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Autore: GinnyBrandon93    28/04/2012    2 recensioni
Edward e Bella sono una coppia innamorata e felice di studenti universitari.
Ma Edward è orfano, ha perso i suoi genitori in un incidente d'auto quando aveva solamente un anno. È cresciuto con sua zia Anita, la sorella di sua madre, ed è da lei che ha saputo quel poco che conosce della sua famiglia.
Nonostante tutto, ha potuto realizzare i suoi sogni: sta per diventare pediatra laureandosi alla famosa John Hopkins Medical School...
Ma un'ombra uscita dal suo passato rimetterà tutto in discussione, anche la sua stessa vita... Riusciranno Edward e Bella a scoprire la verità e a coronare i loro sogni?
Genere: Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio | Coppie: Bella/Edward
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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A mio marito, che mi ha fatto scoprire l’amore e mi ha accompagnata nel mio diventare donna.
Non sarei quella che sono se non ti avessi avuto accanto, e il tuo amore è il dono più prezioso che io abbia mai ricevuto.
 Grazie per essere sempre al mio fianco, e per la tua capacità di rendere ogni giorno un’avventura straordinaria.
Tua per sempre, B.
 
 
 
1
 
24 marzo 2010, ore 23.40
 Mi chiamo Bella Swan, ho diciannove anni. In questo momento mi trovo nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale più famoso di New York. Sono qui da ventiquattro ore, ormai, e non dormo da quando sono arrivata qui nel cuore della notte, insieme al mio fidanzato, Edward Cullen.
Io frequento il secondo anno alla facoltà di inglese di Harvard, Edward si sta laureando alla John Hopkins Medical School. Sarà un pediatra eccezionale. Con i bambini è assolutamente fantastico. E non lo dico solo perché sono di parte… anche i suoi professori e i suoi compagni di corso sarebbero d’accordo con me.
Siamo qui perché Mark, il suo compagno di stanza, ha trovato Edward nell’androne del loro palazzo, al campus, in una pozza di sangue. Mi fa male anche solo ripensarci… Mark è subito corso a chiamarmi, ma gli ho urlato già attraverso il cellulare di non perdere tempo in discorsi inutili e di chiamare il 911. Quando sono arrivata… Edward era terra, immerso in un lago di sangue, gli occhi chiusi e il respiro rantolante. Deve avermi riconosciuta dalla voce, perché quando mi sono inginocchiata accanto a lui, ha mormorato il mio nome.
“Shhh, amore, shhh… sono qui… abbiamo già chiamato il 911… starai meglio, vedrai…” ha aperto gli occhi e il suo sguardo ha incontrato il mio per un attimo, poi ha perso conoscenza. Sforzandomi di restare calma, ho mandato Mark a far segno ai medici dell’ambulanza di entrare.
Hanno caricato Ed su una barella, e mi hanno detto chiaro e tondo che ero l’unica che poteva andare con lui, ma che sarei dovuta restare a disposizione della polizia. È evidente che si tratta di un’aggressione.
 
 
Conobbi Edward Cullen tre anni fa, alla festa per il diciottesimo compleanno della sorella maggiore della mia migliore amica. Alto, moro, gli occhi verdi, i lineamenti fini, lo notai subito. Aveva vent’anni. Io, sedicenne, non mi sarei mai aspettata di essere notata da lui. Invece aveva già chiesto a Sylvia di conoscermi. A metà serata ci mettemmo a chiacchierare del più e del meno, e quando guardò l’orologio per la prima volta, erano le due e un quarto. Dovevo andare. Ci rivedemmo la settimana successiva, perché io frequentavo ancora il liceo e potevo uscire solo nei week-end. Dopo un paio di mesi che uscivamo insieme, successe quello che speravo. Mi aveva portato a cena, e poi a fare una passeggiata lungo il fiume. Stare con lui è stato, fin da subito, naturale, facile come respirare. Potevo parlare di tutto, ed essere sicura di essere capita come mai prima di allora. Quando mi prese per mano, credetti che il mio cuore si fermasse. È stata la notte più bella della mia vita. La prima di una lunga serie.
Camminavamo sul fiume, al chiaro di luna, e mi aveva presa per mano. Ero sbalordita, al colmo della felicità, perché, per quanto m’interessasse, non avevo neppure osato sperare che quel ragazzo, più grande di me di quattro anni e così bello, potesse vedermi come qualcosa in più di un’amica. Eravamo arrivati a uno spiazzo bellissimo, libero dagli alberi che caratterizzano da sempre il resto della passeggiata, e da cui è possibile vedere le stelle. La notte era limpida, e il cielo sopra di noi era un manto blu scuro ricoperto di puntini luminosi color argento. Ci appoggiammo al parapetto che dà sul fiume, il naso all’insù, entrambi affascinati da quello spettacolo.
“E’ bellissimo… sembra di poterle toccare con le dita…” mormorai, e la mia felicità aumentò quando sentii che mi passava un braccio attorno alla vita e mi stringeva al suo fianco. Sorrideva, e scherzando mi chiese se non avessi freddo. Quando gli risposi di sì, mi abbracciò più stretta e mi baciò la guancia. “E’ una delle cose di te che adoro, capisci sempre tutto” mi mormorò all’orecchio. Mi girai a guardarlo, stupita delle sue parole, e trovai il suo viso vicinissimo al mio, mentre mi fissava con una concentrazione che mi fece venire le farfalle nello stomaco.
Chinò il viso verso il mio, e lentamente prese a lasciarmi una scia di piccoli baci dal punto in cui aveva iniziato qualche momento prima fino all’angolo della bocca. Esitò un momento, e mormorò “Bella…” a un millimetro dalle mie labbra, come a chiedermi il permesso. Alzai il viso, annullando la distanza fra noi. Erano due mesi che aspettavo quel momento. Il nostro primo bacio fu tenero, dolce, e incredibilmente romantico. Quando ci separammo, mi tenne stretta a sé, come se anche lui, come me, avesse paura di aver sognato e di svegliarsi per scoprire che niente era accaduto.
“E dire che mi avevano avvertito…” scherzò. “Mi avevano detto che alla fine sarebbe successo… ma su una cosa si sbagliavano… non è male per niente…” rideva, tenendomi stretta. “Pronto per le manette!” annunciò, dandomi un altro bacio. Risi anch’io, incapace di trattenermi. Quando ci si metteva, riusciva a farsi perdonare, anche se fino all’attimo prima mi stavo arrabbiando seriamente con lui.
 
Stiamo insieme da tre anni, ormai, e la distanza che ci ha separato durante i primi due non ci ha impedito di continuare la nostra relazione. Quando guardiamo le foto della nostra prima vacanza insieme, viene da ridere a entrambi: io sembro ancora una ragazzina, e lui ha ancora il viso a tratti rotondo e a tratti spigoloso di chi è appena uscito dall’adolescenza. Quello che davvero non è cambiato, per nessuno dei due, è lo sguardo che rivolge all’altro. Perfino mia nonna, che non conosceva Edward e che non ne sapeva niente, all’epoca, vedendo quelle foto ha capito tutto.
 
Sono nella sala d’aspetto fuori dalla stanza in cui, da più di un giorno, Ed sta lottando contro la morte. Non mi hanno ancora lasciato entrare, ma il flusso di medici e infermiere è continuo, e riesco ad avere notizie ogni due ore circa. Non riesco ad andarmene. “Condizioni gravi ma stabili, prognosi riservata” è tutto quello che mi ripetono. Adesso come adesso, sto aspettando che arrivi il primario. È lui che deve aggiornarmi, mi hanno detto.
Mi si avvicina un uomo sulla cinquantina, brizzolato. Indossa il camice blu. È lui.
“La signorina Swan?” mi chiede, ed io annuisco. Mi porge la mano. “Sono il dottor Shannon, il primario. È la fidanzata del signor Cullen, non è così?”
“Sì, è esatto.” Rispondo.
“Prima di dirle quali sono le condizioni del paziente, ho bisogno di qualche informazione. Mi dispiace, so che può sembrare inopportuno, e che ha già dovuto fornire spiegazioni anche alla polizia, ma devo essere sicuro di aver seguito alla lettera la legge. Vede, come probabilmente lei sa, io non potrei darle queste informazioni. Tuttavia, i documenti del paziente parlano chiaro: chiede che sia avvisata lei, e lei sola, nel caso in cui gli succeda qualcosa. Mi sa dire perché?”
“Vede, dottore, Edward ha perso i suoi genitori quando era molto piccolo, ed è stato cresciuto da una vecchia zia, che è morta quando lui aveva tredici anni. Era rimasto solo, e così ha passato l’adolescenza in orfanotrofio. A diciotto anni, finito il liceo, si è iscritto alla John Hopkins grazie ad una borsa di studio. Ecco perché sui suoi documenti c’è scritto di avvisare me. Non ha famiglia.”
Mentre parlo, m’invade il ricordo del pomeriggio in cui me l’ha raccontato.
 
 Cerca di non darlo a vedere, ma ci soffre ancora moltissimo. Credo non riesca a perdonarsi, anche se lui non c’entra nulla con tutto questo. Quando ha finito il suo racconto, singhiozzava, tremando, senza riuscire a calmarsi. La cosa che mi ha colpito di più è stata il suo continuo ripetere “è colpa mia”, come se davvero credesse di aver fatto qualcosa. L’ho abbracciato stretto, e siamo rimasti lì per non so quanto tempo, finché non è riuscito a recuperare il controllo. Non gli ho lasciato il tempo di riaprire bocca, e l’ho baciato. Ha risposto al bacio con un’intensità e un bisogno che non mi aveva mai mostrato fino ad allora. “Grazie”, mi ha mormorato. “Avevo paura che… quando l’avresti saputo… te ne saresti andata anche tu… come loro… non l’avrei sopportato… perché mi sono innamorato di te…” Con il cuore che scoppiava, sono riuscita a dirgli solo “Ti amo”, prima che riprendesse a baciarmi...
 
 
 La voce del dottore mi scuote dai miei pensieri.
“Capisco. Venga, signorina, si accomodi.” Il dottor Shannon mi fa accomodare nel suo studio, prima di dirmi, finalmente, che cosa è successo.
“Ho visitato personalmente il suo fidanzato quando è arrivato qui, e l’ho rivisitato questa mattina. È certamente stato vittima di un’aggressione, abbastanza violenta, direi. Credo che sia stato colpito al volto e allo stomaco, almeno inizialmente, e questo ha provocato la frattura dello zigomo destro e di due costole. Quando è caduto a terra, è stato colpito violentemente con un oggetto pesante, alla schiena soprattutto, causando la frattura di tre vertebre lombari e dei danni al midollo spinale. È per questo che, fino ad ora, non mi ero sentito di sciogliere la prognosi. Non è più in pericolo di vita, e per la maggior parte delle lesioni dovrebbero bastare quaranta - cinquanta giorni, ma la lesione alla colonna vertebrale è irreversibile. Mi dispiace doverglielo dire, signorina, ma la TAC è chiara. Il signor Cullen non potrà più camminare.” Il mio cervello si scollega, e per un po’ non seguo il dottore nel suo discorso sulla riabilitazione. Le parole non potrà più camminare girano in tondo nella mia mente, che si rifiuta di dar loro un senso. Quando finalmente riprendo il controllo di me stessa, il dottore sta dicendo: “Se vuole può vederlo, ora. È sempre sotto morfina, ma l’infermiera mi ha detto che è cosciente. Si è svegliato una mezz’ora fa. Per qualunque cosa, mi chiami pure. Sono a sua completa disposizione.” Mi alzo in fretta e furia e ringrazio il dottore, poi mi precipito da Ed.
La stanza è illuminata da una luce bianca, fortissima, che si riflette sugli schermi delle numerose apparecchiature. Mi avvicino a Edward, che è appoggiato a una montagna di cuscini e sembra dormire.
Ricaccio giù le lacrime, e mi siedo accanto a lui. È pieno di lividi, e capisco quanto vicino sia stato a non svegliarsi più.
Apre gli occhi, lentamente, come se gli costasse uno sforzo enorme. Gli bacio delicatamente la guancia sinistra.
 “Ehi … come ti senti?” Mi guarda, fisso, per una frazione di secondo, poi, a fatica, mi risponde, la bocca impastata e la voce roca.
“Più o meno come se mi fosse passato sopra un tir …” fa una pausa. “Bella, io non so chi sia stato. Non me lo spiego, non ho fatto niente a nessuno … perché? Io so che cos’ho, l’ho capito … mentre mi picchiavano … non sento più le gambe, so che cosa significa …” ha gli occhi pieni di lacrime. “Perché?” mormora ancora. Gli accarezzo il viso.
 “Amore, amore, shhh… non agitarti così … ti prego … Ho già sporto denuncia, li prenderanno …” sospira.
“Lo so, tesoro … ma … il mio lavoro … Bella, tu sai cosa significa …” mi distrugge vederlo così. Ma soprattutto, sapere che ha ragione. Con quello che gli hanno fatto, non potrà più fare il lavoro che sogna da dodici anni e per il quale ha studiato giorno e notte negli ultimi cinque.
“Sì …” mormoro, senza sapere cosa aggiungere, se non una preghiera muta per un miracolo che so perfettamente essere impossibile. Mi stringe la mano così forte, nella sua, che mi domando dove trovi la forza per farlo.
“Bella, ti prego … so che forse ti chiedo troppo … che viste le mie condizioni non dovrei chiederti niente … ma ho bisogno di te …” sento il panico nella sua voce mentre le sue parole si fanno confuse.
“Non posso farcela da solo …” gli accarezzo i capelli, lentamente, con delicatezza, riordinando le ciocche ribelli come faccio sempre. So che adora questi gesti, che lo rilassano anche prima di un esame importante.
“Edward, calmati. Stai tranquillo, io sono qui, non vado da nessuna parte … Fidati di me, amore … finché mi vorrai, io sarò con te. Te lo prometto.” Mi cinge la vita con le braccia e poggia il viso sul mio stomaco, respirando piano. Lo stringo a me con delicatezza, e restiamo così per un momento infinito. All’improvviso, entra un’infermiera. È la caposala, una signora di colore, gentilissima, che ha già fatto tre turni da quando sono qui e ormai mi conosce. Edward si riappoggia ai cuscini, prendendomi la mano e intrecciando le dita alle mie. Scambio qualche parola con la donna, mentre gli sistema le flebo, e quando esce vedo che Ed mi fissa con uno sguardo strano.
 “Cosa c’è, amore?” La sua voce è piena di stupore.
“Tu… sei qui da martedì sera?” mi chiede, gli occhi increduli.
“E non te ne sei mai andata? Bella, hai dormito almeno un po’?” Mi viene da ridere e mi arrabbio contemporaneamente. Come fa a preoccuparsi per me in un momento come questo?
“Forse un paio d’ore…” gli rispondo. Vedo che mi guarda come se volesse rimproverarmi, e poi vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime.
“Non merito che tu mi ami così tanto…” mi mormora.
“Smettila” gli dico, decisa. “Edward, basta. Non devi dire così. Ti amo, e non potrei aver scelto meglio. Sei una persona eccezionale, un ragazzo dolcissimo, riesci a farmi sentire speciale e amata anche con i gesti più banali… se c’è qualcuno che merita un po’ di amore sei tu. Hai un passato difficile, è vero, ma non devi lasciarti condizionare così.” Gli stringo forte la mano, e sento che mi passa l’altra intorno alla vita, attirandomi a sé.
“Grazie…” mi mormora. “So che è una risposta scontata, ma ti amo. Però devi andare a riposarti, amore. Vai a casa un paio d’ore, dormi un po’… tanto io non posso andare da nessuna parte. Fallo per me. Sei stravolta, non voglio che tu stia male.”
Torno a casa controvoglia, solo per farlo stare tranquillo. Non deve agitarsi, non adesso che il suo corpo deve riprendersi da tutti quei traumi. Mi metto a letto, ma non riesco a dormire. Sento ancora il suo profumo sul mio cuscino dall’altra sera, e quando finalmente mi addormento sogno la nostra prima notte insieme.
 
Ne avevamo parlato tante volte, perché sapeva che sarebbe stata la mia prima volta e voleva che fosse qualcosa di speciale, qualcosa che avrei ricordato per sempre.
Gli avevo detto un paio di settimane prima che mi sentivo pronta, e lui mi aveva detto, dopo un bacio mozzafiato, che voleva farmi una sorpresa.
Era la notte di San Lorenzo, e come sempre mi aveva invitata sul tetto del suo palazzo, al campus, a vedere le stelle. Quando arrivai, venne a prendermi, e mi accompagnò di sopra. Era meraviglioso. La serata estiva era calda e nitidissima; non so come, era riuscito a far spegnere le luci di tutta quell’area del campus. Aveva preparato, come al solito, dei materassi e dei cuscini per sdraiarsi, ma questa volta non aveva montato le solite torce da campeggio: qualche candela gettava la sua luce tremula dal cornicione e la cena mi aspettava. Lo abbracciai, commossa, e gli mormorai un “Grazie” incerto. All’improvviso, il nervosismo mi aveva assalito, inspiegabilmente. Mi strinse a sé.
“Bella, tesoro, tranquilla. Non siamo obbligati, amore.” Lo guardai di sottecchi, sbalordita.
“Sei tesissima. Ti conosco troppo bene…” mormorò, a mo’ di spiegazione. Mi baciò la guancia. “Quando ti sentirai davvero pronta. Non un attimo prima. Hai tutto il tempo del mondo. Non ho fretta…” mi strinsi di più a lui, baciandogli il collo.
 “Scusami…” mormorai, rossa come un pomodoro.
“Ehi… va tutto bene… non c’è niente di cui debba scusarti…” mi baciò i capelli. “Mangiamo qualcosa, dai… è tardissimo e muoio di fame…”.
Dopo cena ci sdraiammo sui materassi, abbracciati. Ci eravamo sdraiati così tante altre volte, ma mai come quella sera ero stata così consapevole del suo corpo così vicino al mio. Lo guardai negli occhi e li vidi ardere. Avvicinò le labbra alle mie e le catturò. Il bacio era dolce come un sussurro, all’inizio, poi diventò sempre più profondo e sentii la punta della sua lingua che segnava leggera i contorni delle mie labbra. Mi girava la testa. Aprii le labbra e il bacio diventò sempre più intenso, un abbraccio fortissimo che mi avvolgeva e mi saldava a lui. Ci separammo col fiato corto. Mi riappoggiai a lui, e per la prima volta mi accorsi di quanto  intensamente mi desiderasse dal lato fisico, anche se cercava di non farmene accorgere. Arrossì lievemente.
“Scusa”, mi mormorò. Mi sentii invadere da un calore profondo, una sensazione che non avevo mai provato prima. Era diverso dall’imbarazzo che avevo provato quando ero arrivata, era un calore interno, piacevole. Sapevo cosa significava. Ma soprattutto, sapevo che cosa volevo. Lo baciai di nuovo, poi gli mormorai: “Non devi scusarti… Anzi…” Mi guardò negli occhi, senza capire.
 “Ed, ti amo. E so di essere pronta. Per favore…” incollai nuovamente le labbra alle sue. Si scostò di un centimetro dalle mie labbra.
 “Bella…” mormorò, gli occhi ardenti.
“Sì.” Gli risposi, decisa. Mi strinse fortissimo, e iniziai a baciarlo piano, dal mento seguii la mascella e poi scesi per il collo, mentre slacciavo i bottoni della sua camicia. Gliela sfilai e cominciai a baciargli il petto. Era  bellissimo. Le sue mani si infilarono lentamente sotto i bordi della mia maglietta, piano piano me la sfilò dalla testa. Quando mi strinse a sé abbracciandomi la mia pelle diventò incandescente a contatto con la sua. Diventai schiava delle sue mani che mi stringevano e mi accarezzavano, mentre io lo ricambiavo in tutto. Esitò un attimo solo nel momento in cui stavamo per diventare davvero una cosa sola. Mi baciò la guancia.
“Amore, se ti faccio male dimmelo…”
“Non smettere…” lo strinsi più forte e appoggiai una mano alla base della sua schiena. La sensazione di dolore fu così passeggera che non me ne accorsi quasi, distratta ed estasiata dall’essere finalmente una cosa sola con lui…
Edward mi accarezzò piano la schiena, e io gli posai un altro bacio sulle labbra. 
Non sono mai stata così felice in tutta la mia vita.
 
Mi sveglio alle sei e mezzo del mattino, di colpo, come se mi avessero urlato in un orecchio. Mi sono ricordata che, l’altra sera, c’era un biglietto, per terra, nell’ingresso dell’appartamento di Edward. L’ho notato quando sono passata in fretta e furia a prendere le sue cose. Forse è stata solo una coincidenza, ma prima di tornare all’ospedale voglio controllare. Mi vesto, e vado a casa di Ed. Eccolo lì, nell’angolo dietro la porta, esattamente dov’era rimasto martedì. Lo raccolgo, e mi si gela il sangue. Questo è solo l’inizio, Cullen. Abbi paura, perché ci arrenderemo solo quando finalmente ci saremo sbarazzati di te. Sono così scioccata che per un attimo tutto mi gira attorno. Che cosa vuol dire?, continuo a ripetermi. Telefono al tenente Godwin, che ha in carico le indagini sull’aggressione, e gli mostro il biglietto.
Non so perché, ma mi fa fin da subito una cattiva impressione. Sembra annoiato, distante. Non mi guarda neppure in faccia quando parlo. Mi chiede di lasciare il biglietto alla polizia e di andare a casa, dicendo che ci penseranno loro. Ormai sono le dieci e mezza, e torno da Edward all’ospedale.
Lo trovo sveglio, e per quanto possibile di buon umore. Mi viene da piangere, vedendolo così… e sapendo che devo affondare il coltello nella piaga. Ma è meglio che lo faccia io, piuttosto che la polizia…
“Ehi… già di ritorno?” mi saluta sorridente. Mi chino a baciarlo.   
“Sì… lo sai che non ho mai amato i pisolini…” mi siedo accanto a lui e gli prendo la mano, intrecciando le dita alle sue.
“Devo parlarti…” vedo il suo volto immobilizzarsi e le sue spalle irrigidirsi come in attesa di un impatto. Il monitor accanto al letto, traditore, mostra che il suo battito cardiaco ha accelerato. Capisco che ha frainteso.
“Shh… Ed, calmati. Devo solo chiederti una cosa, non fare quella faccia. Non ho intenzione di lasciarti, amore, tranquillo…” riprende a respirare. Lo attiro con delicatezza verso di me e gli passo un braccio attorno alle spalle, mentre con l’altra mano gli accarezzo i capelli.
“Fidati di me. Ti chiedo solo di fidarti… so che è difficile, che tutto quello che è successo non può non lasciare un segno, ma… ti amo, e sarò qui. Sempre. Guardami negli occhi…” alza lo sguardo verso il mio, e dopo un momento china la testa.
“Scusami…” sussurra.
“Non c’è niente per cui ti devi scusare, lo sai. Ascoltami, so perfettamente che non è un argomento che desideri affrontare, tesoro, ma… ecco, l’altra sera, quando… ti abbiamo trovato… ho visto un biglietto nell’ingresso di casa tua. Non l’ho raccolto, perché volevo restare con te, accompagnarti qui… sono andata a recuperarlo stamattina, prima di tornare da te. Non è… tranquillizzante, amore. Per niente. Sono delle minacce, anche se la polizia si rifiuta di prenderle sul serio… Ed, sono preoccupata per te… sei sicuro che non sia mai successo niente, all’università, all’ospedale dove fai il tirocinio, non lo so… qualsiasi cosa che possa portare qualcuno a fare una cosa del genere?” il suo viso è spaventato, ma nella sua espressione riconosco anche qualcosa in più, qualcosa che la indurisce e la rende ancora più evidente. Quando parla, la sua voce è un sussurro, il suo tono aspro.
 “Bella, non ti ho mai detto niente perché volevo proteggerti e non volevo spaventarti. Ho sbagliato, e ti ho messa in pericolo. Scusami… ma adesso devo raccontarti tutto, non posso nasconderti questa cosa ancora a lungo…” gli prendo la mano. So che sembra poco credibile, ma non sono arrabbiata con lui. Mi fido ciecamente di Edward, e so che se mi ha taciuto qualcosa è stato solo per proteggermi.
 “Quando sono arrivato al college, il fatto di essere cresciuto in orfanotrofio mi ha subito posto in una condizione di svantaggio. Alcuni si ritengono superiori agli altri solo perché le loro famiglie possono permettersi di comprare una Ferrari all’anno e di mantenerli spendendo cifre che basterebbero per risanare il bilancio di alcuni dei Paesi più poveri del mondo. Il fatto di essere di origine ispanica, poi, non mi ha aiutato per nulla… Non riuscivano ad accettare che un povero orfano cileno potesse essere più bravo di loro. Nei primi mesi non ho dato peso alle loro prese in giro, pensavo fossero soltanto gente che cercava grane e sapevo che se li avessi ignorati abbastanza a lungo probabilmente si sarebbero stufati della cosa e mi avrebbero lasciato in pace. Mi sbagliavo di grosso. Non so cosa pensino di sapere su di me, o sulla mia famiglia, ma… mi odiano, Bella. Mi odiano davvero. Avevo già ricevuto degli strani avvertimenti, biglietti che si riferivano a punizioni che meritavo solo per il fatto di essere figlio dei miei genitori… Poi, all’improvviso, la mia roba ha cominciato a sparire. All’inizio erano cose stupide… non so, un carico di bucato che non tornava dalla lavanderia, cose così. Una sera ho trovato un biglietto che diceva che non meritavo di stare con te, che se non ti avessi lasciata in pace mi avrebbero sistemato. Hanno cominciato a sparire cose dalla mia stanza, uno dei professori ha iniziato a comportarsi in modo strano, e non riuscivo a passare il suo esame, ci sono riuscito con un voto decente solo perché al terzo tentativo è scivolato sulle scale e hanno dovuto mandare un supplente … io non so perché mi stia succedendo tutto questo, Bella, davvero … l’altra mattina, ho trovato sotto la porta un biglietto di minacce che mi ingiungeva di andarmene entro dodici ore. Non capisco perché succedano queste cose, non ho mai fatto torto a nessuno, io … non so, inizio a pensare che la mia famiglia non fosse davvero quella che ho sempre creduto, ma perché se la prendono tanto con me? Che cosa ho fatto io per meritare tutto quest’odio?” ha il respiro corto quando smette di parlare, e gli occhi lucidi.
“Amore, calmati. Ascolta, questa storia ha dei lati che non mi piacciono per niente. Domani torno a parlare con la polizia.” Mi tremano le mani mentre lo penso, ma so di avere ragione.
“Questa non è una semplice aggressione. Edward, hanno cercato di ucciderti …” lo stringo a me, come se potessi proteggerlo da tutto e da tutti. E vorrei con tutta me stessa che le cose stessero così. La rabbia mi riempie, non sopporto di sapere che c’è qualcuno che odia Edward fino a questo punto.
“Bella, ti prego … stai attenta, non fare niente di strano, lascia fare alla polizia … ho paura per te, amore …” gli accarezzo la schiena, sfiorandolo appena, sapendo che porta un busto per le fratture alle vertebre e che è solo grazie alla morfina che non ha dolori.
“Non preoccuparti. Non farò niente di eclatante, voglio solo provare a scoprire qualcosa in più sulla tua famiglia. Visto che a quanto pare è coinvolta, credo sia il primo punto in cui cercare il bandolo della matassa …” sento che sospira. Gli prendo il viso tra le mani.
“Ascoltami. Qualsiasi cosa io scopra, qualunque cosa possa essere successa … non cambierà quello che c’è fra noi, te lo giuro …” mi stringe la mano, intrecciando le dita alle mie.
“Non ho dubbi su di te, Bella… ho dubbi su me stesso, su quello che sono… e se chi mi sta perseguitando avesse ragione? Se i miei genitori avessero fatto qualcosa di orribile, se io fossi davvero…? Non voglio essere un pericolo, una minaccia che incombe su di te…” trema leggermente, gli occhi lucidi.
“Shhh” gli tappo la bocca con un bacio, decisa.
“Ed, ne abbiamo già parlato… so cosa vuoi dirmi… e sai che ci  sarò sempre… stai calmo…” lo abbraccio, facendogli appoggiare la testa sul mio seno.
Restiamo così a lungo, poi sento che si rilassa. Lo faccio riappoggiare ai cuscini, mi sono accorta che si sta addormentando.
“Grazie Bella…” mormora, gli occhi mezzi chiusi da quanto è sfinito. Gli accarezzo una guancia, poi mi alzo.
“Riposati, tesoro. Faccio un salto alla polizia, e torno qui da te. Ti amo.”
Quando esco dall’ospedale sono calma, determinata. Passo alla stazione di polizia, ma mi aspetto che il tenente Godwin si comporti esattamente come ieri, e infatti è così. Non dà peso a quello che gli dico, probabilmente pensa che io sia solo una ragazzina stupida che si diverte a giocare a fare il detective. Non sa quanto si sbaglia, penso, mentre mi liquida con un distratto “Signorina, non si preoccupi, gliel’ho già detto, ce ne occupiamo noi, ma vedrà che le cose non sono legate, dopotutto il suo fidanzato non ha mai avuto frequentazioni pericolose e la sua fedina penale è immacolata”.
Non sono per niente convinta che se ne occuperanno, e sono certa di dovermi preoccupare, ma mentre esco dalla stazione di polizia sto già pianificando la prossima mossa. Vado alla biblioteca centrale, un labirinto immenso, che io adoro, costituito da decine di corridoi in penombra circondati da migliaia e migliaia di volumi di tutte le epoche e in tutte le lingue.
Emma, la bibliotecaria, una ragazza magrissima e piccolina, con una gran testa di riccioli biondi, è stata mia compagna di corso al liceo, e mi accoglie con un sorriso preoccupato, chiedendomi come sta Edward. Le rispondo solo che sta un po’ meglio, poi le lancio la bomba.
“Scusa, Emma,  ma avrei un favore enorme da chiederti, so che sarà abbastanza difficile, ma avrei bisogno di tutte le informazioni che riesci a trovare su Carlisle e Esme Cullen, sono morti una ventina di anni fa in un incidente…” sorride, annuendo, e mi mormora che farà più in fretta che può.
Torna dopo una mezz’ora con un fascicolo ridottissimo, scusandosi.
“È stranissimo, ma il computer dà pochissimi risultati accessibili, gli altri sono criptati e inaccessibili al pubblico…”
Con la sensazione di aver fatto centro, la ringrazio dicendole di non preoccuparsi.
“Non capisco davvero… mi sa che stavolta hai trovato pane per i tuoi denti, cara mia…” Rido, cercando una risposta spiritosa ma che non desti troppo la sua curiosità. Non voglio attirare l’attenzione di nessuno su questa faccenda, sia perché sarebbe pericoloso farlo, sia perché so quanto Edward stia male a parlare del suo passato, e non voglio fare troppa pubblicità alla cosa. Ritorno a casa, consapevole del fatto che l’orario di visita dell’ospedale non inizierà fino alle cinque e che non mi conviene mettere più a dura prova di quanto non ho già fatto la tolleranza del primario.
Appena rientro, appoggio il fascicolo che mi ha dato Emma nell’ingresso, e, dopo essermi cambiata e indossando dei comodi pantaloni da ginnastica e un pile, mi dedico a mettere ordine nel caos che è diventato il mio appartamento negli ultimi giorni, quando ho passato tutto il mio tempo in ospedale e sono passata da qui solo per cambiarmi e tentare di dormire un paio d’ore.
Quando finalmente la casa ha ripreso un aspetto presentabile, mi preparo una tazza gigantesca piena di tè, recupero i documenti dall’ingresso, mi accomodo sul divano e comincio a cercare di capirci qualcosa.
 
  
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