Buongiorno/sera!
Non ho idea di quando pubblicherò questa storia, ma sto
già scrivendo le note
in cima alla pagina, giusto per avvantaggiarmi. Sono troppo avanti.
Sono troppo
simpatica.
Su questa storia ho solo qualcosina da dire, una frase semplicissima: Non fatevi ingannare dalle apparenze!
Quindi, se non ami l’angst,
l’introspettivo, il malinconico… non chiudere
la pagina. Potresti avere una sorpresa.
Sperando di non aver fatto male, vi auguro una buona lettura!
S.
Una questione
di priorità
*
John
si sentiva perso,
senza di lui.
Aveva cercato di dimenticare, aveva tentato in tutti i modi di voltare
pagina e
cancellare ogni ricordo, ogni immagine, bella o dolorosa che fosse che
gli
ricordasse la sua vita quando lui era ancora lì, con lui.
Ne sentiva la mancanza ogni giorno di più e più
cercava di distogliere la mente
da quei ricordi, più essi tornavano, facendogli male,
riaprendo una ferita mai
completamente rimarginata. La gente sembrava quasi non capire quanto
soffrisse,
quanto in realtà fosse tormentato nel profondo, nonostante
cercasse di non
darlo a vedere, di mantenere quella facciata solare, bonaria, da
‘non preoccupatevi, va tutto
veramente bene’.
La realtà, la cruda e triste verità era che John
non si sentiva più lo stesso
da quando non aveva lui accanto. Era una sensazione strana da
descrivere, un
profondo senso di vuoto lo stringeva in una morsa, una mancanza che per
quanto
volesse, per quanto lottasse con tutto sé stesso, non
riusciva a colmare. E
sapeva perché, nel suo cuore.
Non ci sarebbe mai stato nessuno come lui, e di questo era sicuro. Da
quando le
loro strade si erano incrociate, non c’era stato giorno in
cui i loro destini
non si fossero intrecciati, per qualche secondo, qualche ora o
l’intera
giornata. Lui poteva sparire per ore, ma John sapeva che alla fine
sarebbe
tornato, per lui, per loro. Perché nonostante non potesse
saperlo, ne
chiederlo, sapeva che per lui era
lo
stesso. Un sentimento raro, che si prova una sola volta nella vita e di
cui a
volte non si riesce più a fare a meno, come una droga, una dipendenza, per quanto così
potesse essere chiamata.
Al lavoro, John non faceva che pensarci, in quei giorni. Non riusciva a
concentrarsi, sentendosi stupido, infantile, ma non poteva farci
niente, non
poteva combattere quella sensazione. Tutto quello che poteva fare, era
arrendersi ad essa.
Sarah aveva notato il suo comportamento e quella fresca mattina di
maggio gli
aveva chiesto come si sentisse, cosa provasse ancora dopo tanto tempo.
Aveva
paura di ferirlo, di essere troppo inopportuna, di infastidirlo. Ma
John le era
grato per la sua amicizia e il suo sincero interesse per lui.
“Sto bene, Sarah” aveva risposto, sfiorandole una
mano con la sua. “E’ solo
che…non faccio che pensarci”.
Sarah gli aveva accarezzato i capelli, come con un bambino in cerca di
consolazione.
“E’ passato tanto tempo, John. Devi voltare pagina,
cercare di… rimpiazzarlo,
magari”.
Non avrebbe potuto dire qualcosa di più inopportuno, di
più dolorosamente
orribile.
John si era alzato dalla sua sedia, rifiutando il suo tocco e andando
verso la
finestra, appoggiandosi al davanzale in cerca d’aria. Come
aveva potuto anche
solo pensare una cosa simile?
“Sarah, io… non posso nemmeno concepire
l’idea di fare una cosa simile” aveva
risposto, con voce resa roca dall’emozione. “Lui
non si può sostituire. Una
cosa tanto importante è…” non era
riuscito a continuare. Sarah gli aveva dato
una pacca sulla spalla, sinceramente dispiaciuta per
l’effetto che le sue
parole avevano avuto. In cuor suo, però, era ancora
decisamente contrariata
dalla testardaggine del medico.
“Scusami se ti ho ferito, John, mi dispiace, sul
serio” John aveva annuito, ma
senza incrociare il suo sguardo. “Ma davvero, devi voltare
pagina. Scrivere un
nuovo capitolo della tua vita o non uscirai mai da questo rancore, da
questo
continuo… pensarci.
E’ dannoso, per
te e per gli altri”.
John aveva guardato la dottoressa, senza sapere cosa dire, frenando la
lingua
per impedirle di dire qualcosa di offensivo, di sbagliato. Le aveva
sorriso,
sorriso davanti alla sua ingenuità, al modo in cui credeva
di poter capire come
lui si sentisse. Poteva immaginarlo certo, ma non capirlo, non
comprenderlo…
non sentirlo dentro di
sé come lui
era costretto a fare. Se avesse saputo, se avesse provato con lui le
stesse
identiche emozioni, non si sarebbe comportata certo allo stesso modo.
“Grazie del consiglio, Sarah” aveva chiuso
lì. “Appena esci, fai entrare il
primo paziente, per favore” aveva poi aggiunto, cercando di
modulare la voce
assumendo un tono sereno. In realtà, dentro di
sé, stava bruciando.
All’uscita
dall’ambulatorio, la pioggia scendeva copiosa allagando le
strade e
costringendo i passanti e i turisti, probabilmente non completamente
abituati a
quei repentini cambi di meteo, a ripararsi sotto portici e balconi,
aprendo
ombrelli e usando ripari di fortuna.
Quella pioggia gli riportò alla mente un ricordo,
l’immagine di una notte in
particolare, di qualche mese prima quando aveva corso con lui, all’inseguimento,
ovviamente su tacchi e suole, di un ladro di
gioielli a Chelsea.
Quando erano tornati a casa erano entrambi zuppi e grondanti acqua, e
rise
quando si ricordò della reazione della Signora Hudson alla
lunga scia fangosa e
bagnata che avevano lasciato lungo le scale imbrattando tutto il
pianerottolo.
Ricordi che non avrebbero più avuto un seguito. Momenti che
non avrebbero mai
più vissuto, non insieme. John strinse gli occhi, mordendosi
la lingua per
costringersi a non pensare ancora, a spegnere la mente, cercando una
distrazione, una qualunque.
Forse avrebbe dovuto chiamare Harry, sfogarsi con lei, darle una chance
per
comportarsi da buona sorella maggiore, per una volta. Avrebbe potuto
chiedere a
Sarah di uscire per una cena, un film, una passeggiata.
Pensò a tutte le
ipotesi possibili, ad ogni probabile scusa, pur di non ritornare a casa
quella
sera, pur di non essere costretto ad affrontare fantasmi mai del tutto
dimenticati.
John però non aveva davvero voglia di divertirsi, o di
svagarsi o di fare
qualcosa di diverso da ciò che amava fare. E quello che
amava era stare con lui,
sfiorarlo, tastare la sua morbidezza delicata, sentirsi…abbracciare in quella stretta solamente
loro. E per colpa di
qualcosa di inspiegabile, di un gesto che John non aveva ancora
compreso e che
lo lasciava pieno di rabbia, frustrazione, impotenza, lui era sparito
come
ghiaccio al sole, lasciandolo solo, vuoto. E tutto per
colpa…di quell’uomo.
Mentre passeggiava,
incurante della pioggia che lo stava inzuppando da capo a piedi si
ritrovò a
due passi da Baker Street. Aveva fatto quella strada migliaia di volte
e
probabilmente l’aveva percorsa anche quel giorno, senza
pensarci, nonostante il
suo appartamento fosse l’ultimo posto in cui volesse tornare.
Era troppo
arrabbiato, teso, nervoso per poter tollerare anche solo la vista di
casa sua.
Troppi ricordi, ogni volta. Troppi frammenti di qualcosa di perso,
scomparso.
Nonostante quell’iniziale reticenza però, i
minacciosi e roboanti suoni dei
tuoni e della bufera di vento, lo convinsero che almeno quella sera,
suo
malgrado, ritirarsi tra le quattro mura di casa era decisamente molto
più
raccomandabile che rimanere per strada in balia degli elementi.
Arrivato
davanti alla porta, con il numero 221B che rifletteva la luce dei
lampioni
dall’altro lato della strada, esitò per un
momento, cercando di ritardare il
più possibile il momento in cui avrebbe messo piede nel suo
appartamento.
Sospirando e facendosi coraggio infilò le chiavi nella toppa
svogliatamente,
chiudendo la porta dietro di sé e lanciando uno sguardo alla
porta
dell’appartamento della Signora Hudson, che sembrava
stranamente silenzioso.
Meglio così. Sentiva che non sarebbe stata una serata
tranquilla, quella.
Salì le scale lentamente, e con forza d’animo
aprì anche la porta a vetri,
mettendo nuovamente piede, con il cuore che batteva
all’impazzata, nel
silenzioso salotto di casa sua.
Era tutto calmo, tranquillo, e John non si sarebbe mai abituato a
quell’innaturale silenzio, alla mancanza di passi frenetici
che scendevano le
scale, alle strane esplosioni nella cucina e agli immancabili pezzi di
cadavere
sparsi tra il frigorifero e la dispensa.
Poggiò la sua borsa sul tavolo guardandosi intorno ad occhi
semichiusi, come a
voler meglio percepire quella calma innaturale, quella pallida luce
malata che
invadeva la stanza dandole un aspetto lugubre, spaventoso.
John si lasciò cadere sul divano, con il volto fra le mani.
…
Qualche ora dopo, John si
svegliò, spaesato.
Si era addormentato sul divano senza nemmeno accorgersene, e
svegliatosi in
salotto, gli ci era voluta un’attenta analisi
dell’ambiente per rendersi conto
di dov’era, chi era, e cosa ci faceva li. Quando
riuscì ad inquadrare la
situazione e ricordare ogni cosa, il suo sguardo si spostò
verso la cucina,
dove una figura sedeva al tavolo, con le spalle curve e
l’aria concentrata.
“Oh, Sherlock. Sei tornato” disse John,
stropicciandosi gli occhi cisposi. Non
riuscì a trattenere un cipiglio irritato nella voce, mentre
pronunciava quella
frase. Il detective lo guardò, distrattamente.
“Oh si, una mezz’ora fa. Non ho voluto
svegliarti” annunciò Sherlock, senza
distogliere un secondo l’attenzione dal set di provette che
stava maneggiando.
A quella vista, John sentì una rabbia incontrollata
ribollirgli pericolosamente
nelle vene.
“Che stai facendo, Sherlock? Ne avevamo già
parlato!” sbottò tutt’un tratto,
alzandosi
di scatto dal divano. “Mi avevi promesso che non avresti
più fatto esperimenti
per almeno due mesi!” si
impuntò con
determinata enfasi su quel particolare.
Sherlock alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
“John sei veramente infantile! E’ successo secoli
fa!” sbottò, scuotendo la
testa. “Ho detto che mi dispiace, che mi dispiace davvero,
che non volevo! Cosa
altro vuoi, ancora?”.
John mise le mani sui fianchi.
“Voglio che tu…smetta di scambiare la nostra
cucina per il laboratorio del
Barts! Specialmente dopo quello che è successo! Era tutto
così bello, il
silenzio…la calma…nessun disgustoso moncherino
umano in decomposizione…”.
“Oh ma John” sbottò quello, come se non
concepisse che il medico trovasse la
normalità qualcosa di gradevole. “Quello che
è successo non è stato tanto grave
da giustificare questo tuo impedirmi di svolgere il mio lavoro!
E’ stato solo
uno spiacevole…contrattempo!” gridò il
detective esasperato.
John non aveva parole per descrivere il suo stato d’animo in
quel momento. Non
sopportava la straordinaria e irritante capacità di
quell’uomo di minimizzare
ogni cosa quando si trattava di ciò cui lui teneva.
“Contrattempo? Hai quasi incendiato l’appartamento,
Sherlock! E hai… hai
distrutto il mio MAGLIONE PREFERITO!” strepitò,
agitando le braccia.
Sherlock lo osservò
come
se fosse la creatura più stramba che avesse mai visto.
“E’ stato un incidente, John, quante volte devo
dirtelo? Mi serviva qualcosa
con cui spegnere il fuoco!” disse a sua discolpa, incrociando
le braccia come
un bambino imbronciato.
“Un incidente!” John disse, ripetendo le parole del
detective. “Potevi usare
una delle coperte che teniamo sulla poltrona, o la
tovaglia…o una cosa
qualunque” disse, indispettito. “Tutto ma non quel
maglione! Sai quanto ci
tenevo, quanto…valeva,
per me”.
Rimase in silenzio, tornando seduto e volgendo lo sguardo alla
finestra,
cercando di sbollire la rabbia.
“Sì, lo so, lo so. Un regalo,
l’esercito, pieno di ricordi bla
bla bla. Lo sai che mi dispiace. Ma mi sembra veramente che
tu
stia esagerando, adesso. Devi rivedere le tue priorità, mio
caro, se fai tutte
queste storie per un maglione”.
John lo fulminò con lo sguardo, voltandosi verso di lui con
uno scatto felino
del collo.
“Sei il secondo a dirmelo oggi. E dirò anche a te
che non ha idea… nessuna idea
di quanto valesse per me. E quello
che mi fa infuriare è che sia andato distrutto
per… per uno dei tuoi giochetti
da piccolo chimico”.
Sherlock emise una specie di grugnito contrariato a veder
così bistrattato il
suo lavoro.
“Non doveva andare così, John, non
era…previsto che il contenitore esplodesse.
E nemmeno che le tende andassero a fuoco e che dovessi usare il tuo
maglione
per spegnerle” disse a voce bassa, come se si fosse
decisamente stancato di
ripetere ancora quel discorso.
John non replicò, assumendo un cipiglio offeso.
“Era importante per
me”
borbottò, come se parlasse tra sé e sé.
“Lo so. In quante lingue ancora vuoi che ti chieda
scusa?” chiese il detective,
abbandonando completamente il suo esperimento.
“Non saranno mai abbastanza”.
Sherlock scosse il capo,
aprendo il frigo cercando una distrazione qualunque. Dopo aver
avidamente
tracannato metà del contenuto del bidoncino di latte,
soddisfatto, tornò a
concentrare l’attenzione su John. Adocchiandolo con un certo
interesse e una
strana luce negli occhi, come se stesse architettando qualcosa, si
avvicinò al
dottore, con un sorriso indecifrabile sulle labbra. Si sedette accanto
a John,
che ancora lo fissava contrariato, e gli cinse la vita con un braccio.
“Torna alle tue diavolerie, Sherlock”
borbottò il medico, svogliatamente.
“Entschuldigung”
sussurrò il
detective al tuo orecchio. John lo guardò, senza capire.
“Vuol dire ‘scusa’. In tedesco”
spiegò Sherlock, come se fosse la cosa più
ovvia del mondo. John non riuscì a trattenere un piccolo
sorriso, che però
svanì quasi immediatamente. Non poteva permettersi di
dargliela vinta così
facilmente.
“Desculpa”
bisbigliò ancora,
sfiorando l’orecchio di John con le labbra. Il medico
fremette. “Det er jeg ked af”
aggiunse. “Jeg beklager,
Sajnálom, Žao mi je”.
John non resistette
più
quando Sherlock lo strinse ancora più forte, le labbra sul
suo collo a
provocargli un piacevole solletico ad ogni parola. Suo malgrado,
sorrise.
“Non ho idea di cosa tu abbia detto ma farò finta
di crederci. Sappi però che
non mi hai ancora convinto”.
Il detective scosse ancora la testa con aria esasperata, ma non si
alzò, ne
lasciò la presa. Anzi, poggiò l’altra
mano sulla nuca di John, attirandolo a sé
in un bacio mozzafiato.
John non voleva all’inizio, dopotutto era arrabbiato
con lui e non poteva lasciare che ogni battibecco, ogni suo tentativo
di
mettere in riga il coinquilino finissero per essere dimenticati con
qualche
bacio e qualche moina. A sua discolpa però c’era
da dire che per quanto da
fuori non sembrasse, Sherlock era terribilmente
abile a fargli dimenticare qualunque arrabbiatura nel giro di qualche
minuto. Ed
era un peccato non approfittarne.
Rimasero con le labbra incollate per dieci minuti buoni, giusto
perché John non voleva lasciarsi
convincere, e
quando si separarono, al medico mancava quasi il fiato.
“Ammetto che era una buona argomentazione”
scherzò infine il dottore, e
Sherlock ghignò. “Questa che lingua
era?” chiese poi John.
Il detective diede un colpetto di tosse, come per darsi
un’aria importante.
“Il mio unico, perfetto, adatto a
tutte le
occasioni linguaggio Holmes” asserì,
fiero di sé.
John rise, incapace di tenere il broncio un secondo di più.
“Oh beh, potrei aver bisogno di un
lunghissimo
ed esauriente discorso ancora, per accettare le tue scuse. E dovrai
cercare di
essere convincente. Sai quanto sono difficile”
sussurrò sulle sue labbra,
ammiccante.
Sherlock si schiarì la voce, prontissimo.
“Farò del mio meglio per non deluderla, dottore”.
*