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Autore: sistolina    30/04/2012    3 recensioni
(Emma/Jefferson (Mad Hatter) - Post 1x18
“E' qui per il nuovo John Doe della Rianimazione?”
“E' lì dentro?” chiese stupidamente Emma, presa dal panico
“Di certo non è nel Paese delle Meraviglie”
Pareti bianche, letto in ferro battuto, lento e ripetitivo trillo dell'elettroencefalogramma, lo stesso che fino a poco prima le era sembrato confortante la trascinava in un baratro di panico e angoscia, lenzuola bianche perfettamente stirate, plastificate alla consistenza del tocco.
Al centro di quell'immobile quadro minimalista di sospensione dell'incredulità, lui.
[...]
“Ricorda qualcosa?” troppo avventata Sceriffo, così non va.
“Nessuno ha ancora verificato. Lo hanno trovato conciato parecchio male sulla Statale, hanno chiamato il 911 e tanti saluti”
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il Paese delle Meraviglie

 

So say my name
And every color illuminates
And we are shining
And we’ll never be afraid again

( Spectrum, Florence + The Machine)

 

 

 

Non le piaceva.

Non le piaceva per niente.

Essere legata mani e piedi ad una sedia girevole non rappresentava il sogno erotico per eccellenza di Emma Swan, meno che mai se la persona coinvolta in esso era uno psicopatico maniaco convinto di provenire dal mondo della fiabe.

Certamente Jefferson Hat non era un uomo dai gusti ordinari, o almeno quella era la sensazione che le trasmettevano il filo da cucito che aveva usato per legarla e lo scampolo di raso blu che le fungeva da bavaglio.

Contro ogni aspettativa e credenza popolare, il filo da cucito è un materiale incredibilmente resistente se lo si utilizza in dosi massicce. Quello che avvolgeva i polsi e le caviglie di Emma era bianco, abbacinante, di lana, se il suo senso del tatto non sbagliava, e costituiva un ammasso di materiale così spesso e ampio da renderle impossibile perfino muovere le mani senza avvertirlo penetrarle nella carne.

Uno specchio enorme campeggiava nella stanza dove la teneva legata, un luogo illuminato a tratti, spiragli di luce che penetravano attraverso drappi di pesante stoffa color porpora scuro, sanguigno ed austero come ogni angolo della casa, così stridente rispetto alle aspettative fiabesche di un Cappellaio Matto proveniente dal Paese delle Meraviglie.

Ma l'uomo che si dondolava nervosamente sul treppiedi di legno da ciabattino del medioevo, mugugnando parole senza senso in una lingua per lei incomprensibile e reggendosi la testa con mani incerte e laboriose, era senza ombra di dubbio quanto di più lontano ci si aspetta da un personaggio delle favole.

A meno che quelle favole non contemplino persone morte, sofferenti e con turbe psicotiche.

Tuttavia, quando Jefferson liberò la testa dalla sicura stretta delle proprie braccia intrecciate, qualcosa di folle e inesplicabile ammantò il suo sguardo, la sua postura, l'espressione contrita e disperata delle sue labbra definite.

La follia balenò nei suoi occhi preoccupantemente grandi, senza che Emma potesse trovare una sola boccata d'aria pura nell'umidità soffocante di una stanza scaldata a legna, con le finestre chiuse, e la bocchetta del comignolo probabilmente chiusa dai tempi dei Beatles.

Tutto era caldo, caldo e soffocante. Caldo, soffocante e oppressivo, come lo sguardo allucinato di Jefferson Hat.

Non c'era una dimensione definita nella traiettoria dei suoi occhi che balenavano ovunque, più terrorizzati da cosa li circondava di quanto lo fosse lei, soffermandosi con orrore su ogni oggetto, ogni ombra inevitabile creata dai giochi di luce del flebile sole che penetrava nella stanza, ogni riflesso cangiante e semovente inviato dallo specchio che cigolava ad ogni movimento. Sembrava quasi che le vibrazioni della sola permanenza di due persone su quel pavimento facessero sussultare le fondamenta della casa intera.

Jefferson si alzò ferocemente dallo sgabello, compiendo un intero giro della stanza prima di colpire violentemente la parete con un pugno impregnato di frustrata confusione.

“Perchè Emma?” piagnucolo a labbra serrate “Perchè?”

Da vicino, la sua totale mancanza di chiarezza e consapevolezza di sé acquisiva una dimensione onirica totalmente estranea alla realtà: respirava come se avesse intrappolato nel petto un cavatappi, a brevi e fischianti sibili, si muoveva a scatti, prima lentamente, poi velocemente come rinvigorito da una nuova forza, poi di nuovo debolmente, crollando sotto il peso di terrore misto a confusione, misto a qualcosa di ancora più spaventoso, perché ricordava ad Emma di un libro, una favola, e un dubbio che le era strisciato nella mente un istante, uno solo, ma sufficiente a farla crollare.

Quando Jefferson le poggiò le mani sulle spalle, avvicinando il proprio viso solcato dalla frustrazione e l'inadeguatezza al suo, Emma vide balenare qualcosa nelle sue iridi dell'azzurro più sfaccettato, quasi bianco e allo stesso tempo indaco, qualcosa che la costrinse a serrare le dita nel palmo della mano, quasi a farsi sanguinare la pelle e allo stesso tempo i polsi per la pressione esercitata dal filo.

In un momento imprecisato fra la bocca di lui che si frastagliava in un sospiro tremante, e la propria fronte che scattava in avanti con violenza, Emma Swan scorse il fondo oscuro della tana del Bianconiglio. Scorse un roseto dipinto malamente, una siepe carnivora, una regina crudele dalla voce maschile.

Si perse nella trama dei propri ricordi di bambina, lasciando scorrere le dita fra i nodi della memoria, ad un tempo di calda e confortante dimensione fantastica, allo scorrere dell'acqua dal basso verso l'alto, ad un momento di totale abbandono, di inerme forza e di fragile indistruttibilità.

Camminò a lungo in quegli occhi spalancati e tremanti, camminò con calma, assaporando la via costeggiata di funghi giganti e bruchi parlanti, camminò intrecciando corone di fiori canterini sotto la luna piena e sorridente.

Alla fine del suo viaggio, raggomitolato in un ammasso di cenci dai colori improbabili, fremente di una frenetica attività, tremante di una delusa determinazione, lo vide.

lo sguardo febbrile del Cappellaio Matto.

***************************

 

Sono intrappolato dalla consapevolezza...

 

Ormai era un sibilo costante, a tratti invadente, che premeva contro le tempie così intensamente da fargli sanguinare gli occhi. Il sangue aveva smesso di colare a fiotti dal naso rotto, ma sentiva la faccia gonfiarsi e pulsare ogni istante, strappandogli gemiti soffocati.

Serrare le palpebre con forza era stato inutile.

Comprimersi il cranio era stato inutile.

Perfino pregare lo sarebbe stato. Ma non lo è mai.

Solo dolore. Dentro di sé, attorno a sé, per causa sua.

Emma aveva finalmente smesso di dimenarsi, esausta, mentre la notte s'impadroniva del cielo, e anche la flebile luce del sole invernale lasciava spazio all'oscurità.

Anche l'oscurità gli apparteneva, lottando costantemente con i colori accesi che avevano schizzato malamente di ricordi la sua vita. E, come una tavolozza sporca e mescolata, Jefferson Hat non conosceva più la differenza fra le tinte fosche e oscure di sé, e l'acceso arcobaleno di follia del Cappellaio Matto.

Eppure c'era, ed era lui stesso.

Sentiva, vedeva, poteva perfino odorare il Paese delle Meraviglie, eppure qualcosa sfuggiva al suo controllo.

Grace...

Avrebbe urlato, e pianto, e poi di nuovo urlato. E invece si lasciò cadere a terra, un filo di seta bianco abbacinante fra le dita e uno scampolo di stoffa nera, lucida, liscia.

Una voragine di oscurità e ricordi trattenuti da un filo di seta, tenuti insieme da un filo di seta, imprigionati da un filo di seta.

Un solo, sottile, filo di seta bianca.

“Oh, ti prego, un po' di originalità!” pareva che Emma Swan non avesse mai paura. O che la mascherasse molto bene, o che la usasse, come un'armatura, per lottare più duramente.

O magari lui era solo l'ombra di se stesso, e non aveva nulla da temere sul serio, perché quel cencioso, folle, solitario e disperato Cappellaio non aveva più carte da giocare.

Sollevò lo sguardo sull'intricata trama di capelli biondi che le s'intrecciavano attorno al viso, e per un attimo qualcosa di simile ad un ricordo, vivido, intenso, delimitato da una cornice di realtà che fino a quel momento era stata fumosa e incerta, parve materializzarsi. Ricordò i suoi occhi grandi e blu macchiati di trucco colato malamente dalle palpebre, ricordò le sue dita che si arrovellavano su di un cappello disfatto, ricordò il suono di parole di cui non ricordava il senso ma poteva percepire il calore, e la confortante sensazione di familiarità ad ammantare una solitudine senza orizzonte e senza nome.

Grace

E ricordò il dolore di guardare tutto questo infrangersi attraverso di sé, fuori da sé, uno sguardo malamente intercettato dall'oblio di un vuoto insopprimibile.

Lei gli aveva mentito.

La rabbia fu cocente per un attimo, amara come la bile sul fondo della gola riarsa da una sete insaziabile.

Poi più nulla.

Grace....

“Ben svegliata Sceriffo” gli occhi grandi di lei si affilarono in uno sguardo di puro disprezzo. Ma chi se non lei?

“Spero che faccia un male d'inferno” sputò fuori Emma dimenandosi un poco, rivolta al suo naso rotto, gonfio e violaceo.

Il dolore, per Jefferson, era stato semplicemente l'ingrediente segreto di ogni ricetta. Cosa poteva significare per lui un osso fratturato di fronte alla possibilità di tornare indietro?

Ma indietro dove? Dove davvero voleva tornare?

Una strada infinita, ondulata e circondata di colori accesi come le tempere acriliche era la sua unica via.

Il cielo era blu, di un colore intenso quando un pugno.

Il prato era verde, sfumato di chiaro e di giallo, abbacinante come il sole.

E il rosso, e il viola e il marrone denso e grumoso della terra, e del fango, e delle sue impronte lasciate sul viale che non finiva mai. Mai.

Funghi...marrone come i funghi vischiosi che stringeva fra le dita nel profumo muschiato di erba bagnata e sottobosco.

Il frusciare del vento nella foresta, simile al familiare richiamo di un vecchio amico.

C'era felicità in quell'attimo, serenità e pace nel lasciarsi cullare dalla canzone della sua giovinezza, di quel momento in cui non c'erano il calore gelido della paura e la solitudine a colargli per la gola in lenti rivoli di lame affilate sulla pelle.

Sapeva com'era quando lei era con lui.

Sapeva cosa significasse avere fame in un freddo giaciglio di paglia e stoffa pruriginosa, e non sentire nemmeno per un attimo il desiderio di essere altrove.

C'era stata armonia in quella vita, pace, completezza.

E c'era stato un coniglio bianco per una moneta d'argento che lui non aveva, un ghigno malvagio, uno sguardo deluso, e la perdizione di un bisogno che non sapeva di avere ma che doveva soddisfare.

C'era stato il sole a scaldargli il viso nelle ore che precedono il disastro. Lui l'aveva bevuto per voltargli le spalle, e aveva scelto l'oscurità.

Quello sì, quello era dolore.

Grace

Si avvicinò a lei, le gambe che cedevano ad ogni passo, la vista punteggiata di colori, luci e suoni, che fosse possibile o no vedere dei suoni.

Emma lo guardò avvicinarsi, ritirandosi in se stessa suo malgrado, senza abbandonare quella sfida che pareva rivestire di brina invisibile la sua pelle pallida.

Si lasciò cadere lì accanto, la sola vista di lei a confonderlo, esausto

“Salvami...” avvertì il calore dell'umida sconfitta colargli lungo le guance, la presa farsi debole sulla fredda pistola così estranea al suo corpo e al suo vivere, e la furia abbandonare il suo corpo, sommessamente, lasciandolo nudo e inerme di fronte al folle sadismo della sua mente.

Grace...

 

********************

 

Quindi forse hai ragione tu.

Forse devo aprire la mia mente

 

“Hei, hei!” lo colpì, senza fare del nulla una cerimonia, con colpi rapidi accompagnati da schiocchi decisi. Una piccola soddisfazione.

Sapeva che avrebbe semplicemente dovuto andarsene, alla peggio arrestarlo e sbatterlo in galera per aggressione, rapimento o chissà cos'altro. Le era passato perfino per la mente di incriminarlo per il sequestro di Kathryn Nolan, ma lo sbirro che c'era in lei ebbe la meglio sulla violenta, offesa, malmenata e reclusa Emma Swan, incazzata nera.

Jefferson aprì piano gli occhi, muovendo appena la testa: il setto nasale deviato pulsava di un viola stomachevole, ed entrambi i penetranti occhi azzurri erano socchiusi e gonfi. Le lacrime gli si erano asciugate sugli zigomi macchiati di ematomi dalle diverse gradazioni del viola, giallo e nero, la pelle che riassorbiva pazientemente ogni colpo.

Diciamo che il viso elegante e spavaldo di Jefferson Hat aveva dovuto resistere a parecchi attacchi del karma in quell'ultimo periodo.

Non tentò di opporre resistenza, il corpo che aveva rinunciato a lottare e la stanchezza che si era fatta sentire prepotentemente nelle ultime ore, gli antidolorifici abbandonati intoccati su un comodino, le ricette e i documenti di dimissioni dall'ospedale giacevano appallottolati nella bocca del camino, ormai cenere. Se quell'uomo aveva avuto la vaga intenzione di curarsi, era passata.

“Emma...l'ho vista...” sussurrò “io...devo” tentò inutilmente di alzarsi dalla sedia alla quale era assicurato a doppia mandata con le manette tanto strette da penetrargli nella carne dei polsi. Si era sentita per un attimo in colpa a procurargli altre ferite, ma il taglio pulsante sulla fronte le rammentò che l'uomo non aveva avuto altrettanta premura

“Resta dove diavolo sei” lo minacciò serrando la presa sulla sua clavicola; emise un gemito somigliante ad uno sbuffo di dolore, e si afflosciò su se stesso. La schiena doveva fargli un male del diavolo. Buon per lei “Cosa credi di ricordare?” gli domandò con rigida praticità.

Lui sorrise, o almeno tentò, contorcendosi in espressioni di dolore malcelato mescolate a sospetto e colpa, e un pizzico di speranza, anche al di sotto di tonnellate di incubi direttamente raccomandati dal Paese delle Meraviglie

“Tu cosa credi che ricordi?” nonostante tutto era un uomo a cui non piaceva concedere spazio, nemmeno a lei, nemmeno conciato com'era, nemmeno legato, imbavagliato, a testa in giù o chissà cos'altro. Amava vincere, Jefferson Hat, e se non poteva farlo, voleva per lo meno farle accarezzare l'idea di un pareggio. Sollevò un angolo del labbro gonfio e tumefatto, in un'altra pietosa imitazione di sogghigno. Pensò distrattamente che perfino a Mary Margaret sarebbe riuscita meglio “è lì Emma, a portata di mano. La verità, e tu devi solo allungare la mano e prenderla. Un salto nel vuoto, un tentativo. Solo uno, Emma, e potresti riuscirci” emise uno sbuffo rassegnato nel notare il sopracciglio di lei che si inarcava con decisione “perchè, semplicemente, non lasci che io te lo mostri?”

“Forse perché non c'è niente che tu possa mostrare a me, Jefferson. Sei uno psicopatico dalla personalità dissociata. Sei pericoloso e malato. Hai capito? Malato, e non lascerò che mi punti di nuovo la pistola addosso per farmi cucire un altro dei tuoi assurdo cappelli a cilindro” gli occhi di lui, nonostante tutto, s'illuminarono

“E' così allora. Hai paura” quella volta riuscì a sorridere, mescolando malamente le varie tonalità di viola dei suoi lividi “temi che sia tutto vero, che io abbia ragione, che Henry abbia ragione” spalancò gli occhi al massimo di quello che gli ematomi potevano concedergli, e la fissò “se tutto questo è vero, se il Paese delle Meraviglie e il mondo delle favole esistono davvero la tua fottuta razionalità se va' in malora uh? E tu non puoi permetterti di essere debole, vero Sceriffo? Perché se la realtà che conosci fa acqua, allora tutto questo perde il suo senso...tutta la sofferenza, e il dolore, e la ricerca, se Mary Margaret è davvero tua madre allora non sarai più sola, non potrai chiuderti la porta alle spalle a doppia mandata, è così? Dovrai lasciar entrare qualcuno...” aspirò a labbra socchiuse una boccata d'aria che si trasformò in un sibilo tagliente “Te la stai facendo sotto dalla paura all'idea che io non sia completamente pazzo è così?” Emma rimase immobile, la mano ancora serrata attorno alla clavicola di lui come una morsa.

Jefferson Hat non poteva dire la verità, non poteva essere consapevole di qualcosa di così, così, impossibile. Henry era un bambino, Augustus uno scrittore con troppa fantasia, e Jefferson uno psicopatico dissociato e pericoloso. Eppure il libro esisteva, e il Cappellaio Matto che confezionava migliaia di cilindri solo per tornare a casa, solo per riavere indietro sua figlia, solo per non essere più solo, e fare in modo di essere da lei per l'ora del the, perché il the era importante, era un loro rito, era qualcosa che semplicemente non poteva aver inventato, era marchiato nella sua mente. Indelebilmente.

Riconosceva quella brama, quel bisogno, quella folle ricerca. Forse non le appartenevano nella stessa maniera, forse non sarebbe andata così, forse Emma non avrebbe rapito qualcuno, o minacciato di ucciderlo, ma aveva gettato al vento ventotto anni di lavori in corso per costruire attorno a se stessa un muro abbastanza resistente da tenere gli altri fuori di sé, e l'aveva fatto dopo appena cinque minuti che Henry Mills era entrato nella sua vita. Suo figlio, qualcuno per cui correre.

E Jefferson Hat non aveva mai mentito. Non una sola volta. Lei l'avrebbe saputo, l'avrebbe letto nel suo sguardo di folle visionario, ma non era accaduto.

Che lui ne fosse erroneamente convinto, che avesse creato un immaginario tale nella propria mente da non contemplare altra realtà che quella dei suoi vaneggiamenti, Emma non avrebbe saputo dirlo, ma niente di tutto quello che le aveva sussurrato all'orecchio in quelle interminabili ore di prigionia era una bugia.

Forse il suo cervello mentiva al cuore, forse il cuore ingannava il corpo, e il corpo non rispondeva alla ragione, ma quell'uomo, pazzo o meno che fosse, non aveva pronunciato una sola sillaba in cui non credesse completamente, dolorosamente e indelebilmente.

Ci credeva così tanto, che stava cominciando a crederci anche lei.

Lo guardò dall'alto in basso, studiando il digrignarsi sommesso delle sue mandibole, il respiro affannoso e irregolare, il tremolare leggero delle palpebre e delle dita delle mani, severamente immobilizzate dalle manette.

Le veniva concesso un solo istante per decidere di lui, del suo destino, della sua vita. Un solo secondo in cui soppesare un'intera esistenza, di cui non conosceva che qualche confuso stralcio.

Osservò in lui la sconfitta, la perdita e la follia di una disperata ricerca priva di risultati, la determinazione nata dalla confusione fra i mezzi e i fini, la convinzione e l'intelligenza analitica, veloce, scattante e pronta ad afferrare ogni sua esitazione per trasformarla in un'arma. E poi la quiete, la pace, la rilassatezza di una giornata al sole di una radura nel bosco dietro casa, una tovaglia di stoffa lisa dai lati, un po' di formaggio a cubetti, una torta, magari di Granny visto che le sue facevano pena, e un pallone da calcio con le cuciture rovinate dall'uso. Magari un libro di favole, e la certezza che ci fosse ancora spazio per un lieto fine anche nella vita vera.

Si accorse di vedere se stessa negli occhi pesti di Jefferson Hat, nella sua strenua lotta, nella sua fiducia nel futuro. Suo malgrado, anche Emma sperava, laddove la speranza l'aveva sfiorata per disintegrarsi contro il muro di razionalità che aveva costruito saldo attorno al suo cuore.

Ma lei era ancora lì, vischiosa e densa lungo la schiena, che premeva attraverso quella crepa invisibile che portava inciso un solo nome.

E così Emma Swan ebbe stretto fra le dita l'intero destino di un uomo, leggendolo attraverso i suoi occhi e la pesante persistenza di se stessa dentro i suoi ricordi, e attraverso lui ammise finalmente con se stessa che il sole era caldo, il vento fra i capelli non si poteva spiegare a parole, e i caldi raggi cadevano perpendicolari sui fili d'erba di speranza che stavano nascendo fra le crepe del suo muro.

Le sembrò di essersi arresa ad un assedio che la cingeva da ventotto anni.

“Alzati, dobbiamo andare in un posto....”

 

***************************

 

Quanto mi credi crudele?

Pensi che infliggerei a mia figlia

il peso di questa consapevolezza?

 

Non avrebbe mai davvero compreso perché Emma Swan avesse deciso di allontanare la mannaia dal suo collo per concedergli una possibilità. Non gli interessava nemmeno saperlo, non con quel pallido sole autunnale che sembrava incandescente, non con gli schiamazzi allegri dei bambini al di sopra dei clacson isolati che ogni tanto rompevano la routine del chiacchiericcio incessante, le urla spensierate, i rimbalzi irregolari di un pallone lanciato a tutta velocità contro una porta improvvisata con giacche a vento scure appallottolate a terra.

La Scuola Elementare Privata di Storybrooke era austera e povera di fantasia, con le inferriate, le gradinate di pietra, il portone pretenzioso e il ticchettare infelice delle scarpe ortopediche della preside, ma in qualche modo quei bambini erano riusciti a renderlo un posto accogliente, un paio di festoni colorati sulle pareti, qualche sproporzionato disegno di alberi e cestini di frutta e qualche maschera dipinta con le tempere acriliche per Hallowen che penzolava dagli infissi delle finestre.

Un posto dove sentirsi a casa.

“Quindi...eccoci” il maggiolino giallo ammaccato sulla fiancata risaltava anche sotto il cielo ormai definitivamente coperto che prometteva pioggia a secchiate. Emma incrociò le bracca al petto e sospirò, appoggiata al finestrino dal lato del guidatore “non posso cucire un cappello per farti tornare a casa, e di certo non posso lasciarti libero di scorrazzartene in giro nella condizione in cui sei” sembrò giustificarsi “ma posso permetterti di fare questo” indicò con un cenno una bambina dai capelli mossi ed ondulati che correva dietro uno scivolo di metallo dal colore indefinibile.

Nello stesso momento la sua memoria partorì due immagini, l'una certa, indelebile, della stessa bambina che prendeva il suo coniglietto bianco sulle scale di marmo dell'ospedale, e l'altra incerta, fumosa, ricoperta dalla solita patina azzurrina. Quella bambina gli sorrideva con affetto, più di quanto Jefferson ricordasse di aver visto fare in tutta la sua vita da chiunque, in qualsiasi momento. Da qualche parte, quella stessa bambina lo aveva amato. Come un padre, forse.

Grace...

La foresta gocciolante di pioggia si richiuse sopra di lui, l'odore della terra bagnata e del muschio, profumo di funghi appena sbocciati fra le erbacce e le rocce aride, odore di mercato, di pane appena sfornato e di frutta matura. Odore di zuppa calda davanti al camino, a mescolarsi con il profumo di legna bruciata, e di resina.

Una tazzina sbeccata in più punti e dal colore ormai indefinibile, un lungo the delle cinque che non finiva mai, un coniglio con un occhio storto e una casacca di scampoli di stoffa, un sorriso gentile cucito con il filo rosso.

E una porta, uno specchio, un viale colorato ed abbacinante, e sempre il the delle cinque ancora, e ancora e ancora, una sedia vuota in attesa di lei, e una bambina, un'altra, sperduta, il sorriso gentile.

Un buon Noncompleanno!

Tagliategli la testa!

Cappelli, solo cappelli ovunque, di ogni forma, dimensione, origine e declinazione.

Cappelli colorati, a cilindro, fez, copricapi, bombette, kippah tutt'intorno a sé in una danza di terrore e di sconfitta.

Devo tornare a casa.

Devo tornare.

Grace...

“Grace” fu un sospiro, e bastò ad entrambi.

Emma si sospirò

“Mi hai detto che è tua figlia, e si chiama Grace, anche se a Storybrooke il suo nome è Paige”

“Paige” Jefferson accarezzò sulla lingua quella parola, la scompose e ricompose, mescolandola a Grace, alla sua Grace. Cosa di lei era rimasto in quella bambina, in quel nuovo mondo, in quella nuova vita?

La osservò mentre si acquattava dietro una casetta costruita coi tronchi, e tratteneva il respiro per non scoppiare a ridere, per non farsi scoprire da un bambino dai ricci capelli neri. La guardò mentre sgattaiolava da una parte all'altra, accucciata, i soli capelli biondi e sottili a coprirle il viso e le spalle, rilucenti anche in quella penombra piovosa e triste.

E d'un tratto si sentì bene. Aveva cercato per ventotto anni di liberarsi dalla soffocante immobilità di quella vita, di Storybrooke e dei suoi ricordi. Questi erano affiorati con violenza, premendo contro la sua mente già provata dall'attesa e dalla delusione, scavando un'incolmabile vuoto che aveva riarso la sua anima e soffocato la sua umanità.

Tutto per riaverla indietro, per poter tornare indietro lui stesso, per avere il diritto di chiamarla con il suo nome e sentirsi chiamare di rimando. Per ascoltare una voce che non fosse la sua, disperata e stanca, chiusa in quattro mura austere che lo soffocavano quando avrebbero dovuto accoglierlo. Doveva tornare, per essere finalmente puntuale per quel the delle cinque che le aveva promesso.

Ma sua figlia era lì, davanti ai suoi occhi, più reale di ogni vivido sogno lo avesse flagellato in quegli anni.

Era lontana, intoccabile, fulgente da dietro la lente di un telescopio che non gli concedeva la possibilità di toccarla.

“Fra poco arriveranno a prenderla” lo informò Emma, i piedi di piombo dello sbirro e il perfetto controllo della situazione.

E Jefferson si sentì come inseguito da un toro imbizzarrito, ansia e adrenalina che si mescolavano nel suo sangue, fluendo e defluendo, pompando energia al cervello e i polmoni, in un'inquieta calma fino a quel momento sconosciuta. Lei era lì, ma non ci sarebbe stata più.

O forse sì.

I cancelli del cortile si aprirono lentamente mentre una processione di genitori, nonni, tate e parenti si susseguivano in un disordine organizzato dalle auto, dal marciapiede, dalle biciclette o semplicemente sotto ombrelli colorati dalle fantasie sinuose nel grigio torpore di quel pomeriggio di nubi grigiastre a scuotere il cielo.

Li vide avvicinarsi alla scuola, una coppia stretta in un confortevole abbraccio, lei dai setosi capelli scuri, lui elegante, mite e gentile, identici sorrisi sul volto, e comprese il perché di tutto, di nuovo, il perchè avesse atteso, il perché di quel telescopio, di tutti quei cappelli, il perché di Emma in casa sua, della donna dai capelli neri che piangeva terrorizzata, il perché del dolore, del rimpianto e della frustrazione.

Il perché dell'amore.

Grace.

Lei si avvicinò correndo, la gonna della divisa stropicciata sopra le ginocchia, i capelli scompigliati sulle spalle, il cappello di traverso. Gli sembrò di trovare il senso di tutto nell'esatto momento in cui si voltò e lo vide.

Si mosse, non verso i suoi genitori, non verso di loro, no, ma nella sua direzione, attratta forse da quel maggiolino così giallo e così allegro in quella giornata uggiosa.

Si mosse verso suo padre, un padre che non avrebbe mai conosciuto.

“Paige!” la chiamò la madre in quella cadenza fra il sorpreso, il curioso e il preoccupato.

Ma Grace non si voltò neppure camminando a passo spedito finché praticamente non gli si fu fermata sui piedi. Erano così vicini che quasi le loro scarpe umide e infangate si toccavano.

Nell'esatto momento in cui lei sorrise, Jefferson capì che non c'era posto per raggiungerla che non avesse già trovato.

“Ciao” disse semplicemente “il mio coniglio sta bene. Il veterinario lo ha visitato e ha detto che è sano come un pesce” Emma sollevò un sopracciglio

“Il tuo coniglio?” Grace annuì, e perfino l'ombra delle nubi danzò con i suoi capelli biondi

“Whitey, il mio coniglio bianco” era così fiera del suo animaletto, così libera.

Gli occhi di Emma Swan indugiarono su di lei, e poi si posarono sul suo zigomo contuso. Avvertì il suo sguardo esaminarlo, scivolare lungo la guancia, appena accanto al suo sorriso accennato.

Iniziava a capire...

“Paige” la madre la chiamò di nuovo, e questa volta si voltò annuendo impercettibilmente

“Spero che starà bene anche lei” sussurrò allungando una mano verso il suo viso.

Jefferson assaporò quel tocco ad occhi chiusi, e seppe che c'era davvero speranza. Costruita in bilico su una roccia, una speranza di sabbia bagnata sempre in pericolo, ma concreta, vera, pulsante.

“Sono vivo” sospirò Jefferson, e per la prima volta lo credette davvero.

Grace si allontanò con i suoi genitori, e gli occhi di lui non la abbandonarono un istante finché non ebbe voltato l'angolo.

“Com'è possibile?” lo incalzò Emma voltandosi nella sua direzione.

Jefferson si strinse nelle spalle, quel poco che decine di contusioni e lividi potevano concedergli e la guardò, un sogghigno pericolosamente vicino all'allegria

“Magia...” la canzonò quasi, porgendole i polsi per farsi ammanettare “E ora Sceriffo?” Emma lo guardò un istante, spalancando la portiera

“Andiamo a casa” lasciò scivolare via dalle labbra “o almeno ci proviamo...”

Magia...

 

Forse, se voglio la magia...
devo iniziare a crederci.

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Angolo della delirante autrice-un-po'-Cappellaia-Matta: buongiorno^^ Il fatto che io abbia completato questa breve ff mi ha ridato la carica, stamattina, perchè finalmente metto la parola fine alle cose che comincio^^ Iniziata come una OS ha richiesto più tempo ed energie del previsto, come sempre, ma spero di essere riuscita a dare ad Emma e Jefferson il giusto spazio e la giusta dimensione. Mi scuso se il finale è stato frettoloso, ma tirarla per le lunghe non mi andava^^
Dedico questa poco pretenziosa ff alle donne del In some dreaming state sperando di inaugurare il mio e loro trend positivo di postaggi e successi planetari ahahaahahahaha (scherzo, ovviamente), e in particolare a Giuls, Marci e Aly che condividono con me l'amore folle per il pairing e in particolar modo per Seb Stan fin dai tempi improbi di Gossip Girl <3<3<3
Che dire, passateci a trovare, siamo fiche, parola miaXD

   
 
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