Solo
un grazie, un grazie a chi recensisce, segue o anche solo legge
le mie storie. Mi fate sentire fiera di quello che faccio.
Questa l’ho scritta oggi, e ho voluto pubblicarla
perché per me significa
molto. C’è una vena romantica, certo, ma per di
più ho voluto esplorare un po’
il rapporto fra Sherlock e Mycroft in due momenti particolari delle
loro vite.
Perdonatemi se potranno risultare leggermente OOC, ma ai fini della
storia mi occorrevano così. Perdono davvero!
La bambina potreste averla già incontrata in una mia
precedente storia, per la prima parte ho approfondito un episodio
menzionato proprio in quella fiction, quindi se la ricordate,
è per quello!
Sperando di non aver fatto troppo male ora fuggo, buona lettura!
S.
Dear
Little Brother
*
Quando
Sherlock aveva otto anni, non esisteva bambino più
innamorato
di qualcuno come lui lo era di Joanne. Si vergognava terribilmente di
quella
realtà, lui che prima di incontrare anche per un secondo gli
occhi di quella
bambina aveva amato solo il suo violino, o i centinaia di racconti di
pirati
che aveva orgogliosamente collezionato nella sua libreria. Oltretutto
Mycroft,
da quando lo aveva scoperto, non faceva che fargliela pesare ogni
giorno di
più, prendendolo continuamente in giro, esibendosi in un
trionfo di
imbarazzanti moine ogni volta che Sherlock tentava un approccio con
Joanne, e
costringendolo ogni volta a rinunciare, con il volto rosso di vergogna
e rabbia
verso il fratello maggiore.
Aveva atteso il giorno della foto di classe con ansia, pregustando il
poterla
vedere ogni giorno, anche se solo in fotografia. E quella foto, era
diventata
come sacra, per lui.
Quando pensava di non essere visto, anche se la mamma era nascosta
dietro la
porta con il cuore pieno di dolcezza, sfiorava il volto della bambina
con il
dito, come sognando di poterla sfiorare per davvero, sulla pelle liscia
delle
guance. E quando si sentiva particolarmente ispirato sognava di
baciarla, su
quella stessa guancia, arrossendo poi furiosamente e affondando la
testa nelle
braccia come se fosse un pensiero assolutamente disdicevole per un
bambino
della sua età.
Mycroft aveva saputo anche di quello.
Gli aveva nascosto la foto, gli aveva detto, in un impeto di cattiveria
gratuita, che quella bambina così carina non avrebbe mai
accettato nemmeno una
stretta di mano da un ragazzino strano e solitario come lui. Gli disse
che non
aveva speranza, che avrebbe fatto prima a rinunciare e ritornare in
quel mondo
tutto suo. Sherlock non lo avrebbe detto mai a nessuno, ma quella sera,
dopo la
crudele chiacchierata con Mycroft aveva pianto. Pianto così
tanto da inzuppare
il cuscino, mordendolo con forza per soffocare il rumore.
I giorni successivi erano passati nella totale apatia, nello sconforto,
nel
pensare e ripensare alle parole del fratello maggiore e trovandoci
più verità
di quanto avrebbe voluto ammettere a sé stesso.
“Buongiorno, caro fratellino” si sentì
salutare dall’ingresso, un sabato
mattina. “Non immaginerai mai chi mi ha chiesto di te, poco
fa”.
Sherlock abbandonò il letto, da cui inizialmente quella
mattina non aveva
assolutamente intenzione di alzarsi, triste com’era, con una
velocità
sovrumana.
“Joanne?” gridò.
Mycroft sogghignò, con un’espressione sorpresa,
come se trovasse sinceramente
incredibile che qualcuno avesse interesse per il suo fratellino.
“In persona”.
Sherlock era in fibrillazione. Scese le scale talmente di fretta che
quasi
cadde contro il corrimano e saltò addosso a Mycroft, che,
stranamente, lo
sostenne senza respingerlo.
“E ora dov’è?” chiese,
concitato.
“Doveva tornare a casa, ha detto. Però ha detto
che spera che lunedì verrai a
scuola” riferì, e Sherlock si domandò
se non fosse tutto uno scherzo crudele
del fratello più grande.
“So a cosa stai pensando. No, oggi sono troppo stanco anche
per prenderti in
giro” esclamò, lasciando cadere a terra la pesante
cartella. “Anche se non
capisco cosa ci perda a non vedere per un giorno un mostriciattolo come
te”.
Senza aggiungere una parola e ignorando l’uscita poco felice
di Mycroft, il
piccolo Sherlock si precipitò nuovamente in camera sua,
afferrando al volo un
blocco di carta da musica e il suo amato violino.
Quel segno era arrivato al momento perfetto, ed era stato totalmente
insperato.
Adesso che era sicuro che Joanne sapesse della sua esistenza, adesso
che era
certo che ricordasse addirittura il suo nome, si sentiva al settimo
cielo.
Avrebbe lasciato un segno, decise in quel momento. Avrebbe regalato
alla sua
innamorata qualcosa che gli altri bambini non avrebbero mai potuto
eguagliare.
Passò tutta la sera e gran parte della notte a scrivere e
suonare, a sfiorare
dolcemente le corde del suo violino alla ricerca della giusta nota,
della più
bella sfumatura di suono e colore, e alla fine, ci riuscì.
“Ce l’ho fatta!” annunciò il
bambino al tavolo della colazione, la mattina
seguente. La mamma, deliziata, prese tra le mani i fogli che Sherlock
le stava
porgendo e per un secondo sembrò voler scoppiare in un
pianto di commozione.
“Oh Sherlock, è stupendo. La tua piccola
innamorata sarà felicissima”.
Mycroft sbuffò, con un boccone di pane tostato in bocca.
Sembrava aver
riacquistato quel tono brusco e scostante di tutti i giorni, nei
confronti del
fratello minore.
“Oh magari sarà uno strazio, come al solito. Non
vorrà più vederti” disse,
acido.
Sherlock gli rivolse un’occhiata piena di astio ma non
assolutamente turbata.
“Mycroft, insomma!” lo rimproverò la
madre. “Hai quindici anni e ti comporti
come un bambino di due”. Il figlio maggiore non rispose ma
abbassò il capo,
indeciso se sentirsi umiliato o disinteressato.
Sherlock, soddisfatto con sè stesso, afferrò la
prima giacca appesa
all’appendiabiti e inforcò il violino sottobraccio.
“Mamma muoviti! Dobbiamo andare!” gridò
il bambino, impaziente. La donna
sorrise e sospirò, tirando Mycroft per un braccio e
prendendo le chiavi
dell’auto.
Joanne non sarebbe potuta essere più contenta e felice come
nel momento in cui
aveva visto Sherlock sotto il suo balcone. Gli era mancato quel
ragazzino
solitario ma così dolce e impacciato allo stesso tempo.
Aveva sempre visto in
lui qualcosa che l’attraeva, che la spingeva a desiderare la
sua compagnia
anche se si erano scambiati in tutto dieci parole in croce.
“Ciao!” salutò Joanne, affacciandosi al
balcone. “Che ci fai qui?”.
Sherlock all’inizio non rispose. Balbettò qualcosa
senza senso, prima di
ritrovare il coraggio e la capacità di articolare parole di
senso compiuto.
“Ho un…un regalo per te. Qualcosa
che…che ho fatto io, con le mie mani” disse e
Joanne sorrise, eccitata.
“Grazie, Sherlock!” squillò, felice.
“Ma perché?”.
Sherlock non ci pensò nemmeno un secondo.
“Perché esisti, Joanne” disse, sicuro.
La bambina non poteva ancora saperlo con certezza, alla sua giovane
età, ma era
sicura di una cosa in cuor suo: era certa che mai nessuno nel resto
della sua
vita le avrebbe mai detto qualcosa di tanto bello. Poi
suonò, e fu qualcosa di
etereo, fantastico, quasi irreale. Joanne amava la musica e soprattutto
amava quella musica, quel dolce
susseguirsi di
note che sembravano abbracciarla, sfiorarla. Ed esistevano solo per lei.
Quando Sherlock concluse, la bambina aveva le lacrime agli occhi. Con
tutta la
forza che aveva, incurante di aver addosso solo il suo buffo pigiama
rosa si
precipitò fuori e gettò le braccia al collo di
Sherlock, baciandolo con
dolcezza su una guancia, senza volerlo mai lasciare andare.
“E’ bellissima, Sherlock. Grazie, grazie
mille” lo strinse più forte.
“E’ la
cosa più bella che mi abbiano mai regalato”.
Sherlock aveva il cuore che correva una maratona, una corsa infinita
che lungi
dall’essere faticosa o dolorosa lo faceva sentire vivo,
speciale. Era lì con
lei e lei lo aveva abbracciato, baciato, chiamato per nome e
soprattutto, cosa
più importante, aveva adorato il suo regalo.
Sherlock era decisamente su un altro mondo, e mai, per nessuna ragione
al mondo
sarebbe voluto tornare sulla Terra. Quando sentì la mano di
suo fratello
arpionarlo ad una spalla, sembrò ricordarsi di
dov’era e con chi era arrivato.
“Adesso devo andare, Sherlock” disse la bambina,
lasciandolo andare a
malincuore. “Ma ci vediamo domani” disse,
speranzosa.
“Certo” sussurrò il bambino ancora in
stato di grazia. “Certo”.
Non ricordò nulla del ritorno a casa, e del resto della
giornata. Con il
pensiero Sherlock era sempre li, con il violino in mano, a osservare
una
bambina dolcissima ascoltarlo come se fosse la cosa più
bella che avesse mai
sentito, e Sherlock, anche se con un diverso punto di vista, si sentiva
assolutamente allo stesso modo.
Mycroft Holmes era sdraiato sul suo letto, una domenica mattina di fine
estate.
Aveva accompagnato Sherlock dalla sua amica e adesso, compiuti i
noiosissimi
doveri di fratello maggiore, si godeva in pace la frescura.
Proprio mentre afferrava il suo libro, però, fu disturbato
da un timido toc alla sua porta.
Visibilmente infastidito per essere stato interrotto si costrinse a
ricordare
le sue buone maniere.
“Avanti” disse, con tono neutro.
Quando vide entrare Sherlock, a casa appena un’ora dopo
averlo lasciato da
Joanne felice e contento come al solito, non riuscì a
trattenere un gemito
stupito.
“Che ci fai già qui, mostriciattolo?”
gli domandò, in fondo in fondo
preoccupato dell’espressione decisamente mesta
e desolata sul viso del fratellino.
L’altro non disse niente, ma tirò su col naso come
se si stesse trattenendo dal
piangere.
E a guardarlo bene in faccia, le labbra contratte e gli occhi lucidi,
sembrava
davvero sul punto di scoppiare in un pianto disperato.
Mycroft lo guardò a occhi spalancati, sorpreso di vedere
Sherlock, il bambino
più forte e coraggioso che lui avesse mai visto,
così fragile, così…normale.
“Mostr…Sherlock, davvero, che è
successo?” domandò ancora, e questa volta si
sorprese anche di sé stesso. Il suo tono era quello teso e
preoccupato di un
perfetto fratello maggiore. E Mycroft, anche se esitante nel volerlo
ammettere,
era in pena per il suo fratellino.
“Joanne va via” rispose Sherlock, con voce rotta.
Tirò su col naso una volta
ancora. “Suo padre ha ricevuto un’offerta di
lavoro…in Sudamerica”
si voltò, le prime lacrime che cadevano già
lente,
tremolando sotto il suo respiro reso irregolare dal nervosismo.
Mycroft comprese tutto, a quel punto. Era stranamente tentato
di…consolare
Sherlock in qualche modo, nonostante fosse abituato a prenderlo in giro
e a
tormentarlo in tutti i modi che riusciva ad escogitare. Ma quel bambino
che
aveva davanti, non era lo stesso degli altri giorni.
Tutt’altro.
“Scusa se sono venuto da te, Mycroft” disse poi il
fratellino, sorprendendolo.
“Lo so che ti disturbo e che sono un peso. Ma dovevo parlare
con qualcuno”
pianse ancora più forte.
All’improvviso il ragazzo più grande
sentì il cuore diventare pesante, come se
un peso invisibile vi si fosse posato sopra. Si dispiacque immensamente
per
Sherlock, immaginando la delusione, il senso di vuoto e tristezza che
sicuramente lo stavano lacerando dentro, nel profondo. Era riuscito ad
arrivare
al cuore di Joanne con tanto coraggio e adesso se la vedeva portar via,
lontano, troppo lontano.
Per un secondo si sentì in colpa per le cose orribili che
gli aveva detto, per
tutte le volte che aveva bruciato le sue speranze, per tutte le volte
che lo
aveva messo in imbarazzo facendolo sentire impotente. Mycroft sorrise
appena,
ma non era affatto un sorriso di scherno.
“Non mi hai disturbato. Non stavo facendo nulla”
mentì, ma non voleva affatto
che suo fratello si credesse un peso, non in quel momento. “E
mi dispiace tanto
per Joanne. Dico sul serio” sussurrò, arrossendo.
Si sentiva decisamente
strano, in quell’inconsueta intimità con Sherlock.
Il fratello minore, d’altro
canto, era sbalordito. Cos’era successo al vecchio,
insopportabile Mycroft?
Singhiozzò, ancora lontano dal riuscire a smettere.
Mycroft gli fece segno di sedersi vicino a lui, battendo una mano sul
letto.
Sherlock, guardandolo sottecchi, si sedette.
“Ci saranno tanti modi per potervi sentire. Vi telefonerete,
vi scriverete…e
certamente qualche volta tornerà qui, ne sono
sicuro” disse il maggiore,
incoraggiante. Il fratellino lo guardò con aria speranzosa,
che però durò poco,
sostituita nuovamente dall’espressione angosciata e
dolorosamente infelice.
“Sherlock, forza… tu puoi gestirla. Sei
intelligente, sei il bambino più… più
fantastico
che io conosca. Lo so che ogni tanto mi faccio prendere la mano e forse
esagero
con te ma…lo credo davvero” mise una mano sulla
spalla di Sherlock. “Andrà
tutto bene”.
Sherlock lo guardò ancora e Mycroft lesse
incredulità e gratitudine sul suo viso,
come se non riuscisse a spiegarsi quel drastico cambio
d’atteggiamento. Altre
lacrime continuarono a scivolare quando chinò il capo.
A quel punto, senza sapere cosa dire ancora, e sapendo che le parole
sarebbero
servite a poco in quella situazione, Mycroft fece qualcosa che mai si
sarebbe
creduto capace di fare.
Si avvicinò a Sherlock e lentamente lo attirò a
sé, lasciando che il suo volto
poggiasse sul suo petto, lasciando che la sua maglietta assorbisse le
lacrime
del fratellino. Lo cinse con le braccia, con affetto, accarezzandogli i
capelli
comprensivo. Sherlock gli cinse il collo con le braccia, piangendo
ancora più
forte.
Probabilmente da quella sera stessa avrebbero ricominciato la loro
solita
routine, le diatribe, i litigi, il continuo prendersi in giro e via
dicendo, ma
in quel momento a Mycroft non importava nulla di quello che era
successo in
passato. In quel momento si sentiva solo un fratello maggiore che
voleva bene,
in fondo, al suo piccolo Sherlock.
Il bambino, come se gli avesse letto nella mente, nel cuore, lo strinse
ancora.
Ancora più forte.
§
Sherlock
fissava il soffitto dell’asettica stanza d’albergo
in cui si
trovava.
Era sdraiato da ore ormai, senza la forza di fare o dire nulla, nel
completo
annullamento di se stesso, dopo aver visto,
dopo aver sentito.
Il ventilatore sul soffitto girava stancamente con un cigolio
inquietante che
Sherlock reputava fastidioso e rilassante allo stesso tempo, bramoso di
trovare
qualcosa, anche quel semplice e monotono rumore che lo distogliesse da
quei
pensieri, dal pensiero di quello che aveva fatto, di quello che era
stato
costretto a fare, e di come aveva inevitabilmente ridotto ad un uomo
distrutto
la persona più importante della sua vita. Pensò a
lui, inevitabilmente in ogni
secondo di quella forzata solitudine, ripensò ad ogni
particolare, ad ogni
frammento di ricordo in cui lui c’era. E quei ricordi erano i
più belli che lui
riuscisse a rammentare.
Mentre era ancora immerso in quel doloroso mare di immagini, rumori e
suoni
qualcosa attirò la sua attenzione. Mycroft era in piedi
sulla soglia della
porta d’ingresso, muovendo il suo ombrello avanti ed indietro
come se
attendesse il permesso del fratello di lasciarlo passare.
“Entra” disse Sherlock, con tono piatto. Il
fratello maggiore si accomodò,
senza una parola, sulla poltroncina imbottita accanto al letto.
“Allora, Sherlock. Come va?” gli domandò
Mycroft come se stesse discutendo
dell’ultimo pettegolezzo apparso sul Sun.
La leggerezza con cui trattava di quell’argomento, il totale
distacco nei confronti
di ciò che il fratello minore provava facevano sentire
Sherlock colmo di un’ira
che non riusciva a spiegare, a sfogare. Possibile che non capisse
quanto grave
fosse, l’intera situazione?
“Mi chiedi come va, Mycroft?” ripeté
Sherlock, con voce indispettita. “Non va
bene. Non va bene
per niente, e lo sai”.
Il maggiore lo fissò a lungo, come se volesse carpire ogni
singola sfumatura
delle sue emozioni attraverso i suoi occhi. Poi abbassò lo
sguardo.
“Sai che era necessario, Sherlock”.
Il detective scosse la testa, prendendola fra le mani, nel gesto di un
uomo
disperato. Ed era esattamente così che Sherlock si sentiva:
pressato dalle
emozioni, che così a lungo aveva cercato di respingere,
logorato dalla colpa
verso una persona che aveva reso la sua vita migliore, nei confronti di
un uomo
che aveva imparato ad apprezzare, ad amare
per la prima volta nella sua vita.
“L’ho visto, oggi. Al Cimitero” gemette
Sherlock, stringendo gli occhi per
impedirsi di farlo ancora, di piangere, di manifestare tutta la sua fragilità.
“Ne sono al corrente” rispose Mycroft, giocando con
l’impugnatura del suo
ombrello.
“Piangeva, Mycroft. L’ho sentito…
parlare, con me. E quello che ha detto…”
Sherlock non riuscì a continuare. Dovette prendere il
proprio viso fra le mani
per trovare la forza, il coraggio di parlare ancora.
“Sono al corrente anche di questo” aggiunse il
fratello maggiore, ancora con
tono distaccato.
Sherlock non aggiunse altro, fissando gli occhi dell’altro
uomo, così dissimili
dai suoi, con sguardo freddo, glaciale. Sherlock aveva sperato che
capisse, che
comprendesse il modo in cui si sentiva, il modo in cui anche John si
sentiva,
in quel momento. Lo immaginava nel loro appartamento, solo, a guardarsi
intorno
in quel mare di ricordi piacevoli, belli e meno belli, ma che alla
prospettiva
della sua morte dovevano sembrare al medico come un triste mausoleo di
momenti
ormai persi.
“Io non credo di potercela fare, Mycroft. Non così
a lungo”.
“Non si tratta di quello che puoi o non puoi fare,
Sherlock” disse Mycroft. “Lo
sai bene”.
Mycroft guardò suo fratello, o meglio l’ombra di
quello che era stato il geniale
Consulente
Investigativo Sherlock Holmes, e gli sembrò di rivivere
qualcosa di già visto,
un ricordo sbiadito, lontano, qualcosa che credeva di aver
completamente
dimenticato. Si ricordò di suo fratello, probabilmente alle
scuole elementari,
una bambina, (Jodie? Jane? Joanne!)
e un abbraccio. Quello lo ricordava chiaramente, con
lucidità infallibile come
se fosse accaduto solo qualche giorno prima e non anni e anni addietro.
Si
ricordava di un bambino triste, desolato, perso per la prospettiva di
dover
vivere lontano da una persona a cui voleva bene, un bene intenso, unico. Ricordò un bambino dai
capelli
scuri con gli occhi arrossati e lucidi, che cercava in tutti i modi di
tener
dentro un pianto liberatorio che lo spaventava. Ricordò di
un bambino che era
entrato nella sua stanza temendo che lui lo respingesse, ma che
null’altro
voleva che poter parlare, dare libero sfogo a ciò che
provava, a quella rabbia
che lo faceva star male dolorosamente.
E li, in quella stanza d’albergo anonima e fredda, quel
bambino era diventato
un uomo.
Mycroft sospirò mentre vedeva Sherlock abbandonare ogni
difesa, ogni tentativo
di trattenersi, incapace di andare contro ciò che
inevitabilmente doveva uscir
fuori, per evitare di scoppiare, di esplodere in un dolore pericoloso,
dannoso.
“Lui non lo merita. Lui non merita tutto questo.
Io… John” il
detective bisbigliò quel nome con dolcezza, in un sussurro
delicato come se il solo pronunciare quel nome gli desse sollievo.
Mycroft
chiuse gli occhi, mentre incapace di rispondere, sentiva nuovamente
qualcosa
stringergli il cuore.
Sherlock era cambiato, negli anni.
Era diventato solitario, eccentrico, un sociopatico
ad alta funzionalità, come lui stesso si definiva.
Aveva scelto di
respingere i rapporti umani per dedicarsi al lavoro, alle ricerche,
alla
chimica, alla sua malsana passione per le sperimentazioni.
Aveva scelto di essere un uomo senza sentimenti e senza emozioni, e
Mycroft
aveva imparato a vedere Sherlock in quell’ottica tanto nuova,
abituandosi così
tanto da non riuscire più a ricollegare la figura di quel
bambino con quella
dell’uomo.
Adesso però, contro ogni previsione di Mycroft, quel bambino
era tornato.
Sherlock cominciò a piangere, in un pianto pieno di dolore,
di senso di colpa,
di impotenza verso qualcosa che era necessaria e che lui non poteva
cambiare.
Pianse dimenticando quello che per anni aveva cercato di sembrare agli
occhi
degli altri. Il Sherlock freddo, intelligente e distaccato non esisteva
più in
quella stanza d’albergo, lasciando spazio ad un uomo
tormentato, un uomo innamorato.
Mycroft si alzò, abbandonando l’ombrello sulla
poltrona e sedendosi sul letto,
accanto a Sherlock, che adesso singhiozzava più forte, con
il volto fra le
mani. Il fratello maggiore sfiorò lentamente un braccio del
detective, come per
cercare un primo approccio, un nuovo bocciolo di un amore fraterno
quasi
dimenticato.
“Quel dottore ti ha fatto veramente un regalo,
Sherlock” sussurrò poi Mycroft
al suo orecchio, avvicinandosi di più. Il fratellino, tra le
lacrime, incrociò
il suo sguardo comprendendo quasi immediatamente, perdendosi nel suo
stesso
ricordo.
“Lo ha fatto, Mycroft” riuscì a
sussurrare, con respiro stentato. “Lui esiste”.
Mycroft e Sherlock mantennero i loro sguardi uniti a lungo, senza dire
nulla,
condividendo mille momenti, come se potessero rivederli nei loro occhi,
nei
loro volti, in ogni segno sui loro visi.
E quando Sherlock abbassò lo sguardo, Mycroft lo fece ancora.
Tornò improvvisamente ragazzo mentre Sherlock gli cingeva la
vita, con un’
esigenza disperata, come se necessitasse del contatto di
un’altra persona più
di qualunque altra cosa. Mycroft gli cinse le spalle e lo strinse a
sé a sua
volta, Sherlock che piangeva sulla sua camicia di seta, ma non gli
interessava,
neanche un po’. Accarezzò di nuovo quei capelli
scuri, più lunghi e folti
rispetto a tanti anni prima e lo consolò silenziosamente,
senza alcun bisogno
di parlare, lasciando che quelle carezze inaspettate,
quell’abbraccio così impensabile
per chi ben li conosceva,
parlassero per loro.
Mycroft sospirò mentre Sherlock singhiozzava ancora,
cingendolo con maggior
vigore.
Un sorriso triste comparve sul suo volto.
“Andrà tutto bene, fratellino” gli
sussurrò, come ad un bambino. “Andrà
tutto
bene”.
*