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Autore: chi_lamed    01/05/2012    3 recensioni
"Questa notte di fine agosto è la notte delle assoluzioni, ho deciso. Notte di cambiamento, notte di lacrime da versare, notte in cui finalmente voltare pagina."
Il regalo della vita talvolta può risultare incomprensibile per chi ha vissuto un’intera esistenza nel rimorso e nel rimpianto. Aberfoth Silente e Severus Piton impareranno a vicenda ad accettarlo, per ricominciare a vivere, per superare il dolore.
Storia scritta per il quarto turno del concorso “Sei Personaggi In Cerca d’Autore” del Magie Sinister Forum.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
- Questa storia fa parte della serie 'Le stelle brillano di più, quanto più fonda è la notte'
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Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Nota: storia scritta per il quarto turno del concorso “Sei Personaggi In Cerca d’Autore” del Magie Sinister Forum.





CONVERSAZIONI NOTTURNE



“Cerco una speranza che m’illumini,
cerco una strada oltre il buio…”
(Notte, Divina Commedia Opera)


* Atto Primo: Assoluzione e Incomprensione *


Notte limpida e chiara, sei piacevolmente mite nel tuo tepore di metà giugno.
Luna piena, regina incontrastata, illumini d’argento questo piccolo villaggio, cullando gli abitanti tra le braccia di Morfeo.
Tutto è quiete silenziosa, non un filo di vento: l’insegna del pub non disturba nessuno, immobile, si astiene dal suo solito e ritmico cigolio.
Ci sono solo io per le strade deserte, figura ammantata di cupo blu, curvo come se d’improvviso mi fosse stato gettato addosso il peso di secoli interi. A che mi è giovato ritrovare la forza di lottare? A che, se con queste mie stesse mani di vecchio ho dovuto abbassare le palpebre a giovani vite spezzate? Se chiudo gli occhi, rivedo ogni singolo volto di quei ragazzi e le viscere mi si stringono in una morsa d’orrore.
Dove sto andando non lo so nemmeno io, so che vado avanti, sempre avanti, in una qualsiasi direzione. Ogni tanto gioco a smuovere qualche sasso dalla strada e lo faccio rotolare con il piede sinistro una volta, due volte, come quando ero bambino e mi divertivo con Albus.
Albus… dovunque tu sia, so che stai bene, che non sei stato ucciso a tradimento, so che sei stato talmente stupido e avventato da cercare di servirti di un oggetto maledetto per mendicare un perdono tardivo. L’hai voluto chiedere a loro, a lei, perché sapevi che io non te l’avrei dato.
Ed ora che vorrei, è troppo tardi. Mantenere il rancore per anni non è servito a nulla, non a riportare indietro Ariana, mi ha solo allontanato da quel che restava di tutta la mia famiglia. Tu.
Merlino, sono diventato smielato. È colpa tua anche questa.
Quando la strada diventa sentiero, mi accorgo di essere uscito dal villaggio: ho preso la direzione del lago.
Coincidenza?
Non lo so, ma scelgo di proseguire e accelero il passo.
Giungo alla lapide bianca assieme all’ultima persona che in questo momento vorrei vedere, Severus Piton. Credevo di poter avere un attimo di quiete, invece sento la tensione che sale alle stelle. Non sono pronto, non ancora, per parlare con lui.
Scelgo il silenzio come unico atteggiamento.
Rimango a lungo immobile, straniero al mio vicino, con il mio dolore tenuto ben stretto e la mente impegnata in un lungo monologo. Quando me ne torno a casa non lo degno di uno sguardo, ripromettendomi di non incrociare una seconda volta la strada di quest’uomo.
Quattro sere più tardi, stesso luogo, stessa ora. E stessa situazione, non è possibile.
Ho da offrire solo silenzio e diffidenza.
Giugno scivola via in un luglio particolarmente umido e piovoso.
Al terzo incontro è il temporale a parlare, sovrastando con i suoi tuoni la muta domanda che rimane nell’aria e che non mi sento di porre. Il buio della notte è squarciato da lampi abbaglianti.
A metà del mese rompo gli indugi, stanco oltremodo di lacerarmi l’anima.
«Ho una gran voglia di lanciarti uno Schiantesimo da manuale, Piton.» Forse anche qualcosa di più, ma preferisco lasciarlo sottinteso. Ha l’acutezza per comprenderlo.
«Ne avresti tutte le ragioni.»
Risposta piatta e del tutto prevedibile, che non mi dà soddisfazione alcuna. Mi allontano stizzito per non schiantarlo davvero.
Altre notti, altri incontri, altri silenzi. Uno scambio di battute in quasi due mesi, per me, è anche troppo. Chissà se il caldo di agosto, che si preannuncia soffocante anche nelle ore serali, saprà operare il disgelo.
*
Lucciole.
Sì, proprio quelle che inseguivo quand’ero piccolo, tentando di acchiapparle a mani nude; quando ci riuscivo, sbirciavo pian piano con un occhio solo tra le mani chiuse a conchiglia, per vedere da vicino quel misterioso prodigio.
Questa notte sciamano all’impazzata, comunicando tra loro in taciturno e luminoso linguaggio.
Mi distraggo a seguirne le scie fioche ma ben visibili, complice la luna che si mostra solo in un piccolo spicchio e concede spazio all’oscurità.
Severus non è ancora arrivato. O magari proprio non viene. E chi mai gli ha dato appuntamento?
Devo proprio essere uno stupido, per sentirmi a disagio e guardare in continuazione verso il castello.
La realtà è che, di tutto il mondo magico, il solo verso cui nutro tanta circospezione quanta comprensione, è proprio lui.
Nel tempo, il silenzio ha vagliato ogni riflessione davanti a questa tomba, setacciando ogni sentimento e purificandolo da tutto il profondo livore che ho serbato per anni, prima contro mio fratello e poi contro colui che lo ha ucciso.
Sono diventato un vecchio con un onesto desiderio di pace, che ora vorrebbe solo levare il peso della colpa a chi è stato più vittima di me.
Per questo, quando finalmente ne sento i passi, sospiro di sollievo.
«Sei in ritardo.» Io e gli approcci gentili non siamo mai andati d’accordo.
«Lo so.»
Sorrido: sulla prontezza di spirito di quest’uomo posso sempre contare.
«Ho ancora voglia di schiantarti, lo sai?» Lo provoco per indurlo a parlare.
Si volge a guardarmi. Provo pena per il suo dolore, per questo mi avvicino di un passo per portarmi al suo fianco.
Questa notte di fine agosto è la notte delle assoluzioni, ho deciso. Notte di cambiamento, notte di lacrime da versare, notte in cui finalmente voltare pagina.


* * *


Per la terza volta in pochi minuti Fanny pigola sbattendo impazientemente le ali, infastidita dalla luce che non ne vuole sapere di spegnersi e lasciarla dormire in pace. Sbuffo, più divertito che seccato, in realtà. Ho appena finito di rimproverare il ritratto di Albus che da quasi un’ora mi sta assillando perché vada a riposare, adesso anche la Fenice ci mette letteralmente il becco, dettandomi la tabella di marcia del convalescente.
Due contro uno, non ho molta scelta. E di sonno, però, ne ho ancora di meno.
Non protesto oltre, ma d’impulso mi getto il mantello sulle spalle e mi appresto ad uscire: ho voglia di una boccata d’aria; questa sera piacevolmente mite invita ad uscire dal castello.
Fanny piega il capo di lato, scrutandomi con i suoi occhi neri come piccole perle lucenti ed emettendo un cinguettio interrogativo. Non resisto, prima di uscire mi lascio andare ad un gesto di tenerezza verso la mia salvatrice: una delicata carezza sul vivace piumaggio. Pigola dolcemente e quando finalmente l’ufficio piomba nel buio, in un attimo ripone il capo sotto l’ala.
Quando riconosco l’ombra che si avvicina alla lapide, stringo convulsamente la bacchetta nella tasca del mantello, allarmato. Aberforth ha parecchi motivi per volermi morto, o almeno schiantato all’istante.
Invece non parla. E non mi sogno di farlo io, anzi, meglio tenersi a debita distanza.
No, non ho paura di lui, ma percepisco che la mia presenza sta violando il suolo che calpesta. Per la seconda volta nella mia vita io, carnefice, sosto presso la tomba di chi ho ucciso e quest’ultima colpa non è meno grave della prima per essermi stata esplicitamente imposta.
Solo dopo che il vecchio mago torna sui suoi passi, posso finalmente dare libero sfogo alle lacrime.
Un’allucinazione, non può che essere questo. Così penso quattro sere più tardi. Al Fato non ho mai creduto e non mi basta una semplice coincidenza per convincermi, ma… dannazione, odio sentirmi a disagio. Ci separano pochi metri ed un abisso di incomprensione. Non mi sento pronto a colmare né gli uni, né l’altro.
A metà di un luglio che sembra ottobre, un violento temporale s’abbatte sul castello, scuotendolo fin dalle fondamenta. Fa da perfetta cornice al mio animo ancora inquieto. Esco fuori, ignorando le proteste di Albus, di tutti i ritratti e perfino dei fantasmi delle Case, che vorrebbero trattenermi al chiuso come se fossi un bambino malaticcio. Con questo tempo è impossibile che l’altro Silente si sia avventurato per strada, almeno avrò un momento tutto mio, fosse anche sotto il finimondo.
E invece no, la luce dei lampi non mi trae in inganno.
Ora esigo una risposta.
Invece mi astengo dal porre qualsiasi domanda.
Giorni dopo, le prime parole che mi rivolge non entreranno certo in gara per il discorso più sdolcinato del pianeta, ma come potrei dargli torto?
«Ho una gran voglia di lanciarti uno Schiantesimo da manuale, Piton.»
«Ne avresti tutte le ragioni.» Dico monocorde, senza distogliere lo sguardo dalla lapide marmorea. Sarà pur buio, ma altri due occhi azzurri che mi fissano, così simili e vivi, non li posso ancora reggere. Se ne va con un grugnito di stizza, cercava un pretesto per uno scontro che non ho voluto dargli.
E torno a barricarmi nella mia roccaforte di ghiaccio.
*
Enotera.
I delicati petali gialli si sono schiusi per ricevere il bacio delle stelle e per spargere generosamente il loro dolce profumo nell’aria calda di agosto.
Il tragitto ormai mi è tristemente noto, conosco ad occhi chiusi ogni avallamento del terreno, ogni stelo d’erba. Aspiro con voluttà la fragranza dell’estate, come se la sentissi per la prima volta, ma trarne gioia mi fa sentire come un ladro colto in flagrante.
La bellezza della vita che mi è stata concessa è un regalo che non ho potuto rifiutare; Merlino solo sa se però avrò mai il coraggio di scartarlo.
Aberforth questa volta è già lì. Mi secca non essere arrivato puntuale ad un appuntamento mai cercato.
«Sei in ritardo.»
Rude come il solito, è una delle costanti di questo mondo su cui posso ancora fare affidamento.
«Lo so.» Non ci penso nemmeno a farmi cogliere alla sprovvista.
«Ho ancora voglia di schiantarti, lo sai?»
Cos’è, una minaccia? Mi volgo a guardarlo, mentre un Protego non verbale è già pronto nella mente e sulla punta della bacchetta. Io non mi sono ancora perdonato – né mai lo farò – da lui non posso aspettarmi altro che astio.
Invece fa un passo verso di me.





* Atto Secondo: Compassione e Commozione *


Si aspettava davvero uno Schiantesimo, devo avere un’aria più truce di quello che penso.
Non mi resta che andare dritto al sodo. Se lo lascio troppo sulle spine è possibile che sia lui a schiantare me.
«Non è stata colpa tua, Piton. Mettitelo bene in testa.» Mi costano, mi bruciano queste parole, per quanto sono veritiere.
Non ho odiato del tutto quest’uomo quando ho avuto la possibilità di farlo, poiché ero troppo impegnato a maledire Albus per il suo sogno di grandezza e le sue conseguenze; non lo odio ora che so quanto coraggio gli è costato ogni istante in questi ultimi anni di vita.
Il sentimento dell’odio non mi appartiene più.
«Non è stata colpa tua.» Ripeto, perché comprenda che non sto scherzando.
Continua a fissarmi allibito, immobile come una statua di sale. Lo tradiscono solo le palpebre, che si abbassano per celare ogni pensiero.
Se è orgoglioso anche solo la metà di quanto credo, non si rassegnerà tanto facilmente a darsi pace. Difatti scuote la testa, caparbio, gettando al vento il mio tentativo di riconciliazione.
«Sei più testardo di un Ippogrifo riottoso!» E m’accorgo di urlare, con la voce rotta dal pianto che a stento trattengo.
Guardo queste mani nodose, di vecchio, incise dal tempo. Vuote. Non possono più stringere nulla, la mia inflessibilità mi ha privato anche dell’ultimo affetto, lasciandomi da solo a parlare con i morti. Non auguro questa esistenza a nessuno, soprattutto a quest’uomo che ha ancora tanti anni davanti e che potrebbe rifarsi una vita come si deve.
La compassione, ultimo atto di questa commedia, spezza definitivamente la diga e le parole escono come un fiume in piena, inarrestabili.
Gli racconto di me e di Albus, di Ariana; per troppi anni ho sputato veleno, evitando di accostare anche solo nella mente questi due nomi di fratello e sorella. Ora non più. Ho dovuto perderli entrambi per ritrovare loro e me stesso.
Parlo, parlo a non finire ed intanto la luna tramonta, mentre dal lago spira una brezza leggera che dona ristoro.
So cosa siano soffrire e pentirsi e adesso che il peso degli anni grava su queste mie membra, voglio lasciarli andare lontani. Sono stato vecchio dentro per un tempo infinito e lui è sulla buona strada per fare peggio di me.
Sono disposto a rendere accettazione e perdono, per proseguire il cammino e sperare che lui faccia altrettanto.


* * *


La minaccia di incantesimo resta tale e non riesco a nascondere il sollievo. Ho già dovuto alzare la bacchetta contro Minerva, anche se solo per difesa, non desidero doverlo fare anche con lui.
«Non è stata colpa tua, Piton. Mettitelo bene in testa.»
Parole assurde, a cui non credo. L’Anatema è dalle mie labbra che è uscito. A prescindere da tutto quel che è accaduto in precedenza, io rimango l’assassino del mio unico amico. Di suo fratello.
«Non è stata colpa tua.» Ribadisce.
Per me potrebbe ripeterlo altre mille volte, non servirebbe, non potrebbe cancellare quel che è stato. Scuoto la testa, io non mi posso perdonare.
«Sei più testardo di un Ippogrifo riottoso!»
Urla all’improvviso, ma la roca voce gli trema.
Si guarda le mani e come se da esse traesse ispirazione comincia a parlare senza posa. E non s’accorge, perché non lo può sapere, che sta usando le stesse parole di Albus. No, non simili, proprio le stesse, per narrare di un tempo passato custodito in uno scrigno di rimpianto e risentimento.
Lo lascio sfogare, mentre mi è nota ogni cosa.
Guardami” disse Albus in un freddo pomeriggio di aprile di un anno fa – una vita fa – mettendomi al corrente di quella parte che non conoscevo di lui, obbligandomi ad ascoltare in silenzio. Ha messo tra le mie mani un testamento di puro rimorso, accompagnato da calde lacrime che non mi sono sentito degno nemmeno di asciugare, ma che ho solo potuto condividere. Se pensava di facilitarmi il compito ingrato di ucciderlo, ha fallito in pieno: gli ho voluto ancora più bene, ammirando soprattutto l’uomo che ha saputo accogliermi e perdonarmi – perché aveva imparato e sofferto a proprie spese – e non solo il mago potente ed incomprensibilmente magnanimo.
Parla ancora, Aberforth, senza avvedersi di piangere. Posso vedere le sue lacrime luccicare alle prime luci dell’alba. Questo vecchio che si svela nel pianto e che per età mi potrebbe essere padre mi commuove nel profondo.
Sofferenza e pentimento, dice. Questi li posso comprendere a pieno, mi sono compagni da sempre. Beato lui che sa lasciarli andare. Io me ne sento ancora avviluppato, troppo poco è passato perché le mie ferite siano sanate.
Accettazione e perdono, dice ancora.
Per me.
Ecco un altro regalo, ma questa volta ho la forza di non accettarlo.




* Atto Terzo: Speranza e Futuro *


Scuote ancora la testa e si volta per andarsene, più sordo di un blocco di pietra. Alla malora, non posso certo fargli da balia! Che se ne torni alla sua vita ed io alla mia.
Invece lo trattengo. Non ho mai lasciato le cose a metà e non sono disposto a fare un’eccezione proprio ora. Sta a vedere che mi tocca schiantarlo veramente perché mi presti ascolto.
«Qui ed ora, oppure mai più! E avrai fallito sul serio.» Forse sono un po’ troppo burbero e melodrammatico, ma rimandare al domani è cosa da riservare alle inezie, non al voltare pagina finché si è in tempo.
Ci sono momenti in cui lasciare il proprio fardello a terra è ancora più faticoso che metterselo sulle spalle. Per questo trema, in una lotta tutta interiore che posso leggere senza troppo sforzarmi, perché ne conosco ogni colpo.
Non mi aspetto che davvero demorda, non sarebbe da lui, esigo soltanto un piccolo spiraglio.
«Un’altra volta.»
Lascio andare la presa, soddisfatto.
Non è un rifiuto.
Ha lasciato trasparire un barlume di speranza, speranza in un domani in cui sarà capace di passare dal sopravvivere al vivere senza provarne tormento.
S’incammina verso il castello e torno anch’io sui miei passi. Se riesco, ho qualche ora di sonno prima di riaprire il locale.
Nessun accordo, non serve, la prossima notte che vorrò venire in questo luogo saprò con certezza di trovare la sua compagnia, la compagnia di un possibile amico. Seguiremo i dettami del Caso, fino a quando una lapide bianca non sarà più l’unico argomento di conversazione.


***


Me ne vado, volto le spalle ad un sostegno in cui non avrei mai riposto fiducia, tanto gratuito quanto incomprensibile.
Invece mi afferra il braccio destro. Che si chiami vecchio quanto vuole, la sua presa è salda come poche. Sfido che da giovane non abbia avuto problemi nel rompere il naso ad Albus.
«Qui ed ora, oppure mai più! E avrai fallito sul serio.»
È imponente nel darmi questo ultimatum. Occhi che scrutano e ti sondano l’anima, scandagliandola in lungo ed in largo. Anche i suoi. Più fratelli di così non potrebbero essere.
Tremo, perché quest’uomo che avrebbe ragione di pretendere almeno la mia dimora fissa ad Azkaban, esige invece che io mi perdoni.
«Un’altra volta.» Rispondo.
Un altro giorno, quando le stagioni saranno passate a decine ed io avrò imparato ad essere meno inflessibile con me stesso. Quando avrò smesso di svegliarmi nel cuore della notte, incredulo davanti all’assenza di un Marchio Nero sul braccio.
Sto ragionando al tempo futuro.
Annuisce, lasciandomi andare, senza chiedere altro.
Ce ne andiamo simultaneamente, senza un saluto. Ci sarà di sicuro una prossima volta e un’altra ancora e forse, prima o poi, riusciremo a dirci qualcosa senza per forza dover rievocare il passato,
riuscirò a guardarlo e vedere in lui soltanto Aberforth, un possibile amico e non solo il fratello di Albus.




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Note dell'autrice:
Come potete constatare il finale è aperto: c'è già un seguito, abbozzato, ma c'è. Questi due personaggi, così simili nella loro solitudine, mi ispirano troppo.
Infine, se siete arrivati fino a qui senza annoiarvi, vorrei chiedervi il piccolo favore di lasciarmi una recensione, anche piccola, soprattutto se avete critiche costruttive per quanto riguarda stile e trama. Ve ne sarei enormemente grata.
 
  
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