INTRODUZIONE
30
gennaio 2012
Sono
in un letto di ospedale. Sto iniziando a sentirmi un po’
meglio, ma la
testa sbatte ancora un po’, il cibo è uno schifo,
l’aria irrespirabile. Ho una
flebo al braccio che butta chissà cosa
nel mio corpo. È uno strazio, una
noia mortale. Non ho mai niente da fare, nonostante le mie amiche e i
miei
parenti mi vengono a trovare tutti i giorni, per due ore. Il resto del
tempo lo
passo a contare le russa della mia compagna di stanza,
una
signora anziana, con la quale a volte scambio quattro chiacchiere.
I medici si sono resi conto della mia iperattività e
ultimamente mi
stanno permettendo di andare in giro per il reparto.
C’è tanta gente, che sta
male come me, o peggio.
Il corridoio è lungo e stretto. Non è il massimo:
è bianco, come le altre
stanze, le mattonelle a terra scivolose e le porte delle stanze quasi
tutte
aperte.
Qualche stanza più in fondo della mia
c’è un ragazzo, biondo e alto. Lui è
arrivato la mia stessa sera.
I ricordi di quelle ore sono confusi, ero in uno stato di trans. Si
leggeva la
paura nei miei occhi, nelle lacrime che scendevano. Passai, in barella,
fuori
dalla sua stanza e incontrai il suo sorriso. Sembrava che volesse
dirmi «Stai
tranquilla, andrà tutto bene.» Non ho
mai visto un sorriso più bello del
suo, non potete immaginare le forza incredibile che mi ha
trasmesso.
Lui l’altro ieri ha subito la mia stessa operazione, solo che
ancora non si è
svegliato. Vado sempre a tenergli compagnia. La sua stanza è
buia, io entro,
apro le tende e mi siedo accanto a lui, su una sedia.
Non l’ho mai conosciuto, ma la maggior parte delle volte
piango. Forse perché
penso che sarei potuta essere io al suo posto, forse perché
mi sembra così solo
e indifeso.
Il suo viso è pallido, la sua mano è fredda. Io
la prendo tra le mani e provo a
riscaldarla, poi gli parlo. Come se tra me
e lui ci fosse un
contatto, come se uscissimo fuori dai nostri corpi, fuori da questo
maledetto
ospedale; come se lui potesse sentire solo me, le mie parole, i miei
respiri.
Gli racconto della vecchietta che russa, della puzza che si sente
nell’ospedale, del pazzo che urla per il corridoio,
dell’infermiera antipatica
che gli chiude le finestre, di alcune risate calde, soffici, che a
volte gli
altri riescono a strapparmi di bocca. Gli racconto di sua madre che
piange
mostrandogli le foto di quand’era piccolo, dei suoi 4 amici
che entrano e gli
cantano qualcosa in un mare di lacrime.
Ieri li ho incontrati, i miei parenti se n’erano
già andati e ne approfittai
per fare un giro. Mi appoggiai alla porta della sua stanza e
c’erano quei
4 ragazzi che gli parlavano, che piangevano. Stavo per
andarmene quando
uno di loro mi vide e mi fece cenno di entrare.
Restammo in silenzio, a guardare quel biondo disteso sul letto che non
si
muoveva.
31 gennaio.
Sono
le 21 e io ho già cenato. Anche se quella roba non potrebbe
chiamarsi
cena.
Oggi pomeriggio ho conosciuto gli amici del
ragazzo. Erano le 18.15 e le
infermiere gli avevano concesso di restare un’oretta in
più con il biondo.
Erano distrutti, ma non perdevano le speranze.
Io ero entrata in quella stanza e, inconsapevolmente li ho trovati
lì. Mi sono
seduta con loro, e abbiamo scambiato quattro chiacchiere.
Fuori era buio
e nella stanza rimbombavano le nostre voci, accompagnate da leggeri
rumori
delle macchine. Il ragazzo si chiama Niall, Niall James Horan.
È
irlandese e va matto per il cibo. Anche se non si
direbbe. I
ragazzi, per il poco tempo che ho passato con loro, sembrano simpatici.
Sono
così diversi tra loro, eppure sono così
amici. Una delle poche cose che
avevano in comune, almeno in quel momento, erano gli occhi
rossi, per i
troppi pianti, per le troppe notti insonne, per le troppe birre.
Non ricordo cosa ci siamo detti con precisione. La maggior parte delle
volte
erano parole di conforto, di speranza. La maggior parte delle volte
quelle
parole le abbiamo trattenute, per non sembrare monotoni, ripetitivi.
Non c’era
molto da dire. «Niall, mi manca il tuo sorriso.»,
e piangevano. «Horan,
che fine ha fatto la tua risata contagiosa?», «E
poi era Zayn
quello che dormiva sempre?» sdrammatizzava a volte
qualcuno, seguito da
lievi sorrisi.
Spesso, il rumore dei nostri respiri si fondeva al suo.
Non ricordo
quanto tempo sono restata lì dentro. Non ricordo nemmeno
più i loro nomi.
«Piacere Liam.» Quella parole,
improvvisamente, risuonano nella mia
mente. Quello sguardo che s’intrecciava al mio.
Quell’abbraccio spontaneo prima
di andare via. Liam. Non ricordo più
nemmeno il mio, di nome. Liam.
01 febbraio.
Sono
le 3 di notte e non riesco a dormire. Sono una bomba di emozioni e
fatico a respirare.
Prima, verso le 10, lo sono andata a trovare. Avevo bisogno
di lui,
forse allo stesso modo in cui lui aveva bisogno di quelle stupidissime
macchine per restare in vita. Quando sono con lui mi sento bene, sembra
quasi
che mi ascolti, che mi capisca, che mi consigli. È in grado
di trasmettermi una
forza immensa, quel ragazzo, forse come nessuno è in grado
di fare. E con lui
mi basta solo un contatto con la sua mano, fredda e magra.
Ero nella sua stanza, gli parlavo e a volte mi sembrava che sulle sue
labbra
spuntasse un sorriso. Poi all’improvviso la mia voce
è stata sovrastata da un
forte rumore, un macchinario emanava una luce rossa, forte. Io ero
terrorizzata, immobilizzata. L’infermiera non arrivava e io
non sapevo cosa
fare, le parole non uscivano più dalla mia bocca. La
macchina suonava ancora.
Sembrava la fine. «Niall, Niall.»
riuscii a sussurrare, la mia mano
intrecciata alla sua...
ANGOLO
AUTRICE
Eccomi,
bellezze. Non chiedetemi da dove è
uscita questa storia.
La mia fantasia gioca brutti scherzi. Spero che qualcuno la legga e
magari la
recensisca, ma forse chiedo troppo. (?)
Lo so, forse è troppo corto come capitolo. Prometto che
cercherò di farli più
lunghi. Ho solo bisogno di un po' di appoggio da parte vostra.
Cosa accadrà al nostro Horan? Siete
curiose? Magari, se vedo qualche recensione
anche piccola piccola,
continuo :D
Bye, Ladies *-*