Seduta su una panchina mi guardo le mani. Portano i segni di una vita vissuta a pezzi, senza considerazione per gli altri o amor proprio. Guardo la gente che passa. Alcuni spiccano tra la folla in maniera quasi ostentata. Altri sono visibili perchè cercano di celarsi e confondersi. Li guardo e li invidio. Chissà quanti sbagli hanno commesso e dove li hanno portati. Chissà chi hanno amato senza toccare o chi ha sfamato i loro bisogni senza chiedere. Mi vedono, ma non mi guardano. Occhi che trapassono la folla e ci rendono invisibili. Vorrei piangere, ma non servirebbe. Urlare magari, per alleviare la morsa alla gola. I sentimenti altrui mi scivolano vicino senza fermarsi. Vorrei poterli catturare e gustarli. Succhiarli con la lingua e scoprire che sapore ha la tristezza data da una delusione o il retrogusto di un' aspettativa non raggiunta. Vorrei potergli chiedere se stanno bene, se sono amati. Vorrei poter urlare che ho bisogno di qualcuno che si prenda cura di me. Come un cucciolo. Vorrei ululare la mia solitune o arrendermi alla corrente. Aspettare di morire forse. Invece ridacchio silenziosamente. Il suono mi scalda la gola e respiro più profondamente. La colonnia di un uomo o l'odore di pane fresco. Mi inebrio d'umanità come di vino. Qualcosa che nella mia pigrizia ho perso. Frizzante e aspra. L'ho persa molto tempo fa. La piango un pò sullla sua lapide in un' anticamera della mia mente. Il cinismo mi ha divorato le membra e lasciato solo un teatrale pagliaccio. Dalla mia panchina in una via. Le giovani membra dolenti che aspettano la vita prima del colpo di grazia.