire ciò che era il mio mestiere.
– Vendo il
mio corpo. A persone di ogni sesso e ogni età.
Certo, non
ero stato proprio cauto nel parlare, anzi,
avevo usato termini forti e incisivi; come al solito avevo sbagliato
tutto.
Ma divagare
non sarebbe servito niente, non c’erano modi
carini per spiegare alla Regina d’Inghilterra che fossi un gigolò.
La Regina si
alzò dal trono e, con aria maestosa, prese a
scendere i piccoli gradini che la separavano da me. I suoi piccoli
piedi si
muovevano graziosamente ed era visibilmente limitata a causa
dell’enorme
vestito.
Prese a
girarmi intorno e il mio fiato si smorzò come una
fiammella che viene spenta da un soffio; non riuscivo a respirare, a
capire
come una donna poteva avere una simile autorità.
Era più
potente di un tuono, di un vulcano, di una
splendida fiammata estiva.
– Hai
gettato via il tuo essere, la tua dignità. Hai
dimenticato Dio, ma lui non si è dimenticato di te. Di grazia, io ti
lascerò
vivere, perché tu possa purificare la tua anima.
Il mio cuore
prese a palpitare ad una velocità
spropositata, come se stesse cercando di raggiungere un treno; quel
treno che
tante volte si era lasciato sfuggire, rimanendo sotto a guardare.
Non dovevo
più restare sulla panchina guardando le
rotaie: dovevo vivere.
Mi tirai su
da terra, e presi a camminare, senza dare le
spalle alla Regina, per uscire da quel dannatissimo castello pieno di
sfarzo ed
ipocrisia.
– Io credo
che tu abbia frainteso. Non sei libero di
tornare alla tua vita di vizi. D’ora in poi sarai il mio sguattero.
Le parole
arrivarono così secche che dovetti sbattere le
palpebre un paio di volte prima di rendermi conto del significato della
frase
che la Regina aveva pronunciato.
Quello fu
l’inizio della mia rovina.
Londra,
Ieri, 16 Novembre 1839
Le mie
ginocchia era scorticate e sbucciate a forze di
subire tutto il peso in loro appoggio, e i talloni erano pieni di
vesciche. I
pavimenti del lindo Buckingham Palace erano luccicanti grazie al
sottoscritto,
che si stava ammazzando di lavoro dal giorno in cui la Regina Victoria
aveva
emesso la sua sentenza. Cominciavo ad apprezzare l’alternativa della
forca.
– Ben! –
vidi sgusciare da una delle grandi porte
placcate in oro Melinda, un’anziana serva cicciottella, responsabile di
tutti
gli inservienti; Lady Melinda mi aveva accudito e insegnato il lavoro
che
dovevo fare, mettendomi in guardia sui pericoli, le persone e i luoghi
da
evitare. Si era comportata da splendida guida e mi aveva anche
consolato nelle
notti più buie, quando tutto sembrava crollarmi addosso.
Mi alzai dal
pavimento, dolendo per il male alle gambe, e
mi asciugai il sudore dalla fronte.
La signora
mi venne incontro saltellando in un modo che
mi fece pensare che le avessero appena dato una buona novella.
– Benjamin!
– pronunciò nuovamente il mio nome,
sorridendo – Benjamin, mio caro! Devi muoverti, su, su! Via tutti
questi secchi
sporchi, va’ a portarli in cucinotto!
Cercai di
comprendere cosa Melinda stesse dicendo, ma
ogni singola parola mi sembrava un piccolo arcano da risolvere. Cosa
diavolo
era tutta quella fretta?
– Lady
Melinda, a cosa è dovuta tutta questa fretta?
Mi fece un
impaziente cenno con la mano, invitandomi a
seguirla, per poi prendere a sgambettare come un grasso e goffo insetto
con le
gambe sproporzionate rispetto al corpo.
Ormai
conscio del fatto che non mi avrebbe spiegato nulla
se non l’avessi seguita, raccattai i miei attrezzi da lavoro e la
raggiunsi
facendo cadere un poco d’acqua dal secchio.
Prese a
districarsi tra gli immensi corridoi del palazzo,
che lo rendevano simile ad uno di quei labirinti che si leggevano nei
racconti
di paura.
Era strambo
vedere Melinda così ansiosa, di solito non si
lasciava mai prendere dall’enfasi, anche quando, dopo che tutte le luci
dell’edificio si spegnevano, noi servitori ci lasciavamo andare ai
piaceri
della carne; probabilmente quell’affare doveva essere davvero molto
importante.
Ci fermammo
esattamente all’inizio delle grosse scale in
oro laccato che portavano nelle stanze da letto regali, dove noi
schiavi non
potevamo inoltrarci, se non sotto specifica richiesta della Regina.
– Che ci
facciamo qua, Melinda? Se quella strega di Mrs.
Catherine vede che non siamo al lavoro, potrebbe farci torturare!
L’ansia
iniziò ad impadronirsi del mio corpo: ero già
stato torturato una volta da quando mi trovavo a palazzo e non era
stato per
niente piacevole.
– Sssht! –
farfugliò Melinda, portandosi un dito sulle
labbra.
Poi vidi
scendere dalle scale una giovane e graziosa
fanciulla; portava i capelli legati in una crocchia e indossava la
tipica
divisa da cameriera: doveva far parte della servitù “Alta” (come la
definivamo
noi sguatteri), ovvero quella parte di camerieri che lavoravano
direttamente
sotto ordine della Regina stessa.
Era una
bella giovane, sicuramente pura e casta, dato che
era cresciuta sotto le severe regole di sua Maestà Victoria, famosa per
le sue
restrizioni a livello sessuale.
Si posizionò
davanti a noi – Siete Voi Mrs. Melinda?
– Sì. –
rispose prontamente la mia amica.
Dovevo
essermi perso qualcosa di importante; perché Mel
non me ne aveva parlato? Adesso apparivo spiazzato e confuso, cosa che
non
aiutava la mia già malridotta dignità.
– Voi dovete
essere Sir Benjamin…
Come faceva
a conoscere il mio nome?
– La Regina
ha chiesto esplicitamente di Voi, vi vuole
nei suoi alloggi. – riprese a parlare, spiegando il motivo di quello
strano
incontro.
E così la
Regina mi voleva con lei, per quale ignoto
motivo? Forse aveva bisogno di un bravo servo per prepararle la tisana
delle
cinque, o ancor meglio per darle dei consigli riguardanti
l’abbigliamento;
tutto ciò aveva senso se il diretto interessato non fossi stato io.
Perché
voleva me?
Ero soltanto
un fuorilegge che era finito in carcere e
aveva approfittato della generosità di Sua Grazia la Regina; non ero un
esperto
in abiti o in che cos’altro.
– Seguitemi.
Prima di portarvi da Sua Maestà dovrò farvi
fare una sosta nei bagni. –i suoi occhi i squadrarono con fare
accusatorio –
Dovrete darvi una bella lavata, siete improponibile.
Non mi ero
mai sentito così inadeguato e imbarazzato in
tutta la mia vita; avevo perso il conto dei giorni che mi distanziavano
dall’ultima volta che avevo usato un poco di sapone.
La cameriera
si voltò e prese a salire le scale con fare
frettoloso e organizzato. Chissà cosa voleva la Regina da me.
L’avrei
scoperto molto presto.
La cameriera
si fermò davanti ad una grande porta in
legno massiccio; la serratura era in incantevole ottone, metallo che
avevo
sempre amato.
Mi girai
verso la fanciulla con aria interrogativa e
ansiosa, in tutta risposta lei mi annuì.
Ero dinanzi
alla stanza da letto della Regina Victoria in
persona, che mi desiderava; era cambiato così tanto nella mia vita in
così poco
tempo, che ancora stentavo a credere alla realtà.
Bussai alla
porta, come uno sciocco, un perfetto idiota
che non sa come comportarsi in certe situazione, abituato al degrado
sociale.
– Entrate. –
proferì la voce imperiosa della Regina,
dall’interno della stanza.
Cercai di
farmi coraggio, dicendomi che avevo superato
notti al gelo invernale e sudici uomini che penetravano il mio corpo e
non
potevo non affrontare una donna, per quanto ella potesse essere potente
e degna
di timore.
Aprii la
pesante maniglia e entrai con lentezza
nell’enorme sala: il soffitto era completamente decorato con splendidi
affreschi notturni, che rappresentavano miti greci e leggende storiche;
le
pareti erano interamente in splendida moquette color verde scuro, e
donavano
alla stanza un’aria assolutamente elegante e accogliente. Anche il
letto a
baldacchino, che troneggiava al centro della stanza, aveva un aspetto
comodo e
caldo, come non ne avevo mai visto prima: avrei tanto voluto potermi
coricare e
addormentarmi su quello splendido materasso.
Sua Maestà
mi dava le spalle, intenta a scrutare il
paesaggio dalla finestra; potevo notare che indossava uno splendido
abito color
mogano, che si apriva in una grande campana, rendendola estremamente
elegante e
femminile.
I suoi
capelli erano legati in un’acconciatura
complicata, che probabilmente richiedeva ore di tempo.
– Mi avete
chiamato, Mia Signora? – chiesi, trattenendo
il balbettio che spingeva per fuoriuscire.
La donna si
girò finalmente verso di me, rendendomi
possibile vedere il suo viso severo ed esageratamente truccato. Ancora
una
volta mi accorsi che non era bella, ma affascinante.
Prese a
girarmi intorno come un leone fa con le sue
prede, con fare scrutatore e felino che non mi rendeva facile
rilassarmi.
Quella signora mi metteva inquietudine.
– Sì, vi ho
chiamato. – sibilò ora, come un serpente in
posizione di attacco.
– Posso
sapere per quale motivo? – domandai, sempre più
impaurito; come si
poteva non tremare di fronte alla manifestazione
di tale potenza e regalità?
– Sono venuta
a
conoscenza del fatto che eravate uno dei puttani
più richiesti, a Whitechapel. – disse quasi
sputando la parola “puttano”, che non sembrava neanche rientrare in un
vocabolario.
Dove voleva
arrivare?
– Non è così,
Sir
Benjamin Fisher? – disse
stringendo i
denti, per poi abbandonarsi ad una sincera risata.
I brividi mi
corsero
sulla schiena, rendendomi impossibile prendere coscienza della
situazione.
Stava giocando con la sua preda?
– Sì, avevo i
miei
clienti abituali. E non si sono mai lamentati delle mie prestazioni. – ammisi,
quasi arrossendo per la vergogna di ciò che
avevo sempre fatto.
Ma la Regina
non
sembrava sconvolta o indignata, anzi, sul suo viso severo apparve un
sorriso
compiaciuto, come se fosse ciò che voleva sentirsi dire.
Sentii il
suo corpo
arrivare dietro al mio e il suo addome appiccicarsi alla mia schiena,
così
vicino che riuscivo a sentire il suo seno spingere sulla mia pelle.
Ora, i miei
pensieri
erano sempre più confusi, e la vicinanza con un corpo snello e
desiderabile
come quello della Regina, mi rendeva impossibile pensare razionalmente.
Quali
diavolo erano
le sue intenzioni?
Con uno
scatto
felino mi girò verso di lei e premette le sue morbide labbra sulle mie,
togliendomi il fiato.
All’inizio
non
risposi al bacio, poiché troppo sconvolto da ciò che era appena
accaduto; ma
poi mi accorsi che Sua Maestà mi stava accarezzando tutto il corpo, con
movimenti dolci e nello stesso tempo pieni di passione. Risvegliò i
miei
desideri, repressi ormai da quando avevo iniziato a prostituirmi.
Insinuai la
lingua
nella sua bocca, che si aprì a me come se fosse l’unica cosa per cui
era stata
generata; presi ad esplorare ogni centimetro di quello spazio, fino a
che non
rimase neanche un posto in cui non ero stato.
Sentii che
con le
mani, la Regina, aveva preso a sbottonarmi la squallida camicia da
servo, con
una frenesia degna di una donna lussuriosa, non della nobile signora
che avevo
conosciuto.
Mi resi
conto che
quella governatrice che aveva sempre posto restrizioni nel campo
sessuale, ora
stava esplodendo di passione per il sottoscritto, riducendo così tutte
le sue
leggi in un semplice cumulo di polvere.
Sentii il
suo
affannato respiro sulla mia spalla, mentre con maestria affondava una
mano nei
miei pantaloni, facendomi sfuggire un gemito di piacere quando sfiorò
il mio
membro.
– Avevo voglia
di
farlo da quando ti sei presentato, ammanettato e sudato, nel mio
palazzo. – ansimò
sulla mia pelle, strappandomi un gemito erotico.
Appoggiai le
mani
sul suo sedere sodo, e la sollevai mettendomela a cavalcioni; la posai
sul
letto senza tener cura della grazia, che aveva lasciato posto
all’istinto
animalesco.
Non potevo
più
aspettare: dovevo avere la Regina Victoria, o sarei impazzito.
Anche se mi
sembrava
di essere già completamente pazzo; forse mi sarei svegliato nello
scantinato
dei servi e mi sarei reso conto che era stato tutto un appassionato
sogno.
Accantonai
quei
fastidiosi pensieri, abbandonandomi all’oblio del sesso.
Londra,
Ieri, 3
Febbraio 1940
Mi misi a
sedere sul letto con fare sicuro, e presi ad
abbottonarmi le maniche della sudicia camicia da inserviente. Tra pochi
minuti
sarebbe iniziato il mio servizio e se non mi fossi presentato, Lady
Melinda mi
avrebbe assicurato un trattamento a base di scopa sugli stinchi.
Sentii le
coperte muoversi sotto di me e il letto
cigolare; pochi attimi dopo una mano mi stava accarezzando la schiena,
facendomi sfuggire un sorriso di piacevolezza.
– Te ne vai
già, mio
caro?
La voce
della Regina Victoria era desiderosa e sensuale,
come se quel giorno non il sesso non fosse mai abbastanza.
Ormai erano
mesi che mi insinuavo quotidianamente nel
letto di Sua Maestà, che non sembrava mai stancarsi di me. In tutto
questo
tempo avevo scoperto che era sì una donna severa, ma anche
un’eccellente amante
e una donna piacevole; probabilmente erano in pochi ad aver conosciuto
questo
suo lato del carattere; non osavo domandarglielo: dopotutto era sempre
la mia
sovrana, eseguivo solo i suoi voleri.
Ma il sesso
con Victoria era paradisiaco; riusciva a
farmi raggiungere l’orgasmo come nessun’altra donna era mai riuscita e,
nonostante fosse chiaro il fatto che mi usava per il suo puro piacere,
la cosa
non mi dispiaceva affatto.
– Devo
presentarmi per il servizio, mia Regina.
La vidi
sogghignare – Sono io che decido. Se non ti
presentassi al servizio perché l’ho deciso io, nessuno potrebbe
proferire
parola, altrimenti gli farei tagliare la gola.
Avevo capito
ormai da tempo che la Regina era
estremamente consapevole della sua potenza, tant’è che si trovava
spesso ad
abusare della sua autorità.
I suoi
curati ricci erano slegati e le cadevano sulle
spalle come mille splendide onde scure.
Con il tempo
il mio legame con lei si era rafforzato e
avevo imparato a conoscerla e a rispettarla per la donna autoritaria
che era;
ma avevo anche scoperto la sua bellezza.
Perché
Victoria era bella, ma come quelle donne che si
notano al primo impatto. Era una di quelle che tengono il loro fascino
nascosto
come un piccolo fiore, che quando sboccia è il più splendido di tutti.
– Oggi ho un
incontro ufficiale con Sir Alberto. – mi
sussurrò mentre si strusciava su di me come un piccolo gatto in calore.
Alberto di
Sassonia era il promesso sposo della Regina e
si sarebbero uniti in matrimonio il seguente 10 febbraio, ma questo non
era un
intralcio per noi; se avessimo continuato a fare le cose con
discrezione e
sotto segreto, nessuno lo avrebbe mai scoperto, e noi due avremmo
potuto
beneficiare della rispettiva compagnia.
Mi
abbandonai alle dolci carezze della Regina, che stava
toccando le parti del mio corpo che erano più sensibili alla sua pelle.
Accantonai
l’idea di andarmene e di oppormi alla volontà
di Victoria e lasciai andare all’indietro la testa, sulla spalla della
donna,
scosso dal piacere.
Con mani
esperte, Sua Maestà prese a svestirmi nuovamente
e mi fece sdraiare sul letto, sotto di lei. Ormai non avevo più alcuna
intenzione
di uscire dalla stanza.
Nessuna
donna era mai riuscita a farmi arrivare all’apice
del piacere.
Nessuna
donna tranne Victoria.
Era capace
di farmi letteralmente impazzire dalla
soddisfazione e io continuavo a chiedermi quale fosse il suo segreto e
come
facesse ad essere così abile nell’arte del sesso.
Mentre si
posizionava sopra di me, potei ammirare il suo
splendido corpo; aveva una pelle candida che mi ricordava la neve
invernale,
dolce e morbida.
Nello stesso
istante in cui sentii che mi stava prendendo
dentro di sé, la porta della camera venne spalancata.
Mi sembrò
quasi che il mio cuore smise di battere, a
causa dello spavento; non riuscivo a controllare il respiro, e lo
stupore di
essere stato interrotto nell’atto di fare sesso con la Regina era
impareggiabile.
Victoria si
coprì con il lenzuolo latteo e cercò di darsi
una parvenza di decenza; sul suo viso potevo vedere l’espressione che
mai avrei
pensato di osservare: il terrore.
La potente
Regina Victoria di Inghilterra era
terrorizzata.
E la causa
della sua paura era un piccolo uomo che se ne
stava sulla soglia della porta con una maschera di sgomento in volto.
Chiunque
fosse quell’ometto, doveva essere sicuramente qualcuno di importante,
perché
Sua Maestà si vergognava di essere stata colta sul fatto da lui, mentre
quando
era accaduto con la cameriera le aveva solo intimato di tacere, se
avesse
voluto conservare la sua testa.
– Questa è
la vostra fine, Mia Regina. – sussurrò l’uomo,
sfoderando un ghigno soddisfatto.
Non doveva
essere un sostenitore di Sua Maestà.
Guardai
ancora il viso di quell’uomo e mi resi conto che
dietro all’armatura di galanteria e nobiltà si nascondeva la cattiveria
in
persona.
Quello era
un essere maligno, lo si poteva notare dai
suoi occhi, colmi di perfidia.
In quel
preciso istante mi resi conto che avevo appena
segnato la fine della mia vita.
# Londra,
Oggi, 4 Febbraio 1840
Scuoto
la mia mente e scaccio via quei brutti ricordi, rendendomi conto che
ormai non
ha più senso rimuginare nel passato.
La
fine è prossima e io devo affrontarla.
Davanti
a me sta il Barone Schrőder di Prussia, ossia l’uomo che ha colto sul
fatto la
Regina Victoria e il sottoscritto; dopo quel pomeriggio in camera da
letto,
come previsto, il Barone ci ha reso la vita un inferno, minacciandoci
al resto
del Consiglio.
Hanno
deciso che Sua Maestà deve continuare a regnare, e che l’accaduto debba
essere
seppellito nella terra, così che nessuno possa mai venirlo a scoprire;
soprattutto il promesso sposo della Regina, Alberto di Sassonia, che
deve
credere che Sua Maestà sia vergine.
Quale
scandalo avverrebbe se si scoprisse che Victoria d’Inghilterra andava a
letto
con un servo, per lo più che si prostituiva.
Chissà
come sarà la morte. Dolorosa?
Spero
di no, in fondo ho già sofferto abbastanza durante la vita; se dovessi
andare
all’Inferno, mi rallegro dal fatto che sono abituato all’essere
maltrattato:
non dovrebbe essere un gran trauma.
Giusto,
quasi dimenticavo: la Corte ha deciso che io devo essere giustiziato,
in modo
da essere certi che non andrò mai a spifferare questa brutta vicenda a
qualcuno.
Noi
poveri popolani ci rimettiamo sempre e comunque, è la triste verità
della vita.
Chissà
se le cose prima o poi cambieranno. Suppongo di no.
Non
sento più nulla, ho smesso anche di reagire nei confronti della paura;
nulla mi
tocca.
Che
strana cosa, mi stanno per giustiziare davanti ad alcuni eletti che
sono
consapevoli del fatto; non sarà un processo da piazza, ma mi
taglieranno la
testa qui a Buckingham Palace.
Almeno
morirò nel lusso.
Mi
lascio afferrare dal boia. Ho smesso di porre resistenza il giorno
prima,
quando mi hanno tolto le unghie dei piedi con le pinze.
Vedo
ma non vedo; ogni cosa è opaca e insipida, e mi rendo conto di quanto
sia falsa
la vita di corte, di quanto siano finti tutti quei nobili impacchettati
nei loro
bei vestiti.
Sono
ridicoli.
Sono
vuoti.
Mi
mettono in ginocchio e mi appoggiano la testa sopra ad un grosso rialzo
in
legno marcio, come quelli che si usavano nel Medioevo.
Devo
essere proprio un verme viscido per loro, mi dico mentre chiudo gli
occhi.
La
mia mente mi riporta all’immagine della giovane figlia di Anja, una
prostituta,
che veniva spesso al bordello ad attendere che la madre finisse il suo
squallido mestiere; quella dolce bambina dai capelli ambrati intonava
spesso
una malinconica canzone, probabilmente nella sua lingua d’origine, il
russo.
Ora, quella melodia rimbomba nella mia mente come l’accompagnamento del
finale
della mia vita.
Come
un libro da quattro soldi, che verrà comprato dai popolani al mercatino
delle
pulci, se mai dovessero saper leggere.
È
questo ciò a cui penso, quando vedo l’accetta abbassarsi sulla mia
testa.
È
arrivata l’ora, è la mia fine.
Non
era così che avevo immaginato la mia morte.
Fine