CAPITOLO BETATO DA Amy Dickinson
Alice POV
Al
diavolo! Ne avevo abbastanza di pomodori con occhi e gambe, di carote
che
agitavano le braccia e porri che portavano gli occhiali. Con un gesto
secco,
gettai la cartella sulla scrivania e lanciai un'imprecazione a mezza
voce.
«Col
cavolo
che lo rifaccio!», borbottai.
«Se
vuoi
questa immondizia di verdura animata te la fai da te, signor Newton. Io
ho
chiuso»
«Qualcosa
mi dice che il capo non ha apprezzato i tuoi sforzi», disse
una voce tranquilla
dalla scrivania accanto. «La verdura non era abbastanza
fresca questa mattina?»
Guardai
Jessica con aria truce e sbuffai. «Vuoi sapere che cosa ha
detto?», domandai,
il tono tenuto a stento sotto controllo.
«"Signorina Cullen, vedo
che ha cominciato
a entrare nello
spirito della nostra
agenzia"», riferii, imitando la
voce nasale del capo. «"Questi pomodori sono accattivanti, ed
è proprio
questo che i consumatori vogliono. Immagini accattivanti. Le suggerisco
di
ingrandire un po' gli occhi, mettere delle scarpe ai piedi, magari con
un po' di
tacco, e dare alle carote un'aria più simpatica". Ha detto
proprio così:
"dare
alle carote un'aria più simpatica". Bleah!» feci
una smorfia disgustata.
«Ti è mai capitato di trovare simpatica una
carota, Jess?»
La
collega
si strinse nelle spalle. «Non da quando sono a dieta. Odio le
carote»
«Beh,
lui
le vuole simpatiche. Mi domando e dico cosa dannazione deve avere una
carota
per essere simpatica!»
Un
guizzo
mi passò negli occhi, mi sedetti dietro la scrivania, presi
un blocco da
disegno e vergai dei rapidi tratti con una matita. «Che cosa
te ne pare di
questa?», chiesi poi mostrando il foglio a Jess.
La collega
guardò e scoppiò
a
ridere, coprendosi la
bocca con la
mano nel caso
qualcuno stesse
guardando
attraverso la parete a vetro.
«Non credo che al
signor Newton piacerebbe»,
commentò.
«Ma
ai
consumatori scommetto di sì», replicai, soppesando
con lo sguardo l'immagine
della carota a cui era spuntato a media altezza un irriverente e
accattivante
pisellino. «Migliaia di massaie frustrate troverebbero
simpatica una carota
così»
Lasciando
cadere il disegno, feci uscire un sospiro esasperato.
Non
avrei
retto in quell'agenzia, lo sapevo.
Lavoravo
lì
da tre mesi soltanto e fino a quel momento era stata una lotta senza
quartiere
tra le mie idee e quelle del signor Newton. La verità era
che il signor Newton
non tollerava altre idee che le proprie. Le sue campagne pubblicitarie
erano
imperniate sulla banalità più assoluta. Verdure
parlanti, omini portentosi che
uscivano dai flaconi dei detersivi come dalla lampada di Aladino,
orsacchiotti
di peluche che si confidavano le prodezze di un ammorbidente. Mai
niente di
nuovo, niente di veramente creativo.
Ogni
innovazione era guardata con sospetto e irrimediabilmente bocciata.
Avevo nel
cassetto almeno quattordici proposte che erano state bloccate sul
nascere da un
semplice cenno del capo. Non sapevo come avessi fatto a resistere
tanto. Ogni
volta che il capo m'aveva mandata indietro con la mia proposta
bocciata, avevo
giurato di andarmene.
Ma ogni volta ero rimasta.
Sapevo che quella
era la mia unica possibilità di lavorare nel campo che
più mi piaceva: quello
pubblicitario. Fino ad allora avevo svolto diversi lavori, da quando
avevo
deciso di tagliare con il passato e iniziare una nuova vita.
Venditrice
di enciclopedie porta a porta, barista, commessa, persino cameriera a
ore,
mentre frequentavo la scuola serale di grafica pubblicitaria. In
realtà la mia
vera passione era la fotografia pubblicitaria. L'agenzia del signor
Newton era
soltanto il primo passo, lo sapevo. Dovevo resistere almeno il tempo
per farmi
un minimo di esperienza e per rimpinguare in qualche modo il mio
curriculum. Ma
le verdure parlanti
erano
troppo. Le avevo
eseguite su richiesta
del capo, ma più le guardavo e meno mi piacevano.
«I
miei
incubi sono popolati da battaglioni di verdure che marciano contro di
me con
l'intenzione di divorarmi», mi lamentai sconfortata.
«Se non me ne vado da
questa agenzia, divento pazza»
Jessica,
dall'altra parte della stanza, fece un sorriso di sufficienza.
«Tutto sta a
farci l'abitudine. Guarda me: sono qui da quattro anni»
E
si vede,
avrei voluto dirle, ma mi trattenni in tempo.
«Tu
sei
più... tollerante di me», osservai invece.
«Lo
sono
diventata»
“Buon per te. Io piuttosto mi taglio le vene
per fare la pubblicità di uno smalto color rosso
sangue”
«Questione
di carattere»
«Questione
di bisogno», mi contraddisse Jessica con aria pacata,
continuando a disegnare
dei fiorellini per pubblicizzare un deodorante. «Se riesci a
trovare un'altra
agenzia che ti assume...» buttai via la carota con il
pisellino. «Io un'idea ce
l'avrei», borbottai, quasi tra me e me. «Lo studio
Butler»
Jessica
sgranò gli occhi e smise persino di disegnare. «Tu
sei pazza. Quell'uomo è...
una specie di genio malefico ed è completamente
inavvicinabile»
«A
me
piace. E’ il pubblicitario più pagato del momento.
L'agenzia Butler chiede
tariffe da capogiro per una campagna pubblicitaria. E non sbaglia un
colpo, mai»
«È
una
questione di gusti. Butler è stato denunciato più
di una volta a causa delle
sue immagini troppo... osé, e ogni volta suscita una
polemica»
«Chiamalo
stupido. Quell'uomo sa cos'è la pubblicità. E
poi, realizza delle fotografie
eccezionali»
«E
credi
che lui ti assumerebbe, con la tua esperienza?», chiese
Jessica stringendo le
labbra in una smorfia sprezzante. Pensai a come sarebbe venuta una
fotografia
di Jessica che stava morendo soffocata.
«Sì,
io credo
proprio che mi assumerebbe» dissi, con aria tracotante.
Buttai la matita sulla
scrivania e mi alzai.
«Non
appena avrò dato
le dimissioni al
capo del personale»
conclusi prendendo
il giaccone di pelle
dall'attaccapanni. «Io me ne vado, questa sera niente
straordinario»
Jessica
fece un sogghigno. «Vai dal capo del personale?»
Ero
già alla
porta. «Domani», dissi tra i denti. «Ci
vado domani»
«Arrivederci,
allora» mi fece
eco Jessica.
Feci
un
cenno con la mano e abbandonai l'edificio senza curarmi del fatto che
il signor
Newton aspettava di vedere le carote simpatiche che io avrei dovuto
inventare.
E
adesso
che cavolo faccio?, mi domandai una volta in strada, cominciando a
camminare
senza una meta precisa.
Sicuramente Jessica
avrebbe chiacchierato in
giro, diffondendo la
voce che io
volevo passare a lavorare per
la concorrenza. Già, come se
fosse facile.
Aveva
provato un'infinità di volte a farsi ricevere da James
Butler, ma per avere un
appuntamento con lui bisognava essere come minimo un imprenditore
miliardario.
Quanto al suo staff dirigenziale, l'assistente della segretaria del
capo del
personale mi aveva detto che poteva mandare un curriculum, ma che
comunque in
quel momento erano al completo.
Sai
che
allegria, mi dissi. Come minimo, dovrò tornare a servire
ai
tavoli
in qualche trattoria di terz'ordine, a farmi dare pacche sul sedere da
qualche
avventore ubriaco.
Scrollando
con un gesto rabbioso la folta capigliatura nera, mi guardai intorno
stupita.
Dove ero finita? Mi
ci volle solo un
momento per
riconoscere la palazzina
stile Tudor che svettava
oltre la cancellata in ferro battuto. Sulla colonna a
fianco del
cancello troneggiava una targa in ottone: Agenzia Butler.
La
lingua
batte dove il dente duole, pensai con disgusto.
Guardai
l'ingresso scintillante che si intravedeva in lontananza, oltre il
lungo viale
alberato, e mi immaginai come dovesse essere lavorare lì.
Ciò che m'attirava
non era l'eleganza raffinata del luogo, che pure aveva la sua parte,
quanto
l'idea di lavorare a fianco di un genio. E se lui mi avesse perfino
apprezzata?
Se mi avesse chiesto di
proporre delle idee?
Quella sembrava l'unica via di
salvezza, la strada che
poteva
finalmente
farmi decollare verso la meta. Naturalmente era soltanto una pia
speranza, e io
una povera illusa.
Stavo
per
attraversare la strada e cambiare direzione, quando scorsi con la coda
dell'occhio la berlina scura che sopraggiungeva sulla destra. Aveva il
lampeggiatore in funzione, segno che intendeva svoltare all'interno del
vialetto.
Uno
sguardo
veloce al guidatore dell'auto e ebbi la più folgorante idea
della mia carriera.
Stringendo i denti mi gettai in avanti, dritta verso le ruote
dell'automobile,
una BMW color canna di fucile, serie sette.
Jasper POV
Avanzando
lentamente nel traffico cittadino ruminavo foschi pensieri. Non era
stata
una
buona idea, pensavo. Ci voleva altro per convincere il genio della
pubblicità Butler
a lavorare per te. Da anni Butler aveva clienti fissi e difficilmente
allargava
la cerchia degli eletti.
La
ditta di
cosmetici che rappresentavo, per quanto prestigiosa, non era
sufficiente a
richiamare l'attenzione del grand'uomo. Per ora, tutto ciò
che avevo ottenuto,
grazie all'intercessione di un conoscente comune, era un appuntamento a
tu per
tu. Non con il suo tirapiedi numero uno o la sua efficientissima
segretaria.
Proprio
il
genio in persona. Bene, era già qualcosa. Per il resto,
avrei dovuto
improvvisare.
Scorgere
il
lampo nero e marrone e schiacciare il pedale del freno fu tutt'uno.
«Per
tutti
gli dei!» mormorai chinandomi. «Signorina... Si
è fatta male? Che cosa...
Perché diamine si è buttata sotto le ruote
dell'auto?»
«Chi
è?» domandò
la ragazza, sollevando leggermente
il
capo e andando a sbattere
contro il paraurti.
«Ouch!»,
esclamò, ricadendo all'indietro. «Chi è
lei?» domandò poi con voce flebile.
«Senta, riesce
a muoversi? Sente dolori
da qualche parte? Crede di avere qualcosa di rotto?
È già qualcosa che non
abbia perso conoscenza»
«Lei
chi
è?» ripeté la donna.
«Perché mi è venuto addosso?»
«Ehi,
è
stata lei a... Lasciamo perdere. Come si sente?»
Allungando
le mani, la sondai attraverso il giaccone di pelle e poiché
la donna si muoveva
piuttosto
agilmente ne trasse la convinzione che non doveva avere nulla di rotto.
Per
sbaglio, una mano scivolò all'interno del giaccone, finendo
dritta dritta su un
seno, come se ne fosse stata calamitata, e anche quello era tutto
intero, sano
e... conturbante.
«Ehi,
che
diavolo fa?» domandò, rizzandosi a sedere di
colpo, evitando di un pelo il
paraurti, questa volta. Fu in quel momento che mi resi conto che quella
donna
dai capelli neri aveva i più incredibili occhi verdi che mi
fosse mai capitato
di vedere. Spalancati.
«Io...
mi
scusi, è stato del tutto casuale. Senta, non dovrebbe stare
seduta. Può avere
battuto la testa e...»
«Nossignore,
non ho battuto la testa» affermò lei in fretta,
ravviando all'indietro i
luminosi capelli.
«Tuttavia,
è meglio che si faccia vedere. Telefono per
un'ambulanza...»
«Non
credo
proprio di averne bisogno», dissentì lei,
agitandosi per alzarsi.
Inginocchiato
accanto a lei, le misi entrambe le mani sulle spalle per farla stare
giù. «Non
si alzi! Potrebbe... svenire...»
Testarda,
la
donna incrociò le gambe e fece leva sulle cosce, rizzandosi
in piedi con una
mossa che solo un'abile ginnasta poteva fare. La guardai con la fronte
aggrottata, sollevandomi a mia volta.
Ondeggiando lievemente, si
appoggiò
al cofano
dell'auto,
guardandomi
negli
occhi.
«Lei non guarda
mai dove va?» mi accusò.
«Come
sarebbe a dire? È stata lei a buttarsi in mezzo alla strada.
Un attimo prima
era là e quello dopo era qui. Dico, non è il modo
di attraversare la strada»
«Questa
non
è una strada, ma un vialetto privato»
«È
la
stessa cosa»
«Io
avevo
la precedenza»
«Non
ci
sono strisce pedonali. E in ogni caso, non potevo fare in tempo a
vederla.
Grazie al cielo, mi pare che non si sia fatta nulla. Come si
sente?»
Lei
tentennò
lievemente il capo, come se stesse saggiando la situazione.
«Dove è diretto?»
chiese poi, inaspettatamente.
Mi
sorpresi.
«Che diamine. All'agenzia Butler, che si trova in quella
palazzina laggiù»
«Lei
ha un
appuntamento con il signor Butler, per caso?»
«Proprio»
socchiusi un po' gli occhi, perplesso. Chi era quella donna? E che cosa
voleva
da me?
«La
cosa le
interessa per caso?»
«Io... senta, mi
gira un po' la testa.
Potrei... sedermi nella sua auto?»
Dimenticai
i miei sospetti. «Ma certo. Si segga, forza» la
invitai, tenendole aperta la
portiera della BMW. «È sicura di non volere andare
all'ospedale?» chiesi poi
scrutandola preoccupato.
La
donna
scivolò sinuosamente sul sedile di pelle bianca, morbida e
calda. Allungò le
gambe davanti a sé e appoggiò la testa
all'indietro. Nonostante
l'aspetto vagamente languido
stava ragionando in
fretta.
«No,
niente
ospedale» disse, riaprendo gli occhi. Sbatté un
paio di volte le lunghe ciglia
folte, quindi abbozzò un
sorriso. «Però
forse è meglio che non riprenda a camminare da sola. Non si
sa mai...»
«Certo», convenni,
consultando
rapidamente
l'orologio.
«Senta, posso
chiamarle un taxi.
L'accompagnerei io ma il mio
appuntamento è tra meno di cinque minuti e non posso
rimandarlo»
«No, no»
si affrettò a
dire lei. «Non
deve rimandarlo affatto.
Ma un taxi
ci metterà un
secolo ad
arrivare»
Vero,
convenni, guardandomi attorno con impazienza. Con quella donna che si
era
piazzata sul sedile della mia auto, che cosa dovevo fare? Senza parere,
studiai
le belle gambe allungate davanti al sedile inguainate in un paio di
attillatissimi pantaloni neri.
«Forse
posso farle una proposta» disse lei. «Posso venire
con lei. Così dopo il colloquio
potrà accompagnarmi a casa»
Non
riuscì
a nascondere un moto di perplessità. «Venire con
me? È un colloquio d'affari,
niente
che
possa divertirla, temo»
«Sono
un
tipo paziente» assicurò lei. «E poi...
è con Butler che deve vedersi, no? È un
uomo... interessante»
Socchiusi
gli occhi. «Davvero? Lei lo trova interessante?»
«Io sono una
pubblicitaria» confessò con un
sorriso smagliante. «E lui è un genio
in
questo
campo»
«Così
dicono»
«Lo
è» assicurò
lei. «Senta, sono disposta a dimenticare che mi ha quasi
ucciso con la sua auto
se mi porta con sé. Starei buona e zitta...» si
fermò. «Così lei non dovrà
preoccuparsi del fatto che potrei svenire o finire sotto a un autobus
per colpa
sua»
«Ehi,
ci
vada piano. Non è mia la colpa dell'incidente... E poi lei
non si è fatta
niente»
«Non
si sa
mai. Una commozione cerebrale può dare effetti anche a
distanza di ore» mi scoccò
uno sguardo in tralice. «Se mi accadesse qualcosa, potrebbe
essere accusato di omissione
di soccorso. Non vuole controllare che vada tutto bene?»
Mi
grattai
la nuca. «Non mi sembra una buona idea» dissi,
perplesso. «Non ho idea di
quanto durerà l'incontro e...»
«Io
ho
tutto il tempo che voglio» assicurò la donna.
«Non c'è problema»
«Senta,
devo parlare di affari. Sarà noioso»
«Niente
può
essere noioso con James Butler»
smentì lei.
«E io sono un tipo paziente»
Ne
dubito,
pensai. Adesso ero non soltanto perplesso, ma anche incuriosito, oltre
che
vagamente eccitato. Quella donna riusciva a spedirmi brividi sotto la
pelle con
una semplice occhiata.
«Se
la
porto con me, lei in cambio che cosa mi concede?»
Lei
arricciò
le labbra. «Che cosa intende dire? Al massimo, posso
permetterle di
accompagnarmi a casa, per assicurarsi che non ci sono state
complicazioni»
Sogghignai.
«Immagino di doverlo considerare un onore»
«Naturalmente.
Io non accetto passaggi dagli sconosciuti, di solito»
Avrei
voluto farle notare che si era installata nella mia auto senza alcun
problema,
ma preferii lasciar perdere. Stavo facendo tardi al mio appuntamento e
quella
storia prometteva di rivelarsi interessante.
«D'accordo»
acconsentii con un rapido cenno del capo. «La porto con
me»
Girai
intorno all'auto e mi misi al posto di guida. Volevo scoprire che cosa
aveva in
mente quella donna.
Lei,
intanto, si era raddrizzata contro lo schienale, segno evidente che non
aveva
affatto giramenti di testa e aveva abbassato lo schermo parasole per
guardarsi
nello specchio. «Accidenti!» borbottò
frugando nella borsetta. «Ho un aspetto
orribile»
«Non
mi
sembra» dissentii, avviando l'auto. «A proposito,
forse è meglio se ci
presentiamo. Io mi chiamo Jasper Whitlock»
«
Alice Cullen» disse
lei, mentre si
spalmava il mascara con abili tocchi.
Poi prese
il rossetto
e cominciò a lavorare intorno alle labbra.
«Ma tutti mi chiamano Alice.
Perché deve vedere il signor Butler?» volle
sapere.
Percorsi
lentamente il vialetto, mentre guardavo affascinato i suoi movimenti.
«Rappresento un’azienda di
cosmetici della West
Coast. Stiamo cercando
di assicurarci una
campagna pubblicitaria da
Butler.»
Alice
fischiò
piano tra i denti, poi si sfregò le labbra in un modo che mi
fece salire le
pulsazioni.
«Avete
molti soldi, allora. Butler fa pagare il suo lavoro»
«Ci
stiamo
ingrandendo» feci io, vago.
Dopo
una
spolverata di fard, Alice si spazzolò rapidamente i capelli,
che erano lisci e
vellutati. Ebbi voglia di toccarli. «Rallenti»
disse lei, mentre si toglieva il
giaccone di
pelle.
Sotto portava una camicia bianca di seta che le cadeva morbidamente sul
seno. Alice
aprì la lampo dei pantaloni e cominciò ad
armeggiare con la camicia per
spingerla all'interno.
Guardavo
affascinato
lo slip di pizzo nero e i triangoli di pelle che si intravedevano tra
la
stoffa.
«Che
cosa
fa, dannazione?» domandai, con la bocca secca.
«Non
guardi» intimò lei, continuando le sue manovre.
Poi sbuffò. «Beh, non ha mai
visto una donna sulla spiaggia che mostra un po' di gambe?»
«Buon
Dio!
Qui non siamo sulla spiaggia»
«Faccia
finta di sì», disse lei. «Non
salterà addosso a tutte quelle che vede, no?»
«Dipende»
mormorai in risposta.
«Da
che
cosa?»
«Da
come
sono»
«La
smetta.
Parcheggi l'auto dietro a quella fila. Devo finire di
sistemarmi»
obbedì.
Ero
sempre più perplesso, e più incuriosito. Lei
finì i suoi armeggiamenti e quando
tornò a sedersi si era trasformata da giovane donna
attraente in pantaloni
attillati in una bomba di sesso che non sarebbe passata inosservata in
nessun
ambiente, tanto meno nella
raffinata agenzia
Butler. «Fa
tutto questo per un uomo?» le domandai
con voce sardonica.
«Non
per un
uomo. Per James Butler. È diverso»
Corrugai
la
fronte. Non ci capivo un accidente e questo non mi piaceva. Ero uno che
di
solito sapeva le cose prima ancora che accadessero. Questa donna mi
aveva
spiazzato. «Se lo dice lei. Vogliamo andare adesso? Temo di
essere ormai in
ritardo»
Alice
si
diede un'ultima occhiata allo specchio. «Andiamo. Ah,
un'altra cosa. Io sono la
sua assistente. Se ci sono dei particolari tecnici, li lasci discutere
a me»
Rimasi
con un piede a terra
e l'altro sull'auto. «Che
cosa?»
«Non
si
preoccupi, gliel'ho detto che lavoro nel settore» disse lei
balzando a terra ed
ergendosi in tutta la sua piccola statura.
In piedi era
ancor più sconvolgente
che seduta.
Portava tacchi alti
che la rendevano più slanciata e si muoveva in un modo da
mozzare il fiato
anche a un monaco buddista durante una funzione religiosa. Quei
pantaloni
elasticizzati le fasciavano i fianchi e il di dietro in un modo...
indescrivibile,
conclusi.
«Senta,
non
mi crei dei guai, intesi?» dissi con voce piuttosto roca
mentre mettevo a terra
anche l'altro piede. «Io devo solo discutere di un contratto
pubblicitario»
Lei sbatté le
ciglia, posando le mani sui
fianchi, una gamba morbidamente piegata davanti all'altra.
«Perché?»
domandò, il ritratto stesso dell'innocenza. «Le
sembro il tipo che può creare
guai?»
In
quel
preciso momento seppi che stavo sbagliando tutto e che prima o poi
avrei
pagato
caro
quell'errore. Non avrei mai
dovuto
lasciarmi convincere da quella donna. Non avrei mai
dovuto investirla, accidenti a lei.
«Come
una
bomba a orologeria» risposi in tono truce. «Vorrei
soltanto sapere quando ha
intenzione di esplodere»
Buona lettura
Lory