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Autore: SAranel    24/04/2012    8 recensioni
A otto anni, Sherlock era un bambino innamorato. Anni e anni dopo, è ancora un uomo innamorato, e questi due amori, tanto diversi tra loro, porteranno inaspettatamente alla stessa conclusione. E Mycroft, con un gesto inaspettato, sarà un'essenziale parte di essa.
“Che ci fai già qui, mostriciattolo?” gli domandò, in fondo in fondo preoccupato dell’espressione decisamente mesta e desolata sul viso del fratellino.
L’altro non disse niente, ma tirò su col naso come se si stesse trattenendo dal piangere.
E a guardarlo bene in faccia, le labbra contratte e gli occhi lucidi, sembrava davvero sul punto di scoppiare in un pianto disperato.
Mycroft lo guardò a occhi spalancati, sorpreso di vedere Sherlock, il bambino più forte e coraggioso che lui avesse mai visto, così fragile, così…normale.
“Mostr…Sherlock, davvero, che è successo?” domandò ancora, e questa volta si sorprese anche di sé stesso. Il suo tono era quello teso e preoccupato di un perfetto fratello maggiore. E Mycroft, anche se esitante nel volerlo ammettere, era in pena per il suo fratellino.[...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Solo un grazie, un grazie a chi recensisce, segue o anche solo legge le mie storie. Mi fate sentire fiera di quello che faccio.
Questa l’ho scritta oggi, e ho voluto pubblicarla perché per me significa molto. C’è una vena romantica, certo, ma per di più ho voluto esplorare un po’ il rapporto fra Sherlock e Mycroft in due momenti particolari delle loro vite.
Perdonatemi se potranno risultare leggermente OOC, ma ai fini della storia mi occorrevano così. Perdono davvero!
La bambina potreste averla già incontrata in una mia precedente storia, per la prima parte ho approfondito un episodio menzionato proprio in quella fiction, quindi se la ricordate, è per quello!
Sperando di non aver fatto troppo male ora fuggo, buona lettura!

S.

 

Dear Little Brother
*

 

 

 

Quando Sherlock aveva otto anni, non esisteva bambino più innamorato di qualcuno come lui lo era di Joanne. Si vergognava terribilmente di quella realtà, lui che prima di incontrare anche per un secondo gli occhi di quella bambina aveva amato solo il suo violino, o i centinaia di racconti di pirati che aveva orgogliosamente collezionato nella sua libreria. Oltretutto Mycroft, da quando lo aveva scoperto, non faceva che fargliela pesare ogni giorno di più, prendendolo continuamente in giro, esibendosi in un trionfo di imbarazzanti moine ogni volta che Sherlock tentava un approccio con Joanne, e costringendolo ogni volta a rinunciare, con il volto rosso di vergogna e rabbia verso il fratello maggiore.
Aveva atteso il giorno della foto di classe con ansia, pregustando il poterla vedere ogni giorno, anche se solo in fotografia. E quella foto, era diventata come sacra, per lui.
Quando pensava di non essere visto, anche se la mamma era nascosta dietro la porta con il cuore pieno di dolcezza, sfiorava il volto della bambina con il dito, come sognando di poterla sfiorare per davvero, sulla pelle liscia delle guance. E quando si sentiva particolarmente ispirato sognava di baciarla, su quella stessa guancia, arrossendo poi furiosamente e affondando la testa nelle braccia come se fosse un pensiero assolutamente disdicevole per un bambino della sua età.
Mycroft aveva saputo anche di quello.
Gli aveva nascosto la foto, gli aveva detto, in un impeto di cattiveria gratuita, che quella bambina così carina non avrebbe mai accettato nemmeno una stretta di mano da un ragazzino strano e solitario come lui. Gli disse che non aveva speranza, che avrebbe fatto prima a rinunciare e ritornare in quel mondo tutto suo. Sherlock non lo avrebbe detto mai a nessuno, ma quella sera, dopo la crudele chiacchierata con Mycroft aveva pianto. Pianto così tanto da inzuppare il cuscino, mordendolo con forza per soffocare il rumore.
I giorni successivi erano passati nella totale apatia, nello sconforto, nel pensare e ripensare alle parole del fratello maggiore e trovandoci più verità di quanto avrebbe voluto ammettere a sé stesso.


“Buongiorno, caro fratellino” si sentì salutare dall’ingresso, un sabato mattina. “Non immaginerai mai chi mi ha chiesto di te, poco fa”.
Sherlock abbandonò il letto, da cui inizialmente quella mattina non aveva assolutamente intenzione di alzarsi, triste com’era, con una velocità sovrumana.
“Joanne?” gridò.
Mycroft sogghignò, con un’espressione sorpresa, come se trovasse sinceramente incredibile che qualcuno avesse interesse per il suo fratellino.
“In persona”.
Sherlock era in fibrillazione. Scese le scale talmente di fretta che quasi cadde contro il corrimano e saltò addosso a Mycroft, che, stranamente, lo sostenne senza respingerlo.
“E ora dov’è?” chiese, concitato.
“Doveva tornare a casa, ha detto. Però ha detto che spera che lunedì verrai a scuola” riferì, e Sherlock si domandò se non fosse tutto uno scherzo crudele del fratello più grande.
“So a cosa stai pensando. No, oggi sono troppo stanco anche per prenderti in giro” esclamò, lasciando cadere a terra la pesante cartella. “Anche se non capisco cosa ci perda a non vedere per un giorno un mostriciattolo come te”.
Senza aggiungere una parola e ignorando l’uscita poco felice di Mycroft, il piccolo Sherlock si precipitò nuovamente in camera sua, afferrando al volo un blocco di carta da musica e il suo amato violino.
Quel segno era arrivato al momento perfetto, ed era stato totalmente insperato. Adesso che era sicuro che Joanne sapesse della sua esistenza, adesso che era certo che ricordasse addirittura il suo nome, si sentiva al settimo cielo.
Avrebbe lasciato un segno, decise in quel momento. Avrebbe regalato alla sua innamorata qualcosa che gli altri bambini non avrebbero mai potuto eguagliare.
Passò tutta la sera e gran parte della notte a scrivere e suonare, a sfiorare dolcemente le corde del suo violino alla ricerca della giusta nota, della più bella sfumatura di suono e colore, e alla fine, ci riuscì.
“Ce l’ho fatta!” annunciò il bambino al tavolo della colazione, la mattina seguente. La mamma, deliziata, prese tra le mani i fogli che Sherlock le stava porgendo e per un secondo sembrò voler scoppiare in un pianto di commozione.
“Oh Sherlock, è stupendo. La tua piccola innamorata sarà felicissima”.
Mycroft sbuffò, con un boccone di pane tostato in bocca. Sembrava aver riacquistato quel tono brusco e scostante di tutti i giorni, nei confronti del fratello minore.
“Oh magari sarà uno strazio, come al solito. Non vorrà più vederti” disse, acido.
Sherlock gli rivolse un’occhiata piena di astio ma non assolutamente turbata.
“Mycroft, insomma!” lo rimproverò la madre. “Hai quindici anni e ti comporti come un bambino di due”. Il figlio maggiore non rispose ma abbassò il capo, indeciso se sentirsi umiliato o disinteressato.
Sherlock, soddisfatto con sè stesso, afferrò la prima giacca appesa all’appendiabiti e inforcò il violino sottobraccio.
“Mamma muoviti! Dobbiamo andare!” gridò il bambino, impaziente. La donna sorrise e sospirò, tirando Mycroft per un braccio e prendendo le chiavi dell’auto.
Joanne non sarebbe potuta essere più contenta e felice come nel momento in cui aveva visto Sherlock sotto il suo balcone. Gli era mancato quel ragazzino solitario ma così dolce e impacciato allo stesso tempo. Aveva sempre visto in lui qualcosa che l’attraeva, che la spingeva a desiderare la sua compagnia anche se si erano scambiati in tutto dieci parole in croce.
“Ciao!” salutò Joanne, affacciandosi al balcone. “Che ci fai qui?”.
Sherlock all’inizio non rispose. Balbettò qualcosa senza senso, prima di ritrovare il coraggio e la capacità di articolare parole di senso compiuto.
“Ho un…un regalo per te. Qualcosa che…che ho fatto io, con le mie mani” disse e Joanne sorrise, eccitata.
“Grazie, Sherlock!” squillò, felice. “Ma perché?”.
Sherlock non ci pensò nemmeno un secondo.
“Perché esisti, Joanne” disse, sicuro.
La bambina non poteva ancora saperlo con certezza, alla sua giovane età, ma era sicura di una cosa in cuor suo: era certa che mai nessuno nel resto della sua vita le avrebbe mai detto qualcosa di tanto bello. Poi suonò, e fu qualcosa di etereo, fantastico, quasi irreale. Joanne amava la musica e soprattutto amava quella musica, quel dolce susseguirsi di note che sembravano abbracciarla, sfiorarla. Ed esistevano solo per lei.
Quando Sherlock concluse, la bambina aveva le lacrime agli occhi. Con tutta la forza che aveva, incurante di aver addosso solo il suo buffo pigiama rosa si precipitò fuori e gettò le braccia al collo di Sherlock, baciandolo con dolcezza su una guancia, senza volerlo mai lasciare andare.
“E’ bellissima, Sherlock. Grazie, grazie mille” lo strinse più forte. “E’ la cosa più bella che mi abbiano mai regalato”.
Sherlock aveva il cuore che correva una maratona, una corsa infinita che lungi dall’essere faticosa o dolorosa lo faceva sentire vivo, speciale. Era lì con lei e lei lo aveva abbracciato, baciato, chiamato per nome e soprattutto, cosa più importante, aveva adorato il suo regalo.
Sherlock era decisamente su un altro mondo, e mai, per nessuna ragione al mondo sarebbe voluto tornare sulla Terra. Quando sentì la mano di suo fratello arpionarlo ad una spalla, sembrò ricordarsi di dov’era e con chi era arrivato.
“Adesso devo andare, Sherlock” disse la bambina, lasciandolo andare a malincuore. “Ma ci vediamo domani” disse, speranzosa.
“Certo” sussurrò il bambino ancora in stato di grazia. “Certo”.
Non ricordò nulla del ritorno a casa, e del resto della giornata. Con il pensiero Sherlock era sempre li, con il violino in mano, a osservare una bambina dolcissima ascoltarlo come se fosse la cosa più bella che avesse mai sentito, e Sherlock, anche se con un diverso punto di vista, si sentiva assolutamente allo stesso modo.


Mycroft Holmes era sdraiato sul suo letto, una domenica mattina di fine estate. Aveva accompagnato Sherlock dalla sua amica e adesso, compiuti i noiosissimi doveri di fratello maggiore, si godeva in pace la frescura.
Proprio mentre afferrava il suo libro, però, fu disturbato da un timido toc alla sua porta.
Visibilmente infastidito per essere stato interrotto si costrinse a ricordare le sue buone maniere.
“Avanti” disse, con tono neutro.
Quando vide entrare Sherlock, a casa appena un’ora dopo averlo lasciato da Joanne felice e contento come al solito, non riuscì a trattenere un gemito stupito.
“Che ci fai già qui, mostriciattolo?” gli domandò, in fondo in fondo preoccupato dell’espressione decisamente mesta  e desolata sul viso del fratellino.
L’altro non disse niente, ma tirò su col naso come se si stesse trattenendo dal piangere.
E a guardarlo bene in faccia, le labbra contratte e gli occhi lucidi, sembrava davvero sul punto di scoppiare in un pianto disperato.
Mycroft lo guardò a occhi spalancati, sorpreso di vedere Sherlock, il bambino più forte e coraggioso che lui avesse mai visto, così fragile, così…normale.
“Mostr…Sherlock, davvero, che è successo?” domandò ancora, e questa volta si sorprese anche di sé stesso. Il suo tono era quello teso e preoccupato di un perfetto fratello maggiore. E Mycroft, anche se esitante nel volerlo ammettere, era in pena per il suo fratellino.
“Joanne va via” rispose Sherlock, con voce rotta. Tirò su col naso una volta ancora. “Suo padre ha ricevuto un’offerta di lavoro…in Sudamerica” si voltò, le prime lacrime che cadevano già lente, tremolando sotto il suo respiro reso irregolare dal nervosismo.
Mycroft comprese tutto, a quel punto. Era stranamente tentato di…consolare Sherlock in qualche modo, nonostante fosse abituato a prenderlo in giro e a tormentarlo in tutti i modi che riusciva ad escogitare. Ma quel bambino che aveva davanti, non era lo stesso degli altri giorni. Tutt’altro.
“Scusa se sono venuto da te, Mycroft” disse poi il fratellino, sorprendendolo. “Lo so che ti disturbo e che sono un peso. Ma dovevo parlare con qualcuno” pianse ancora più forte.
All’improvviso il ragazzo più grande sentì il cuore diventare pesante, come se un peso invisibile vi si fosse posato sopra. Si dispiacque immensamente per Sherlock, immaginando la delusione, il senso di vuoto e tristezza che sicuramente lo stavano lacerando dentro, nel profondo. Era riuscito ad arrivare al cuore di Joanne con tanto coraggio e adesso se la vedeva portar via, lontano, troppo lontano.
Per un secondo si sentì in colpa per le cose orribili che gli aveva detto, per tutte le volte che aveva bruciato le sue speranze, per tutte le volte che lo aveva messo in imbarazzo facendolo sentire impotente. Mycroft sorrise appena, ma non era affatto un sorriso di scherno.
“Non mi hai disturbato. Non stavo facendo nulla” mentì, ma non voleva affatto che suo fratello si credesse un peso, non in quel momento. “E mi dispiace tanto per Joanne. Dico sul serio” sussurrò, arrossendo. Si sentiva decisamente strano, in quell’inconsueta intimità con Sherlock. Il fratello minore, d’altro canto, era sbalordito. Cos’era successo al vecchio, insopportabile Mycroft? Singhiozzò, ancora lontano dal riuscire a smettere.
Mycroft gli fece segno di sedersi vicino a lui, battendo una mano sul letto. Sherlock, guardandolo sottecchi, si sedette.
“Ci saranno tanti modi per potervi sentire. Vi telefonerete, vi scriverete…e certamente qualche volta tornerà qui, ne sono sicuro” disse il maggiore, incoraggiante. Il fratellino lo guardò con aria speranzosa, che però durò poco, sostituita nuovamente dall’espressione angosciata e dolorosamente infelice.
“Sherlock, forza… tu puoi gestirla. Sei intelligente, sei il bambino più… più fantastico che io conosca. Lo so che ogni tanto mi faccio prendere la mano e forse esagero con te ma…lo credo davvero” mise una mano sulla spalla di Sherlock. “Andrà tutto bene”.
Sherlock lo guardò ancora e Mycroft lesse incredulità e gratitudine sul suo viso, come se non riuscisse a spiegarsi quel drastico cambio d’atteggiamento. Altre lacrime continuarono a scivolare quando chinò il capo.
A quel punto, senza sapere cosa dire ancora, e sapendo che le parole sarebbero servite a poco in quella situazione, Mycroft fece qualcosa che mai si sarebbe creduto capace di fare.
Si avvicinò a Sherlock e lentamente lo attirò a sé, lasciando che il suo volto poggiasse sul suo petto, lasciando che la sua maglietta assorbisse le lacrime del fratellino. Lo cinse con le braccia, con affetto, accarezzandogli i capelli comprensivo. Sherlock gli cinse il collo con le braccia, piangendo ancora più forte.
Probabilmente da quella sera stessa avrebbero ricominciato la loro solita routine, le diatribe, i litigi, il continuo prendersi in giro e via dicendo, ma in quel momento a Mycroft non importava nulla di quello che era successo in passato. In quel momento si sentiva solo un fratello maggiore che voleva bene, in fondo, al suo piccolo Sherlock.
Il bambino, come se gli avesse letto nella mente, nel cuore, lo strinse ancora.
Ancora più forte.

 

§

Sherlock fissava il soffitto dell’asettica stanza d’albergo in cui si trovava.
Era sdraiato da ore ormai, senza la forza di fare o dire nulla, nel completo annullamento di se stesso, dopo aver visto, dopo aver sentito.
Il ventilatore sul soffitto girava stancamente con un cigolio inquietante che Sherlock reputava fastidioso e rilassante allo stesso tempo, bramoso di trovare qualcosa, anche quel semplice e monotono rumore che lo distogliesse da quei pensieri, dal pensiero di quello che aveva fatto, di quello che era stato costretto a fare, e di come aveva inevitabilmente ridotto ad un uomo distrutto la persona più importante della sua vita. Pensò a lui, inevitabilmente in ogni secondo di quella forzata solitudine, ripensò ad ogni particolare, ad ogni frammento di ricordo in cui lui c’era. E quei ricordi erano i più belli che lui riuscisse a rammentare.
Mentre era ancora immerso in quel doloroso mare di immagini, rumori e suoni qualcosa attirò la sua attenzione. Mycroft era in piedi sulla soglia della porta d’ingresso, muovendo il suo ombrello avanti ed indietro come se attendesse il permesso del fratello di lasciarlo passare.
“Entra” disse Sherlock, con tono piatto. Il fratello maggiore si accomodò, senza una parola, sulla poltroncina imbottita accanto al letto.
“Allora, Sherlock. Come va?” gli domandò Mycroft come se stesse discutendo dell’ultimo pettegolezzo apparso sul Sun. La leggerezza con cui trattava di quell’argomento, il totale distacco nei confronti di ciò che il fratello minore provava facevano sentire Sherlock colmo di un’ira che non riusciva a spiegare, a sfogare. Possibile che non capisse quanto grave fosse, l’intera situazione?
“Mi chiedi come va, Mycroft?” ripeté Sherlock, con voce indispettita. “Non va bene. Non  va bene per niente, e lo sai”.
Il maggiore lo fissò a lungo, come se volesse carpire ogni singola sfumatura delle sue emozioni attraverso i suoi occhi. Poi abbassò lo sguardo.
“Sai che era necessario, Sherlock”.
Il detective scosse la testa, prendendola fra le mani, nel gesto di un uomo disperato. Ed era esattamente così che Sherlock si sentiva: pressato dalle emozioni, che così a lungo aveva cercato di respingere, logorato dalla colpa verso una persona che aveva reso la sua vita migliore, nei confronti di un uomo che aveva imparato ad apprezzare, ad amare per la prima volta nella sua vita.
“L’ho visto, oggi. Al Cimitero” gemette Sherlock, stringendo gli occhi per impedirsi di farlo ancora, di piangere, di manifestare tutta la sua fragilità.
“Ne sono al corrente” rispose Mycroft, giocando con l’impugnatura del suo ombrello.
“Piangeva, Mycroft. L’ho sentito… parlare, con me. E quello che ha detto…” Sherlock non riuscì a continuare. Dovette prendere il proprio viso fra le mani per trovare la forza, il coraggio di parlare ancora.
“Sono al corrente anche di questo” aggiunse il fratello maggiore, ancora con tono distaccato.
Sherlock non aggiunse altro, fissando gli occhi dell’altro uomo, così dissimili dai suoi, con sguardo freddo, glaciale. Sherlock aveva sperato che capisse, che comprendesse il modo in cui si sentiva, il modo in cui anche John si sentiva, in quel momento. Lo immaginava nel loro appartamento, solo, a guardarsi intorno in quel mare di ricordi piacevoli, belli e meno belli, ma che alla prospettiva della sua morte dovevano sembrare al medico come un triste mausoleo di momenti ormai persi.
“Io non credo di potercela fare, Mycroft. Non così a lungo”.
“Non si tratta di quello che puoi o non puoi fare, Sherlock” disse Mycroft. “Lo sai bene”.
Mycroft guardò suo fratello, o meglio l’ombra di quello che era stato il geniale Consulente Investigativo Sherlock Holmes, e gli sembrò di rivivere qualcosa di già visto, un ricordo sbiadito, lontano, qualcosa che credeva di aver completamente dimenticato. Si ricordò di suo fratello, probabilmente alle scuole elementari, una bambina, (Jodie? Jane? Joanne!)
e un abbraccio. Quello lo ricordava chiaramente, con lucidità infallibile come se fosse accaduto solo qualche giorno prima e non anni e anni addietro. Si ricordava di un bambino triste, desolato, perso per la prospettiva di dover vivere lontano da una persona a cui voleva bene, un bene intenso, unico. Ricordò un bambino dai capelli scuri con gli occhi arrossati e lucidi, che cercava in tutti i modi di tener dentro un pianto liberatorio che lo spaventava. Ricordò di un bambino che era entrato nella sua stanza temendo che lui lo respingesse, ma che null’altro voleva che poter parlare, dare libero sfogo a ciò che provava, a quella rabbia che lo faceva star male dolorosamente.
E li, in quella stanza d’albergo anonima e fredda, quel bambino era diventato un uomo.
Mycroft sospirò mentre vedeva Sherlock abbandonare ogni difesa, ogni tentativo di trattenersi, incapace di andare contro ciò che inevitabilmente doveva uscir fuori, per evitare di scoppiare, di esplodere in un dolore pericoloso, dannoso.
“Lui non lo merita. Lui non merita tutto questo. Io… John” il detective bisbigliò quel nome con dolcezza, in un sussurro delicato come se il solo pronunciare quel nome gli desse sollievo. Mycroft chiuse gli occhi, mentre incapace di rispondere, sentiva nuovamente qualcosa stringergli il cuore.
Sherlock era cambiato, negli anni.
Era diventato solitario, eccentrico, un sociopatico ad alta funzionalità, come lui stesso si definiva. Aveva scelto di respingere i rapporti umani per dedicarsi al lavoro, alle ricerche, alla chimica, alla sua malsana passione per le sperimentazioni. Aveva scelto di essere un uomo senza sentimenti e senza emozioni, e Mycroft aveva imparato a vedere Sherlock in quell’ottica tanto nuova, abituandosi così tanto da non riuscire più a ricollegare la figura di quel bambino con quella dell’uomo.
Adesso però, contro ogni previsione di Mycroft, quel bambino era tornato.
Sherlock cominciò a piangere, in un pianto pieno di dolore, di senso di colpa, di impotenza verso qualcosa che era necessaria e che lui non poteva cambiare. Pianse dimenticando quello che per anni aveva cercato di sembrare agli occhi degli altri. Il Sherlock freddo, intelligente e distaccato non esisteva più in quella stanza d’albergo, lasciando spazio ad un uomo tormentato, un uomo innamorato.
Mycroft si alzò, abbandonando l’ombrello sulla poltrona e sedendosi sul letto, accanto a Sherlock, che adesso singhiozzava più forte, con il volto fra le mani. Il fratello maggiore sfiorò lentamente un braccio del detective, come per cercare un primo approccio, un nuovo bocciolo di un amore fraterno quasi dimenticato.
“Quel dottore ti ha fatto veramente un regalo, Sherlock” sussurrò poi Mycroft al suo orecchio, avvicinandosi di più. Il fratellino, tra le lacrime, incrociò il suo sguardo comprendendo quasi immediatamente, perdendosi nel suo stesso ricordo.
“Lo ha fatto, Mycroft” riuscì a sussurrare, con respiro stentato. “Lui esiste”.
Mycroft e Sherlock mantennero i loro sguardi uniti a lungo, senza dire nulla, condividendo mille momenti, come se potessero rivederli nei loro occhi, nei loro volti, in ogni segno sui loro visi.
E quando Sherlock abbassò lo sguardo, Mycroft lo fece ancora.
Tornò improvvisamente ragazzo mentre Sherlock gli cingeva la vita, con un’ esigenza disperata, come se necessitasse del contatto di un’altra persona più di qualunque altra cosa. Mycroft gli cinse le spalle e lo strinse a sé a sua volta, Sherlock che piangeva sulla sua camicia di seta, ma non gli interessava, neanche un po’. Accarezzò di nuovo quei capelli scuri, più lunghi e folti rispetto a tanti anni prima e lo consolò silenziosamente, senza alcun bisogno di parlare, lasciando che quelle carezze inaspettate, quell’abbraccio così impensabile per chi ben li conosceva, parlassero per loro.
Mycroft sospirò mentre Sherlock singhiozzava ancora, cingendolo con maggior vigore.
Un sorriso triste comparve sul suo volto.
“Andrà tutto bene, fratellino” gli sussurrò, come ad un bambino. “Andrà tutto bene”.

 

 

 

*

 

 

  
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