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Autore: PaganGod    30/04/2012    1 recensioni
Ci sono cose che devono essere scoperte nell’intimo di una giornata di sole, nel gelo di un vento d’inverno, negli occhi dei gatti, nel ritmo incessante del mare. Potrei anche dirvi chi egli fosse, o quale fosse il suo compito, o chi lo ha mandato e cosa è successo a me dopo, ma non servirebbe: dimenticherete questa storia come ne avete ascoltate e dimenticate altre, e sarà bello per voi poter sognare di mondi inesistenti.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo del Custode'
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Come in cielo, così in terra

 

 

 

Tutto ciò che mi rimane è un abbraccio.

Una mano che sfiora appena la spalla, e gli occhi pieni di un azzurro stupore. Quella breve notte colmò il mio animo di consapevolezza quanto solo pochissimi saggi osano assaporare, eppure non posso ripensare a quei giorni fugaci senza che la tristezza offuschi la perfetta calma di cui sono padrona.

Scavavamo sulla collina nord: un settore di sterpaglie e campi coltivati a foraggio, appena fuori dalla periferia della frenetica metropoli nera e oro. Si trattava di un semplice rilevamento: qualche casa colonica, qualche coccio, niente di più.  Non si trattava nemmeno di un vero e proprio scavo archeologico ma di una banale tesina "sul campo" del primo anno accademico.
Ero molto spaesata in quei giorni ed irritata. Di indole chiusa e altera, non trovavo interessanti i miei compagni e
preferivo svolgere le mie ricerche in perfetta solitudine. Ci eravamo trasferite da poco, io e mia madre, in un villino bianco di legno e mattoni. La mamma aveva caldeggiato fortemente il nostro trasferimento perché l’università che frequentavo prima era poco prestigiosa e male organizzata, restrittiva per le mie capacità.
Il destino, a volte, gioca strani e meravigliosi scherzi.

Osservavo, dall’alto di una collinetta, la zona degli scavi e notai una specie di corridoio erboso, una guida verde scuro, la quale indicava un recinto o una parete di qualche vecchia casa. Annotavo distrattamente quell’informazione su un taccuino per poi riportarla, opportunamente ornata di dotte considerazioni nella tesina, quando mi raggiunse una voce.

“Che fai?” chiese.
Mi voltai infastidita da tanta sfacciata stupidità. Possibile che non capisse le mie intenzioni?
“Rilevamenti.” risposi seccata.
Avevo di fronte un uomo dall’aspetto banale, lineamenti così comuni e mediocri che non avrebbero sostato a lungo
nella memoria, capelli arruffati e una tuta da meccanico sporca d’erba.

“Questo lo so.” mi trattò come se non avessi capito la domanda, era sereno, maledettamente, fastidiosamente tranquillo.
“Allora perché lo domandi? Che vuoi? Ho da fare!”
“Appunto. Cosa fai?" ripeté. "Cosa stai facendo, stai lasciando fare o pensi di fare?”
“Sei normale?” lo insultai. Il fastidio iniziale divenne vera e propria intolleranza. Mi ero imbattuta in uno zotico
sotto dotato, figlio di qualche fattore nelle vicinanze, che aveva pensato bene di importunare proprio me. Il sorriso che mi dedicò fu come un taglio netto, una coltellata nel bel mezzo del suo volto. Ebbi l’impressione che qualcosa non andasse nella realtà. Sbattei le palpebre.
Quando il senso di vertigine mi abbandonò, udii finalmente le sue parole sussurrate.
“Gli antichi egizi dicevano: spesso ciò che appare non è e ciò che è, è meglio che non appaia.”

Girò i tacchi e se ne andò da dove era venuto. Classificai quelle sensazioni come effetto del troppo sole e mi ripromisi di non frequentare più quel luogo. A certa gente non dovrebbe essere permesso di circolare, mi dissi, dovrebbero metterli in qualche istituto. Il resto della giornata scorse monotono e indisponente: il solito mediocre pranzo alla mensa, il vocio di centinaia di inconcludenti creature, gli approcci fintamente spavaldi di adolescenti in eccedenza ormonale. Tante vite, ai miei occhi, patetiche e scoraggianti.

Tornai a casa accolta dal silenzioso qualunquismo del vicinato rispettabilmente borghese.
La mamma trascorreva la maggior parte del tempo nella sua vestaglia rossa, maledicendo gli editori senza scrupoli
che le avevano bruciato la carriera, e beccando di tanto in tanto sulla tastiera degli incipit che si spegnevano immancabilmente nella carenza di ispirazione.
Per qualche anno era stata sulla cresta dell’onda, splendendo nell’olimpo degli autori, poi si era dissolta nel
nulla, e ora odiava tutto e tutti, in quanto non ammiratori delle sue opere.
Tutti, ovviamente, tranne il frutto del suo seno, per la quale nutriva un gigantesco, sognante, amore materno.

“Come è andata oggi cara?” chinguettò vedendomi.
“Il solito mamma.” appoggiai lo zaino con cura nell'armadietto dell'ingresso.
“Deve essere penoso per te condividere le tue doti con una manica di decerebrati!” commentò comprensivamente.

Non risposi, non c’era nulla da rispondere del resto. Non avevo mai avuto difficoltà in nessun campo e, con il giusto apporto di studio e impegno, si poteva arrivare ovunque. Non capivo come mai tanta gente riuscisse a parcheggiarsi all'università.
Mi diressi verso la mia piccola stanza ancora sotto sopra per il trasloco.

“Pensa che ho tentato di comunicare con la vicina di casa." continuò la mamma seguendomi. "Una tipa disgustosa, senza un briciolo di intelligenza. Solo casa, marito, dolcetti dietetici e reality. Una vera piaga sociale!” continuò per un bel pezzo.

Dalla finestra che dava sulla strada lo vidi arrivare con la sicurezza di un lattaio, e la curiosità di un turista. Suonò al campanello, aspettò fischiettando, parlò con mia madre che lo guardava come se avesse in bocca il più aspro dei limoni. Aveva chiesto ai vicini se qualche villico, come diceva lei, fosse disposto a compiere qualche lavoretto nel nostro appartamento, e aiutare due povere donzelle indifese.
Evidentemente i vicini le consigliarono di rivolgersi all’uomo che viveva solo sulla collina. Curioso, nessuno lo
chiamava per nome, e nessuno lo descriveva con più di un dettaglio o due. L’idea di averlo per casa mi riempiva di repulsione e di un senso indefinito di pesantezza nel petto, come se mi aspettassi da lui qualche gesto inconsulto. Era una sorta di angoscia proveniente dal fondo anonimo dei suoi occhi, dal vuoto cosmico che percepivo al di là del suo volto. Per ogni evenienza mi barrai in camera con la scusa della tesina.

Trascorsero un paio di giorni e non parlò mai. Lavorava tranquillo: spostava mobili, verniciava steccati, svitava e
avvitava e non prestava mai attenzione ai nostri discorsi, o alle frecciatine sarcastiche di mia madre, e ai resoconti volutamente annoiati delle mie giornate.

Terminammo di cenare, quella sera, cullati da una fresca brezza dalla veranda; oltre la collina, nell’azzurro cupo di un cielo prossimo al tramonto, la linea spezzata della grande città ricamava l’orizzonte di un merletto nero impreziosito d’oro. Rimasi a guardarlo a lungo, come se quell'immagine dovesse svelarmi un segreto, come se potesse farmi ricordare quanto sognato nel dormiveglia.

In breve riordinammo la cucina e mi ritirai per leggere un trattato di psicologia il quale, probabilmente, sarebbe stata la mia seconda laurea.
Lo incrociai nel corridoio, era così discreto che ci eravamo quasi dimenticate di lui.
Trasportava un grosso sacco nero pieno di cianfrusaglie da buttare.
“Fammi passare.” ordinai.
“Perché?” la sua voce nascondeva una rivelazione, tentennai.
“Perché devo andare in camera.” risposi cantilenando per mascherare con l'insofferenza quel senso di angoscia.
“E perché devi andare in camera?” continuò. Lo guardai, mentre sprofondavo in una voragine di stupore, perché non mi
stava prendendo in giro, sembrava più sul punto di rimproverarmi per qualcosa.
“Devo studiare, leggere, conoscere! Sai cosa vuol dire?”
“E tu?” chiese di rimando con la sua voce abissale.

Ebbi di nuovo una forte sensazione di vertigine: nella mia mente milioni di voci bisbigliavano nel buio, e cantavano qualche mistero antico come il tempo.
“Mi hai scocciato! Sei deficiente! Spostati o ti prendo a sberle!”
Lo spinsi di lato senza guardarlo negli occhi, e corsi in camera stringendo il mio libro come uno scudo. Lui non si mosse, non si voltò, ma qualcosa mi raggiunse alle spalle tendendomi un agguato, poco prima che le sue
parole mi investissero come uno schiaffo.

“Come puoi avere la presunzione di conoscere, se non sai rispondere a delle semplici domande? Quando ti verranno posti i veri quesiti scapperai? Quando tenderanno le loro mani al cielo, saprai rispondere alle loro suppliche?”

Boccheggiai, voltandomi risoluta, chiesi sprezzante: ”E tu li conosci i veri quesiti? Conosci le risposte?”
Mi inchidò con lo sguardo, nulla sul suo volto indefinito tradiva una sola briciola di iracondia, le sue labbra
sottili quasi non si mossero.

“Se solo sapessi guardare nell’Onda vedresti ciò che è. La tua mente strariperebbe di risposte più di quanto la tua
bocca possa pronunciare le domande.”

Onda.
Quella parola si materializzò nella mia mente come una galassia luccicante di stelle, come un vortice ribollente,
come folle ondeggianti in preghiera, come tutto ciò che è, che era e sarà nei secoli...

“Quando hai finito col sacco puoi andare a casa. Ecco tieni questi per il disturbo.”
Mia madre era spuntata, svolazzante e vaporosa, interrompendo la nostra conversazione.
Tornai con i piedi per terra. Lui sembrava contento e imbarazzato, con la mano nei capelli, mentre riceveva quei
pochi spiccioli. La sua immagine era tornata goffa e piatta, ma ormai non riuscivo più a classificarlo. Lo guardai andarsene nella semi oscurità della nostra ordinatissima via secondaria. Quella notte non chiusi occhio. Non riuscivo a immaginare per quale motivo avessi quelle forti sensazioni quando mi trovavo in sua presenza, eppure una spiegazione doveva esserci.
Una spiegazione razionale, logica e, soprattutto, rassicurante.

Ammetto di averlo evitato per non so quanto tempo. Consegnai la tesina, mangiai alla mensa, sostenni esami e
completai l’arredamento della mia piccola stanza, ma ogni cosa ormai era senza sapore. Non vi era più solidità nelle cose, non c'era più sostanza nei volti e nelle parole di chi avevo intorno; nemmeno disprezzo, superbia, fastidio. Vedevo ogni cosa attraverso un filtro opaco che risuonava del colore delle sue iridi (ancora non ricordo quale sia) e udivo ogni suono come un'armonica delle sue parole.

Un bel pomeriggio di sole, distesa sul mio letto, chiusi il libro di psicologia e decisi che dovevo affrontare quell’uomo. Non mi importava l'origine di tanta suggestione, o il significato che, via via, le andavo affibbiando, dovevo affrontare le mie paure e superarle.
In quel momento mi accorsi che lui non c’era più. Chiesi a mia madre che fine avesse fatto.
(Da quanto avevo smesso di chiamarla mamma?)

“Gli ho dato qualche altro spicciolo e l’ho mandato via. Tutti i lavori pesanti sono terminati, e ci farà bene trascorrere un po’ di tempo io e te a sistemare la nostra bella casetta.”
La vidi.
Fu come aprire la porta di legno vetusto di un giardino segreto.
La vidi per quel che era: una povera donna sola e impaurita. Mi sembrò magra e decadente, una foglia nel vento
impetuoso, incapace di difendersi, incapace di reagire. Ebbi paura, cosa mi aveva fatto quello sconosciuto?

Bisciacai delle scuse e tornai di corsa sulla collina, cercai nel luogo dove lo avevo incontrato la prima volta, ma
trovai solo erba ondeggiante e piccoli fiori gialli. Il cielo blu, in un’unica pennellata, mi sovrastava come se avessero tolto il velo che copre il mondo e io, vulnerabile, ero un pesce  alla ricerca di un rifugio.

L'universo era sempre stato così grande?

L’orizzonte sembrava non avere limiti: intorno a me le colline pezzate di campi coltivati, oltre, paesi e villaggi, grandi metropoli indaffarate, montagne imponenti, rocce sagge, acque narranti storie più antiche dell’uomo e animali in ogni regno. Ancora. Capanne e palafitte e uomini, dalle scimmie allo spazio e oltre, in sentieri di mente e energia. Barcollai sopraffatta da tutto ciò che è. Avrei voluto gridare o impazzire pur di non dover sostenere tanta consapevolezza nel mio petto, fino ad allora, arido e indifferente.

Caddi in ginocchio, e poi all’indietro, e mi ritrovai sprofondata nell’erba a contatto, per la prima volta, con la terra stessa; la Terra Vera.
Pensai di essere stata drogata, pensai di essere impazzita. In quel momento il cielo mutò, come il sangue
nell’acqua: nuvole tempestose di un cupo rosso vorticarono in un cielo di pece, nero come mai lo era stato nella notte più buia.

Mi mancò il respiro, mi sentii soffocare da quella visione, da una vivida allucinazione, e gridai finalmente fino che la mia voce divenne un sibilo roco. Poi vidi le stelle: milioni di volti luminosi, nuvole luminescenti dal bianco all’azzurro, al rosa, all'oro e mi sentii calma e cosciente.

“Non preoccuparti,” mi disse. “E' successo a tutti noi. Ora alzati, voglio mostrarti una cosa.”
Mi alzai leggera, mi trovavo di nuovo sulla collina ma ormai era buio.
Chissà per quanto tempo ero rimasta distesa sull’erba, da quanto tempo lui era lì con me.

“Quante domande vero?” chiese sorridente. Lo guardai esterrefatta, ma non avevo più timore di lui, forse avevo già compreso. Potevo vedere la via pulita e ordinata con i suoi i villini bianchi, tutti uguali e civili, tuffarsi giù dalla collina e correre verso la grande città nera e oro.

“Perché proprio io?” chiesi.
“Perché ce ne deve essere sempre uno per vegliare su tutto.” fece un gesto ampio con la mano e l’orizzonte si rivelò
a me dipanandosi su un canovaccio: c'era la storia del mondo, in quel gesto, e la vedevo per la prima volta.
“Ora guarda.”

Mi cinse le spalle con un braccio, un gesto lento e caldo, paterno: cercava di prepararmi all’ultima visione.
Fui rapita, trasportata da un vento alle mie spalle.
Il cielo immenso si aprì come le onde in uno stagno mentre al centro si accendeva la più intensa delle luci.
Il mondo, all’esterno del nostro tempo, bruciava come tutte le stelle insieme tanto che il cuore caldo della
galassia era solo una scintilla di quella forza.
Un getto di luce, di energia, scese dal cratere nel cielo, una cascata di zaffiri scintillanti, di lucciole fatate
in una notte magica, e defluì attorcigliandosi verso la grande città, verso la terra che lo accolse aprendo le sue membra.
Mi aspettavo di vedere la città dissolversi nella catastrofe celeste, eppure essa non si accorgeva del miracolo.

La terra era un oceano di luce blu, brulicante di vita: ogni singola vita riluceva sotto la sua superficie.
L’enorme tuffo dal cielo alzò una corona di onde, montagne di acqua viva, che si espansero alla velocità del
fulmine, investendo e sovrastando ogni cosa, ruggendo e bisbigliando poiché in esse esistevano vita e morte, forza e dolcezza, essere e divenire.

“Vedi?” bisbigliò al mio orecchio. “Il Drago del Cielo è malato, e chiede aiuto alla Madre Terra dalla quale risorgerà, come fece nella notte dei tempi.”
L’onda si placò.
Il cielo si chiuse come se nulla fosse mai accaduto e la città indaffarata dormì al caldo delle sue luci.

“Perché questo dono?” sussurai piena d'amore.
“Non è un dono." rispose con amarezza. "Ma uno ci deve essere sempre, e per me è giunto il tempo di andare.”
“Cosa dovrò dire?” lo strinsi a me, non volevo che se ne andasse, ma già le voci mi avvisavano che sarebbe svanito.
“Non c’è nulla da dire.”
“Cosa farò?”
“Te lo diranno, lo saprai.”

Stavo per replicare, tergiversavo, ma mi precedette posando la sua mano sulle mie labbra; parlò pianissimo o, forse, non parlò affatto: “E’ stato bello conoscerti.”

In un battito di ciglia non era più lì.
Nessuna luce, nessun suono, nulla, solo un incredibile senso di vuoto.

Potrei raccontarvi altro.
Spiegarvi il senso di molte cose, e mostrarvi ogni singola meraviglia, ma non spetta a me questo passo e voi non capireste.

Ci sono cose che devono essere scoperte nell’intimo di una giornata di sole, nel gelo di un vento d’inverno, negli occhi dei gatti, nel ritmo incessante del mare. Potrei anche dirvi chi egli fosse, o quale fosse il suo compito, o chi lo ha mandato e cosa è successo a me dopo, ma non servirebbe: dimenticherete questa storia come ne avete ascoltate e dimenticate altre, e sarà bello per voi poter sognare di mondi inesistenti.
 

  
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