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Autore: Fusterya    29/04/2012    7 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4° capitolo (breve, di transizione e preparazione al resto): durante la stessa sera del 3°, in cui ognuno affronta i fantasmi a modo suo.


Canzone ispiratrice: The Boxer Rebellion “We have the place surrounded “

link: http://www.youtube.com/watch?v=AXpU2MDxO3o


You doubting what I see    

For a fraud                
Is all you are to me            

And you don’t know what i’ve been through
You come in from all sides
No you don’t know what i’ve been through
You come in from all sides
You wanted
You wanted love

And it’s so hard
It’s so hard

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Il salone è quasi buio, appena rischiarato in fondo dalla luce delle ultime braci del grande camino... Mycroft ha intuito che è lì non appena è entrato in casa.
Ha scrollato e chiuso con la solita cura uno dei suoi ombrelli di James Smith & Son, uno dei più resistenti per una serata come questa, e lo ha riposto nella rastrelliera all’ingresso insieme all’impermeabile.
Si sistema la giacca, sospira lentamente per contrastare la pesantezza che gli si sta lentamente adagiando nel petto, poi si dirige di là.

Non accende le luci, sa che non lo sopporterebbe.
Lui è seduto davanti al camino, nella grande poltrona di cuoio dalla spalliera alta.
Ha ancora il cappotto addosso.
Le gambe incrociate.
Le mani da violinista appoggiate ai braccioli, le dita che tamburellano sulla pelle pregiata come se stesse portando il ritmo di qualche brano musicale.
Man mano che si avvicina, Mycroft può scorgerne il profilo immobile, incorniciato dai bagliori arancio del camino.
Un profilo indurito, imperturbabile, se non fosse per quelle mandibole serrate.
Gli zigomi sembrano più affilati del solito, stasera.
Ha i capelli arruffati in una confusione senza senso; gli occhi sono spalancati, trasparenti: mentre gli si porta accanto, Mycroft può intravedere i riflessi del fuoco attraverso il loro cristallino.
Non batte le ciglia neanche una volta.
Sono trasparenti eppure senza luce.
Si ferma a fianco a lui e appoggia una mano sulla spalliera della poltrona.
Lo conosce fin dalla nascita, sa che non è un buon momento per una conversazione, ma deve sapere, anche se il suo linguaggio del corpo ha già parlato per lui.
Sospira di nuovo, cercando le parole.
“Non sospirare”.
Mycroft trasalisce impercettibilmente.
La sua voce è gorgogliante e scura come un fiume sotterraneo.
“Ci sei riuscito?”
“No.”
Silenzio.
Mycroft si muove e si va a sedere sulla poltrona gemella, di fronte a lui. Come in una versione stonata di quell’altra casa.
Sherlock non muove un muscolo, solo le dita continuano il loro tamburellare nervoso in una sequenza che non sembra casuale.
Mycroft ora lo guarda bene in viso, sembra una statua di pietra.
“Cosa ti ha detto?”
Sherlock tace e fissa un punto lontano oltre il fratello, oltre la casa, oltre i confini della città.
Mycroft comincia ad esasperarsi.
“Sherlock... adesso sa che può essere in pericolo. Cosa pensa di fare?”
Sherlock muove impercettibilmente le iridi e lo fissa.
“Niente. Non gli importa.”
Torna a guardare quel punto lontano.
“Che vuol dire... non gli importa?”
Sherlock ferma le dita e le affonda nel cuoio.
“John Watson non esiste più, Mycroft. Non ha più niente a che fare con me, con noi, con tutto. Vuole essere dimenticato e non più disturbato, e noi gli faremo volentieri questo favore.”
Mycroft è colpito. Davvero non avrebbe creduto...
“Glielo faremo?”
“Dopo che avremo chiuso il cerchio: per il momento mi sento in dovere di assicurarmi che non gli venga fatto alcun male. E così farai tu. Rafforzeremo la sorveglianza, aumenteremo i tuoi uomini sotto copertura, io stesso lo seguirò, intercetterò le sue comunicazioni e quant’altro. Non è necessario che lui lo sappia per certo, anche se lo immaginerà. Alla fine di tutto, ognuno di noi andrà per la sua strada. Io, tu, Lestrade, tutti. E’ questo il suo desiderio, e così sia.”
Mycroft abbassa per un momento il capo.
E’ strano come la durezza di John stia colpendo anche lui.
Sherlock è annientato, può sentirne l’odore. E non può fare nulla per aiutarlo, non ha mai avuto nessun potere su di lui.
Anni e anni trascorsi nel timore di trovarlo ammazzato in un vicolo, o impazzito completamente... e poi, miracolosamente, aveva potuto respirare grazie a John.
John era quello che lo teneva qui, inchiodato a questa Terra.
John aveva abbracciato le sue esagerazioni, le sue ossessioni, le sue mancanze, ed era riuscito ad addomesticarle un po’, a impedire che gli facessero del male.  
E adesso?
“Sherlock... ci ripenserà.”
Silenzio.
“Passerà il tempo e andrà tutto a posto, tu per lui...”
“Stai zitto!”
E’ immobile come prima, gli occhi adesso sono chiusi.
Muove la testa indietro e la appoggia alla spalliera, esausto.
Prosciugato.
“Taci, Mycroft. Non lo nominare mai più. E adesso vattene, sto pensando al caso.”

John -

E’ da pazzi, sono andato via di qui poco più di un’ora fa, ed eccomi di nuovo con la schiena appiccicata a questo portone verde scuro.
Per fortuna non è notte fonda, ma, anche in quel caso, sono convinto che ci sarei venuto lo stesso.
Non riesco a far entrare aria nei polmoni normalmente, faccio solo corti respiri nervosi che non aiutano la mia tachicardia.
Mi sento come quando sono tornato dall’Afghanistan.
Questo è peggio.
Il mio personale campo di battaglia.
Piove ancora e non ho preso l’ombrello, uscendo.
Che imbecille.
Cerco il telefono nelle tasche con le mani bagnate, che tremano per il freddo, e compongo il numero.
Ho pena per me stesso.
Ho pena per l’essere costretto a mendicare aiuto così.
Ho pena per chi deve essere costretto a farsi infettare da Sherlock Holmes.
“John?” La voce è calda, con una punta di ansia.
Stringo gli occhi, va già meglio.
“Flo... “
“John, è tutto ok?”
“No,... cioè...no, sono di nuovo qui sotto. Posso salire?”
Silenzio.
“Lo so che è tardi... scusami”
Il ronzio e il clik della serratura che scatta alle mie spalle sono la risposta, e la folle gratitudine che mi risale in gola mi riscalda per un breve istante.
Quando mi apre la porta e mi guarda, sgrana gli occhi castani per lo stupore.
“John, dio... sei zuppo!”
Allunga le mani e mi prende gli avambracci, mi tira letteralmente dentro.
“Non fa niente” balbetto io.
Chiude la porta, mi spinge verso il piccolo soggiorno caldo e riposante.
Non è come casa mia, questa qui.
Non è una landa arida e desolata.
Ci sono bei mobili chiari, una lampada a vetri colorati che emana una luce iridescente che fa probabilmente addormentare sul divano azzurro, coperto di cuscini dipinti a mano.
La tele è accesa su uno di quei programmi serali che conciliano il sonno.
“Togliti la giacca... ma che è successo?”
Mi aiuta a sfilare il giubbotto bagnato e lo appoggia sulla spalliera di una sedia.
Mi giro a guadarla.
Ha i capelli ricci sciolti e un po’ arruffati, senza trucco, ma il suo viso è regolare, franco come sempre.
Gli occhi grandi e castani mi guadano ansiosi.
Non riesco a trovare le parole, non so da dove cominciare.
Come glielo dico senza piegarmi?
Prendo due respiri profondi, cerco di controllare il caos che ho dentro, lei non merita la mia disperazione.
“Una cosa... assurda.”
Non riesco proprio a dire altro.
Mi scruta per un po’, si stringe la vestaglia azzurra sul petto e, come sempre, ci pensa lei.
“Riguarda Sherlock.” dice.
Mi sfugge una sottile risatina sarcastica.
“Penserai che sono pazzo, che tutto quello che ti ho raccontato in questo mesi sia frutto di una mente malata....”
“John, no!” mi interrompe perentoria, si avvicina, mi appoggia le mani sul petto “non ricominciare. Io ti credo e tu lo sai. So che non sei un pazzo, credo di averti conosciuto un po’ in tutto questo tempo. Cosa è successo?”
Io sbatto le ciglia confuso, indeciso se quello che sto per dire l’ho visto davvero o l’ho solo sognato.
“E’ vivo, Flo.”
Adesso sta zitta. Ovvio.
Mi guarda dritto negli occhi e aggrotta le sopracciglia.
“E’ vivo” ripeto con lo stesso sorriso distorto di prima.
Posso quasi vedere i suoi pensieri confusi accavallarsi dietro gli occhi scuri e brillanti: sta decidendo se portare avanti questa conversazione o meno.
“Cosa dicevi a proposito del non essere pazzo?”
“Cosa...” balbetta “Che vuol dire: è vivo? Come può essere? E tu.. tu come lo sai?”
Sento la pioggia fredda scivolarmi dai capelli fino al collo.
Come posso spiegare?
Come?
“Stasera l’ho visto per la seconda volta” comincio, e sento la mia voce assottigliarsi “la prima è stata 12 giorni fa. Non è morto... è stata tutta una messinscena. Solo lui poteva esserne capace.”
Lei continua a fissarmi esterrefatta.
In quel momento mi rendo conto di cosa sto facendo.    
“Oh dio... perché vengo qui a scaricarti addosso questa roba? No, che idiota. Scusami, ti prego... scusami!”
Mi muovo verso la sedia su cui è poggiata la mia giacca ma lei mi trattiene per un braccio e mi rifà voltare verso di sé.
“John, io ti credo. Non devi dubitare di questo.”
Dio, grazie!
Abbasso la testa. Non me lo merito.
Sento che mi abbraccia, anche se sono inzuppato d’acqua, e freddo.
Il suo calore mi fa cedere.
“Oh, John... “ sussurra e mi stringe per consolarmi.
Piango in silenzio.
Non vorrei.
In questi ultimi 12 giorni mi sembra di non riuscire a fare altro, ma proprio non riesco a combattere.
Piango in silenzio sul collo di Floren, con la testa piegata e affondata tra i suoi capelli, e non provo alcun sollievo.
Non provo alcun calore.
Solo abbandono, e freddo, e solitudine.
E’ tutto quasi uguale a come era prima di incontrarti, ma allora non mi mancavi.
Vivevo sereno nell’ignoranza, nella routine, nel bisogno di tornare in guerra, in una specie di solitudine in un certo senso organizzata, ed era una cosa buona.
Adesso non c’è un pezzetto di me che non urli e non mi faccia male.
Perché, quando sei caduto, io ho capito che non avrei mai potuto dirti una cosa fondamentale, nè posso adesso, anche se mi basterebbe fare una telefonata e sentirti anche ridere di me, nè potrò in futuro.
Perché l’insopportabile verità, per quanto tu stasera abbia cercato di convincermi del contrario, è che per te io sono nessuno.
Io sono nessuno per chiunque.
Anche per Floren, buona e dolce, che forse è solo una donna nella sua quarantina con l’istinto dell’infermiera, come ce ne sono tante, e ha pensato che quella di riaggiustarmi fosse una missione.
Le sono grato, sì, ma francamente non provo niente per lei, niente in assoluto, anche se lei lascia che io pianga in silenzio, lentamente, senza fretta, finché la disperazione si trasforma in una sottile, asciutta linea di agonia che corre piatta nel mio sterno.
Quando mi rendo conto che è così, mi stacco pian piano da lei, che mi guarda comprensiva.  
“Ti porto un asciugamani” mi dice con dolcezza “metto su un po’ di thé e poi mi dici tutto, è ok?”
Annuisco. Sì, è ok.
Ho bisogno di parlarne.
Ne devo parlare per ore, come non ho potuto fare in tutto questo tempo, perché la mia forza di volontà resti salda, incrollabile.
Perché davanti a te tutto crolla, Sherlock.
Il bene e il male.
Le leggi stesse della fisica.
Le mie convinzioni.
Il mio passato.
Le idee che avevo di me stesso.
L’idea che mi ero fatto di te.
L’idea che credevo avessi di me.
E’ tutto sottosopra, tutto sbagliato.


Un paio d’ore dopo siamo nel suo letto.
No, non è successo nulla di ciò che può sembrare, come potrei anche solo pensarci?
Per lo meno non oggi.
Mi ha semplicemente chiesto se volessi restare perché sono le 2 del mattino, e non abbiamo trovato nulla di strano nello sdraiarci insieme.
Questo potrebbe essere un segnale per il futuro, credo.  
Una piccola, misera, per ora insignificante promessa di pace, di riposo, ma che in questo momento conta qualcosa.
Mi sono asciugato, ho parlato, ho detto tutto ciò che c’era da dire, lei mi ha risposto con tutto ciò che c’era da rispondere... e sai una cosa?
Ti ha difeso.
Ti conosce solo attraverso la mia voce, e ti ha difeso. Anche con parecchia convinzione.
Ogni volta che imprecavo contro di te, mi chiedeva “ma ne sei sicuro?” “sei certo l’abbia fatto per questo motivo?”
Come il fatto inconcepibile che tu non mi abbia mai detto da subito di essere vivo.
Immagino, come mi hai fatto capire stasera con quel video, che il mio dolore dovesse essere genuino agli occhi di chi mi osservava per fugare da me ogni male: essere accusato e processato per complicità nei tuoi presunti, falsi crimini, o essere in ogni caso fatto fuori dalla gente di Moriarty.
Lo capisco, è una grossa giustificazione: lei me lo ribadisce, e ascoltarlo attraverso la sua voce mi fa sentire in apparenza meno arrabbiato.
Ma la mia ferita è irreversibile.
La sento, come se fosse fisica, come quella dai bordi irregolari che ho sulla spalla destra e che ancora si irrita e tira la pelle nei giorni di brutto tempo.
Mi sto addormentando lentamente, finalmente provo un po’ di sollievo.
Il letto è caldo, confortevole, e la presenza discreta di Flo mi aiuta a trovare un po’ di pace.
Forse non è impossibile come credevo fino a qualche ora fa.
Forse posso davvero andare avanti.
  
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