Buonasera fandom!
Probabilmente avrò una qualche connessione voglia di
scrivere-stato d’animo che
funziona in maniera stramba dato che scrivo storie drammatiche quando
sono
sinceramente di buon umore. Ho rinunciato a cercare di capirmi.
Spero davvero che la storia vi piaccia, ovviamente non manca la vena
romantica
(non ci posso fare niente, li adoro troppo) e sperando di non aver
fatto troppo
male, vi auguro buona lettura!
S.
Via le mani
dagli
occhi
“[…]Si
dimentica mai ciò che si è
amato una volta?”
-Jean-Jacques Rousseau
Quello di cui John ha bisogno,
è un sorriso.
La Signora Hudson gliene
regala uno meraviglioso quando gli porge la tazza di tè, nel
suo soggiorno. E’
molto premurosa, da quando John è solo,
molto più di quanto fosse necessario.
Il dottore però sa
che è
solo l’affetto, il profondo legame che la lega a lui a
spingerla a quelle
attenzioni. E John le è grato, con tutto il cuore.
Quel pomeriggio, appena aperta la porta, gli era saltata al collo,
felicissima
di rivederlo, e alla sola vista della simpatica e arzilla ex padrona di
casa,
John si era sentito allo stesso identico modo.
Da quando John non vive
più a Baker Street lei lo telefona quasi ogni giorno,
tenendolo a telefono per
ore ed ore, distraendolo da qualunque pensiero spiacevole, doloroso.
Perché lei sa.
Sa che John non è sé stesso quando dice che
è tutto passato, che tutto adesso
va a meraviglia, che non pensa più a lui da tempo. Sa che
è costretto a dirlo,
a pensarlo, per evitare di sprofondare, di annegare in un mare buio
pieno di angoscia
e dolorosi ricordi.
Sa che John è lacerato da quella decisione, anche se non
vuole ammetterlo, e sa
anche che non può far nulla per cambiarla.
John vuole continuare a vivere, e per farlo, lui ha dovuto dimenticare.
Sherlock è un soffio di fiato ormai, portato via da una
bufera di vento, più
forte di lui.
“Ma tutto va benone”
John continuava
a dire. “Tutto va come deve andare”.
Quello di cui John ha bisogno, è
una
pallina
Il suo piccolo paziente
piange disperato, mentre osserva la siringa sottile che John tiene fra
le mani.
John gli sorride e gli scompiglia i capelli, stringendolo dolcemente a
sé per
calmarlo e rassicurarlo.
“Ehi piccolino, calma. Non farà male,
andrà tutto bene” gli dice, con voce
tranquilla.
La madre del piccolo lo guarda con espressione piena di gratitudine
mentre il
bambino pian piano placa i suoi singhiozzi, senza però
smettere di piangere.
John improvvisamente ha un’idea. Si allontana per un secondo,
mentre la donna
continua il suo tentativo di confortare suo figlio, e aprendo il primo
cassetto
del bancone, afferra una piccola palla rossa a strisce bianche.
Il bambino è improvvisamente attirato dai movimenti del
dottore, e alza lo
sguardo per guardarlo, con gli occhi arrossati dal pianto, e vede John
avvicinarsi di nuovo, rannicchiandosi di fronte a lui.
“Se fai il bravo bambino e ti lasci fare la puntura, ti
mostro un trucchetto”
gli promette, e il bambino all’improvviso sembra
incredibilmente affascinato da
quella prospettiva. Tira su col naso e dopo un’iniziale
titubanza, annuisce.
“Puoi farmene uno anche adesso, però?”
gli domanda il piccolo con una vocina
resa tremula dal pianto. “E uno dopo?”.
John non può che rimanere intenerito dalla dolcezza e
vulnerabilità di quel
bambino. Accarezzandogli di nuovo i capelli, muove la mano in un gesto
d’assenso.
“Ci sto” dice e infila la pallina tra il dito medio
e l’indice. “Guarda bene”
si assicura, e il bambino gli pianta bene gli occhi addosso, senza
alcuna
intenzione di distogliere l’attenzione.
Con un elaborato movimento della mano e del polso, John fa sparire la
pallina,
senza che il bambino potesse accorgersi di nulla. La tiene fra il polso
e la
manica, ma questo il piccolo non può saperlo, e guarda John
come se fosse una
specie di essere soprannaturale. Ha completamente smesso di piangere, e
adesso
il suo sguardo è totalmente adorante e concentrato.
“Come hai fatto?” gli chiede. “Puoi farla
riapparire?”.
John chiude gli occhi per fare un po’ di scena, come se gli
occorresse una
profonda concentrazione per poterlo fare. Alla fine, con un nuovo
intreccio
scenografico di mani e torsioni di polso, ecco che la pallina
è nuovamente nel
palmo della sua mano destra.
Il bambino applaude, senza
parole. La madre guarda John con dolcezza, come se l’avesse
salvata da una
spiacevolissima situazione.
“Sei bravissimo!” grida il piccolo.
“Adesso faccio la vaccinazione, ma dopo ne
voglio un altro ancora! Anzi due!” grida, entusiasta. John
ride.
“Affare fatto”.
“Puoi anche far riapparire le persone?” gli domanda
poi improvvisamente, gli occhi
che lo guardano ammirati. “Qualcuno che è andato
in Cielo?”.
Quella domanda costringe John a sostenersi sulla sedia vicina, quando
un
improvviso brivido freddo lo scuote, con una sensazione di disagio, di dolore. Il cuore batte più
forte mentre
inevitabilmente, dopo aver cercato in tutti i modi di spostare i
pensieri
altrove, pensa a lui.
“Questo non posso farlo” gli risponde, cercando di
riprendere il controllo.
“Questo non posso farlo nemmeno io”.
Lui non vuole pensare. Lui non lo pensa più da mesi ormai e
va tutto bene, tutto
a meraviglia, tutto come deve essere. La sua vita è normale,
adesso, in tutto è
per tutto.
John è felice.
O almeno questo è quello che lui stesso continua a ripetersi, sperando di convincersene
pienamente, un giorno.
Quello di cui John ha bisogno
è un
caffè.
Cammina nel parco al
pomeriggio, il sole che splende in tutta la sua meraviglia e le fronde
degli
alberi che si muovono lente accarezzate dal vento.
Ama passeggiare nel parco, perdersi nel rilassante scalpiccio dei
passanti, nei
click delle macchine fotografiche dei turisti, nel lento scorrere
dell’acqua
nelle fontane. John deve distrarsi, e quel posto, nella sua quiete,
è quello
che serve.
Cammina per quelle che gli sembrano ore, a passo svelto e poi
più lento, senza
alcuna fretta, godendosi la frescura e la luce, cercando di non pensare
a
nulla, cercando solo di estraniare completamente la sua mente da ogni
preoccupazione.
Passeggiando, nemmeno si accorge di essere arrivato sul lungo viale
alberato,
circondato da passeggiatori solitari, coppie mano nella mano, turisti
in
bicicletta e all’improvviso, guardandosi bene intorno
è costretto a fermarsi,
quando scorge quella panchina.
Qualcosa quel giorno ha deciso di tormentarlo, di rendergli la giornata
più
difficile di quanto già non fosse tutti gli altri giorni;
aveva impiegato tanto,
troppo tempo per relegare il suo volto, la sua voce, la sua…esistenza
in
un angolo remoto della sua mente e adesso eccolo tornare a minare la
sua
stabilità, a sfiorare una ferita ormai rimarginata.
Su quella panchina del parco, dove Mike Stamford gli aveva parlato di lui,
siedono ora due uomini intenti in una pacata conversazione, e al medico
sembra
quasi di rivedere sé stesso e il suo vecchio compagno
d’università, quelli che
sembrano millenni prima.
Uno dei due ha in mano un caffè e lo sorseggia
distrattamente, attratto dalla
parlantina dell’altro. John sorride, senza alcuna allegria.
Spera che quell’uomo abbia più fortuna, se per un
caso straordinario si
trovasse nella sua stessa situazione di tanto tempo prima. Si augura
che
scappi, che decida di cambiare città, lavoro e vita,
evitando di fare un
incontro speciale che avrebbe cambiato la sua vita in meglio, per poi
vedere
quel sogno infrangersi con un gesto crudele e inspiegabile.
John distoglie lo sguardo e decide di andar via, lontano. Un
caffè ora è quello
che serve anche a lui. Nero e forte.
“Non devo pensarci più”
riflette,
sorseggiando la bevanda bollente. “Non
ora che tutto va così bene”.
Quello di cui John ha bisogno
è dimenticare
come si usa un telefono cellulare.
John afferra il suo telefono,
seduto alla
stazione di Paddington, alla disperata ricerca di qualcosa da fare per
spingere
i suoi pensieri altrove, per direzionare la sua preoccupazione a
qualcosa di
più utile e produttivo. Scorre lento i messaggi ricevuti: Harry,
Harry,
Harry, Mike, Sarah, Sconosciuto, Vodafone UK, Tesco Info,
ripensando a
quanto fosse piena, in passato, quella cartella. Un solo nome, sopra
tutti.
Messaggi anche inutili, una sfilza di ‘Mi
annoio!’ per di più, ma che riuscivano
sempre a strappargli un sorriso
divertito.
Scuote la testa, rimuovendo quel ricordo e corre con le dita sui tasti,
sospirando, ritrovandosi nell’elenco delle chiamate rapide e
scorrendo la lista
di nomi abbinati alle varie cifre.
Alla numero uno, è costretto a volgere altrove lo sguardo.
Ancora lui. Il primo, in tutto. Anche in quel
maledetto telefono
cellulare.
L’ultima chiamata, e qui si sente mancare il respiro,
è quella chiamata.
John raccoglie tutto il coraggio che riesce a trovare e preme il tasto opzioni, con il cuore pieno di colpa.
’Eliminare numero abbinato a tasto chiamata rapida
1?’
Un click.
’Confermare?’
Un altro click.
Dopotutto, tenerlo non sarebbe servito a nulla, pensa. Ora va tutto
bene, tutto
alla perfezione. Quel numero sarebbe stato presto sostituito da qualcun
altro,
sicuramente. Questo qualcun’altro
però
John non riesce realmente a vederlo, nemmeno nelle sue fantasie, nei
suoi sogni
più remoti.
Quel qualcuno non esiste e non esisterà mai, ma è
una realtà a cui John non
vuole pensare.
Dopotutto, sta andando tutto a
meraviglia, adesso.
Quello di cui John ha
bisogno è non fissare quel
maledetto
soffitto
Non è lo stesso di
Baker Street, quello
almeno, era un punto a suo favore. Niente fori di proiettile, niente
solchi
profondi da lancio di coltelli dovuto alla noia
e altri accanimenti vari contro il povero intonaco. Ma quella vista, lo
stare
sdraiato a fissarlo, non può fare a meno di rimandarlo
indietro a quel giorno
di anni prima, il giorno in cui aveva ricevuto il regalo più
grande che avesse
mai potuto desiderare.
Un bacio.
Era stato
semplice, senza nessun
romanticissimo preambolo, senza dichiarazioni d’amore da film
sentimentale di
serie B. Più semplicemente Sherlock gli si era avvicinato,
mentre John era
straiato, e aveva premuto le sue labbra sulle sue, con esitazione,
probabilmente temendo che il medico lo rifiutasse, ma John non ne aveva
avuto
la benché minima intenzione.
Sconvolto ma emozionato come un bambino, aveva portato Sherlock
giù con sé e
allacciato le gambe ai suoi fianchi, approfondendo il bacio e lasciando
che la
maggior parte dei loro corpi si sfiorasse, agognando quel contatto,
godendo di
quel lento sfiorare di pelle e stoffa che per troppo tempo aveva
silenziosamente desiderato. Non avevano fatto nient’altro,
non quella notte, ma
John e Sherlock non ne avevano sentito la necessità in quel
momento. Era tutto
perfetto così com’era.
Erano rimasti abbracciati e John era scivolato in un sonno profondo con
una
mano fra i suoi capelli, a godersi il calore dell’uomo
addormentato sopra di
lui, sentendosi bene come non succedeva da anni.
E adesso è solo, a crogiolarsi in un immagine lontana,
eterea come un sogno. A
ricordare un bacio ricevuto da qualcuno che non avrebbe mai
più toccato, mai
più.
Si domanda se è il caso di uscire, quella sera. Magari
conoscere qualcuno. Ora
che la sua vita va a gonfie vele,
ora
che la sua è una normale e comune esistenza John
può essere come tutti gli
altri. Di nuovo.
Quello di cui John ha bisogno
è che fuori rimanga il sole
Purtroppo però
fuori piove, e l’aria profuma di terra, di acqua, di
natura.
John in passato amava quel profumo, lo faceva sentire bene, rilassato,
calmo e
soprattutto lo adorava ancora di più perché gli
ricordava lui. Adesso
però, per quello stesso identico motivo, John non
può sopportarlo.
Tutto era iniziato quella volta in cui il suo coinquilino era ritornato
a casa
fradicio dalla testa ai piedi. Aveva percorso buona parte del salotto
come se
non fosse un completo bagno d’acqua sgocciolante, lasciando
una scia bagnata e
fangosa dietro di sé. Arrivato davanti a John aveva
scrollato le spalle come un
grosso cane dopo un bagno e aveva annunciato trionfante che il caso era
risolto.
John non aveva fatto una piega ma gli aveva sorriso, ripiegando il
giornale della
sera e alzandosi verso di lui. Incurante degli abiti zuppi lo aveva
abbracciato
e baciato con trasporto, come se fosse tremendamente ammirato e volesse
ricompensarlo per la sua bravura. Il coinquilino era rimasto
sinceramente e
piacevolmente sorpreso.
”Molte grazie, John” aveva detto.
”Figurati” aveva risposto il medico, gentile.
“E oltretutto hai veramente un
buon profumo, sai?” lo aveva annusato, dolcemente, con
l’altro che lo guardava
curioso. “Terra bagnata, erba secca, pioggia. Veramente
buono”.
Sherlock aveva annuito, compiaciuto, e aveva posato un altro bacio
leggero
sulle labbra del dottore.
”Petrichor” aveva detto poi,
senza che John capisse. “Dal greco. E’ il
profumo della pioggia che bagna la terra asciutta”. Il medico
aveva ridacchiato
sommessamente sulle labbra dell’altro.
”Grazie della delucidazione” aveva detto.
“Ora continua quello che stavi
facendo, se non ti dispiace”. E quello che era seguito
è vivido nella mente di
John come se fosse accaduto appena un giorno prima.
China lo sguardo, sottomettendosi al dolore di quei ricordi che lo
lacerano, lo
colpiscono come schiaffi a freddo sul viso.
Forse non sta tanto bene, comincia a
pensare, forse non in quel momento, non
quel giorno. Spera che passi. Lo spera con tutto il cuore.
Quello di cui John ha bisogno
è aprire gli occhi
Perché John li ha
lasciati chiusi da quel giorno, al
Barts.
Da quel giorno John non ha più vissuto la stessa vita, per
quanto avesse
cercato di convincersi che era riuscito a superare quel momento, per
quanto
ripetesse in continuazione che ce l’aveva fatta, che era
andato oltre, che era
stato abbastanza forte per superare un’altra guerra, se
possibile anche più
violenta e dolorosa della prima.
La verità però, è un’altra.
John ha cominciato a vivere ad occhi chiusi per non
essere costretto a vedere l’ineluttabile e crudele
verità.
John non vuole aprirli, vuole rimanere in quel limbo irreale e falso,
in quel
luogo effimero dove lui è un uomo forte, coraggioso, con un
cuore talmente
freddo da aver dimenticato il suo migliore amico, il suo compagno, il
suo amante, dopo aver condiviso con
lui i
momenti più belli della sua intera esistenza. Vuole rimanere
in quel mondo
irreale ma perfetto perché sa che morirebbe se li aprisse.
Perché tornare il
vecchio John, senza Sherlock accanto, sarebbe come scavare a poco a
poco la sua
fossa.
Non va tutto bene. Non è
mai andato
tutto bene.
Quello di cui John ha bisogno
è piangere
Dopo quel giorno al cimitero,
John non ha più pianto per Sherlock.
Era stato arrabbiato con lui, i primi tempi. Gli aveva sempre creduto,
non
aveva dubitato mai neppure un secondo di lui, ma quel giorno stesso lui
aveva
preso la sua decisione. Se Sherlock aveva deciso di morire, se aveva
scelto di
lasciarlo solo ad affrontare quell’ostacolo insormontabile,
terribile, non
meritava che lui annullasse la sua vita a causa sua. Sherlock sarebbe
stato
solo un capitolo chiuso nel libro della sua vita. Un capitolo
ingiallito e
dalle pagine rovinate e illeggibili. Fogli consunti e maceri, che non
avrebbe
mai più sfogliato. Sherlock era scomparso
quel giorno.
Sul letto del suo nuovo appartamento però, adesso John
piange.
E non sono poche e silenziose lacrime quelle che bagnano il suo
cuscino, e non
è un gesto involontario quello stringere forte le lenzuola,
cercando un appiglio,
un riparo. E’ un pianto copioso, disperato, pieno di colpa,
risentimento,
rabbia; sentimenti che tiene intrappolati da tanto, troppo tempo da
stimare, da
troppi giorni passati a cercare di reprimerli aspettando il giorno in
cui
avrebbe completamente smesso di provarne.
Adesso il vero John è di nuovo lì, in un
monolocale di periferia nella sua
Londra, la loro Londra, e soffre,
piange, sente di nuovo.
Ha ritrovato la realtà, John. E fa male, più di
quanto avesse mai potuto
immaginare.
Quello di cui John ha bisogno
è Sherlock
Perché è
qualcosa che non può più negare, su cui non
può più passare
oltre.
John ha bisogno di lui come non ne ha mai avuto di nessuno. Aveva
lasciato i
suoi affetti anni prima, rivendicando la sua indipendenza senza alcun
ripensamento,
senza rimorso, con coraggio.
Era andato a vivere per conto proprio in giovane età, aveva scelto la vita militare, aveva scelto di
andare in guerra e l’aveva affrontata con coraggio e sangue
freddo. Aveva perso
amici, compagni fidati, fratelli e
aveva pensato che dopo tutto quell’orrore, nulla avrebbe mai
più potuto
turbarlo o spaventarlo.
Ma nulla di tutto ciò che aveva passato, nessuna esperienza avrebbe mai potuto prepararlo
a quello.
John ha bisogno di lui.
John si sente squarciato, incompleto, mancante. E realizza, finalmente,
dopo
tanto tempo passato a cercare di respingere quella verità,
che Sherlock è la
sua metà perfetta, la sua parte irrazionale ma necessaria, quella perfetta frazione
mancante della sua vita che
aveva cercato per anni. Sherlock è il tocco di colore
mancante alla sua tela.
Sherlock è tutto, Sherlock è vita,
e
John si sente colpevole, ingrato, una persona meschina e orribile ad
aver
voluto cancellarlo dalla sua esistenza, facendo finta che non fosse mai
esistito.
John non riesce nemmeno a pensare a come avesse fatto a vivere in quel
modo per
tanto tempo, quando adesso non riusciva nemmeno a tollerare quelle
poche ore senza di lui.
Sente il respiro farsi più pesante, la bocca asciugarsi e la
vista annebbiarsi
mentre pensa al fatto che non lo rivedrà mai più.
Sherlock è andato, Sherlock è
sparito, morto, passato. Sherlock
si
è gettato da quel maledetto tetto d’ospedale anni
prima e John è costretto a
stringersi lo stomaco quando rivive quel momento, senza poterlo evitare.
John non è più niente, senza Sherlock.
E’ orribile da pensare per un uomo come
lui, che ha visto tanto, sopportato troppo, ma è la
verità, la triste e
inesorabile verità e John è costretto ad
accettarla, e a patire le conseguenze
di quell’improvvisa realizzazione.
Chiude gli occhi, le gambe che tremano e le lacrime che scendono
ancora, più
copiose di prima. Gli occhi bruciano, ma John non può fare
nulla, non vuole
fare nulla per impedire ad esse di scorrere, liberatorie.
Non vuole più mentire, né a sé stesso
né agli altri.
John geme, stringendosi i capelli fra le mani, le ciocche che sporgono
tra le
dita lunghe, tremanti.
Ha bisogno d’aiuto, ha bisogno di qualcuno che lo sostenga,
che lo aiuti a non
venire sopraffatto da quelle emozioni, da quel dolore. Il problema
però, è che
nessuno può soccorrerlo, ormai.
John ha bisogno solo di Sherlock, e Sherlock ormai, non può
più aiutarlo.
§
Quello di cui Sherlock ha
bisogno è John
Qualcuno, dall’altro
lato della strada, osserva una finestra spoglia
di un vecchio palazzo di periferia.
Lo ha seguito tutto il giorno, attento a non farsi scorgere, impaziente
di
poterlo ritrovare, senza riuscire a rimanere ancora un giorno senza
poter
rivedere il suo viso.
E lo aveva visto sereno, felice, senza alcuna preoccupazione.
Gli aveva fatto male, più di quanto fosse disposto
ad ammettere, e allo stesso tempo si sentiva stupido, egoista a pensare
una
cosa del genere. John non meritava di passare una vita di sofferenza.
Lo aveva
abbandonato, o almeno così gli aveva fatto credere e non
può biasimarlo perché
ha deciso di affrontare quella perdita. E’ solo colpa sua,
John non ne ha
alcuna.
Il vero problema però, non è
l’improvvisa realizzazione di quanto John fosse
stato forte, di quanto coraggio avesse avuto per affrontare il lutto
così
facilmente: il problema vero, doloroso, lancinante è che non
vuole rassegnarsi
al fatto che lui abbia potuto dimenticare.
Ha sempre vissuto nella convinzione che il dottore lo avrebbe
aspettato, tutti
i giorni, tutta la vita, ma la
realtà
è un’altra e lui non può fare nulla per
cambiarla. Non ne ha alcun diritto.
Sospira, il cuore che batte forte, e guarda la luce proveniente dalla
finestra
spegnersi di colpo. Probabilmente John sta andando a dormire, nel suo
letto
normale, del suo normale appartamento, in una notte normale della sua
vita
ormai ordinaria. Sherlock geme, distogliendo lo sguardo e rimanendo
lì, in
silenzio.
Quello di cui John sente il bisogno è trovare la
sua pistola
E’ tanto tempo che
non la rispolvera dal vecchio cassetto, tanto che è
quasi sicuro che la troverà difettosa, rotta,
inutilizzabile. E’ tantissimo
tempo che nemmeno la tocca ma all’improvviso immagina il
sollievo che stringere
nuovamente il freddo metallo tra le mani potrà donargli.
John lo vuole. John ci
pensa, più di una volta. E’ una tentazione quasi
troppo forte da controllare.
Quello di cui Sherlock ha
bisogno è fare un
passo
Perché non ha mai
trovato tanta difficoltà, un dolore fisico,
a muovere le gambe e camminare. Spilli
invisibili hanno sostituito l’asfalto sotto le sue suole.
Ogni movimento fa
male, malissimo.
Quello di cui John ha bisogno
è il coraggio
Perché quel
pensiero si è materializzato in un’azione
concreta, lenta
e metodica. Adesso quel metallo è fra le sue mani ed
è freddo, come ha
immaginato. Quando stringe la presa intorno all’impugnatura,
togliendo la
sicura con l’altra mano però non sente alcun sollievo, neanche una piccola traccia.
L’unica cosa a cui riesce a
pensare è a quanto vorrebbe che Sherlock fosse lì
con lui.
Quello di cui Sherlock ha
bisogno è la forza di entrare da
quella porta
Perché in vita sua,
non ha mai avuto una mancanza di coraggio tale da
privarlo completamente della forza nella braccia, nelle gambe, in tutto
sé
stesso. Sente che deve, che ha bisogno di farlo, percepisce qualcosa
che gli dice
che deve oltrepassare quella porta.
A tutti i costi.
Quello di cui John ha bisogno
è un miracolo, il suo personale
miracolo
Perché solo lui
riuscirebbe a farlo desistere ormai. Il dolore è
troppo, la vita troppo lunga per poter aspettare ancora. Il metallo
è sempre
più freddo, tra le dita. Sempre più pesante.
Quello di cui Sherlock ha
bisogno è che John capisca
E’ quasi da lui
ormai, può sentirlo muoversi, può quasi sentire
il
rumore del suo respiro da dietro la porta. Gli è mancato,
gli è mancato quel
suono cadenzato e rilassante, così come gli è
mancato il rumore delle suole
delle sue scarpe sul pavimento, il suono della sua voce al mattino,
quando lo
svegliava dolcemente, scuotendolo.
Sherlock vuole che tutto ritorni, adesso. Sherlock prega
perché lui capisca,
perché lui cerchi di comprendere. Non sopporterebbe che John
lo odiasse. Non
potrebbe davvero sostenere qualcosa del genere.
Sherlock sente un rumore, fermo dietro la porta con una mano sospesa
nell’aria
ma non riesce a capire, in un primo momento. Un lieve clic metallico,
acuto,
che ha sentito mille volte ma che in quel momento gli sembra
completamente
fuori contesto, orribilmente… inadeguato alla situazione.
Poi Sherlock capisce,
anche se non può vederlo, ne sentirlo. E’ qualcosa
che trascende ogni legge
fisica e razionale. Sherlock sente che deve entrare, che è necessario, vitale.
Spera
di non sbagliare, spera di potersi fidare ancora della sua mente e del
suo
istinto. Sospira mentre la mano sfiora la maniglia.
Quello di cui John ha bisogno
è qualche secondo ancora
Perché un secondo
può essere importante, fondamentale, e John da buon
soldato lo sa. Un secondo può fare la differenza tra
qualcosa di bello e
qualcosa di orribile, un secondo può segnare la breve
distanza tra la vita e la morte.
John chiude gli occhi
mentre trema, sempre più forte, incapace di fermarsi.
Quello di cui Sherlock ha
bisogno è fidarsi del suo cuore,
per una volta
Perché la mente
gioca scherzi meschini, il più delle volte.
Non è qualcosa di razionale che Sherlock cerca, in quel
momento. Finalmente
apre la porta, un brivido freddo che lo attraversa completamente
raggelandogli
il sangue nelle vene e costringendolo a trattenere il respiro. Quello
che vede
è qualcosa di spaventoso, di terribile,
un’immagine che aveva popolato i suoi
incubi per giorni, mesi, anni. Ma c’è ancora
speranza, Sherlock lo sa, ce n’è
sempre una. Lui è John, il suo John e lui lo conosce meglio
di chiunque altro.
La pistola è a mezz’aria ormai e nessun suono esce
dalla gola di Sherlock che
però lo fissa intensamente, come se quello sguardo John
potesse percepirlo su
di sé, sentirlo come fosse un pugno. E Sherlock è
sicuro che John lo ha
sentito.
Quello di cui John ha bisogno
è alzare lo sguardo.
John apre gli occhi.
*