PROLOGO
«Mael,
per favore. E' un'intera estate, non puoi lasciarmi sola con quei
marmocchi dei miei fratelli. Ti prego, Emme..»
«Jeanette, se
fosse per me rimarrei qui.. non posso farci nulla» sospirai,
piegando accuratamente gli ultimi maglioni ancora nell'armadio
«Te
lo ripeto per l'ennesima volta, i miei festeggiano il quindicesimo
anno di matrimonio proprio quest'estate e vogliono festeggiare fuori,
quindi spediscono me e i miei fratelli a casa di mia zia Ann, a
Londra. Non posso farci nulla»
Sistemai finalmente l'ultimo paio
di jeans nella valigia, ricontrollai l'elenco con tutte le cose da
portare, e segnai col pennarello nero una x accanto alla parola
'vestiti'. Dentifricio, spazzolino e snacks e la valigia sarebbe
stata pronta.
«Ma sono quattro mesi, Mael» piagnucolò,
gettandosi a peso morto sul mio letto, accanto a me e la valigia.
La
porta emise un cigolio, si aprì lentamente ed
entrò la mia
sorellina, che trotterellò dentro e si appollaiò
sul tappetino di
fronte a me, guardandomi con sguardo dolce con i suoi enormi occhioni
verdi.
Scoppiai a ridere, la presi per la vita e la poggiai
dolcemente sulle mie gambe.
«Mi telefonerai ogni giorno, vero?»
mormorò Jeanette.
«Ogni ora» sorrisi, stringendo Ellen a me.
Di
scatto, Ellen iniziò a gesticolare e a brontolare qualcosa,
la presi
e la misi a terra, cercando di capire ciò che avrebbe voluto
comunicarmi.
«Pitta pitta pitta!!» cominciò a urlare,
saltellando energicamente su un piede.
«Ah, hai fame»
ridacchiai, mi voltai verso Jeanette «Scendo un attimo in
cucina»
Scesi frettolosamente le scale, corsi al pianoterra e in
cucina e aprii il frigo apparentemente vuoto, ma in realtà
straripante di piccoli pacchettini avvolti da carta da regalo
azzurra, cioè le scorte di cibo che avremmo dovuto portare
con noi e
che ci sarebbero potute essere utili durante il lunghissimo viaggio.
Sul fondo del frigo, mezza spiaccicata sulla mensola, c'era un
trancio di pizza margherita con tanto di wrustel e patatine, avvolta
per metà nella carta argentata.
La presi e salii a due a due i
gradini, facendo ben attenzione a non far cadere qualche mollica a
terra - dato che a mia madre era venuta la brillante idea di lavare
e spolverare l'intera casa, per poi trovarla come un gioiellino
quando sarebbe tornata a settembre.
«Tieni» mormorai, porgendo
il trancio di pizza alla bambina, che con occhi sognanti la fissava
come fosse oro.
La prese e cominciò a ingurgitarla
rumorosamente, manco non avesse mangiato da una settimana, quando
proprio quella mattina aveva divorato ben due ovetti kinder, dentro i
quali aveva, tra parentesi, trovato due pupazzetti di Willy il
Coyote.
Poi
squillò il telefono, giù in cucina, quindi fui
costretta nuovamente
a scendere di corsa le scale e correre come fossi alle Olimpiadi
verso la cornetta grigia incollata al muro.
«Pronto?» dissi.
«Mael, sei pronta?» chiese mia madre, dall'altra
parte della
cornetta.
«Sono ancora le undici, mamma» sospirai.
«Diamine,
Mael!» strillò «Non mi hai sentito
stamattina, allora? Ti ho detto
che dovevamo essere in aeroporto alle undici e trenta, quindi voi
dovevate essere già pronti adesso. Preparatevi, zia
è appena
partita» e staccò.
Era già partita? Quindi, facendo velocemente
qualche conto (sì, essere brava in matematica aveva qualche
vantaggio), in meno di quindici minuti sarebbe già arrivata
qui. E
io ero ancora in pigiama, con la valigia ancora in preparativi..
dovevamo affrettarci, non c'era altro tempo da perdere.
Trotterellai
per la seconda volta al secondo piano, bussai ripetutamente sulla
porta della camera di mio fratello, che mi urlò uno
strascicato 'che
vuoi, fuori dai piedi'.
«Cambio di programma. Quindici minuti e
partiamo» sospirai.
Si sentì un botto proveniente da dentro, e
un attimo dopo un biondino scompigliato, ancora avvolto dal pigiamone
a righe blu e bianche, mi fissava inorridito e nello stesso tempo
stupito.
«Sbrigati» mormorai, riprendendo nuovamente a
correre
in camera mia.
«Cambio di programma» misi spazzolino e
dentifricio alla menta in un borsellino, che infilai prontamente in
valigia «Ellen, prendi i tuoi giocattoli e vieni qui.
Muoviti»
sistemai anche alcuni libri che avrei potuto leggere durante l'estate
«E tu, Jeanette, chiama tua madre»
Mi sentivo più o meno un
generale che dava una sequela di ordini ai propri soldati, ma avrei
preferito piuttosto starmene a casa mia e subire il comando dei
miei.
Pochi minuti dopo la valigia era già pronta, mia sorella
aveva riempito un intero sacchetto della spesa di giocattoli e
peluche, e mio fratello controvoglia passava il gel sui capelli.
Mi
vestii alla velocità della luce, indossando un paio di jeans
talmente stretti che mettevano in dubbio la circolazione del sangue e
un top a bretelle rosso.
Jeanette mi stritolò in un abbraccio e
mi raccomandò di chiamarla ogni giorno, ogni ora, poi prese
le sue
cose e scese giù ad aspettare la madre che l'avrebbe portata
a
casa.
«Sei pronto?» chiesi a mio fratello, rendendomi
conto che
mancavano soltanto due minuti circa.
Annuì, prese la sua valigia
che aveva preparato la sera prima (perché non avevo seguito
il suo
esempio?) e tutti insieme scendemmo giù in strada. Da
precisare che
io, dalla fretta e dall'agitazione, caddi giù per le scale,
sopra la
valigia di Joe, che lui, tanto addormentato com'era, continuava a
trascinare a mo' di trolley.
Chiudemmo a chiave la porta, come ci
aveva raccomandato quell'assillante di nostra madre, e aspettammo
nostra zia.
Pochi minuti dopo, di fronte a noi si parcheggiò una
vecchia automobile rossa, un'antichissima versione della Yaris Verso
risalente a più di trent'anni fa.
La portiera del guidatore si
aprì e ne uscì una donna sulla quarantina, con
lunghi e ricci
capelli rosso-sangue, un viso colorito e allungato, tempestato di
lentiggini, occhi vispi e leggermente sporgenti, di una particolare
tonalità di nocciola.
Il suo corpo, robusto e possente, era
avvolto da un leggero abitino blu a chiazze viola, smanicato, lungo
quasi fino ai piedi – nascosti da enormi stivaloni marroncini
-, e
sul capo portava un grande cappello di paglia.
«Quanto siete
cresciuti, ragazzi» abbozzò un sorriso, mostrando
i suoi dentoni
bianchi «Quanto sei cresciuta, Mael» mi si
avvicinò e mi strinse
in un caloroso abbraccio «E tu, come sei diventato grande..
ma ciao,
piccolina, quanto sei bella»
Finite le presentazioni, ci informò
che il viaggio sarebbe durato circa due ore e mezza e che, a casa, ci
aspettavano zio Jonathan e la miriade di cugini che non conoscevamo
neppure.
«Lì in macchina c'è vostro cugino
Louis, che ci
teneva davvero tanto a venire» sorrise.
Le mie guance diventarono
rosse come un peperone ed ebbi un fremito: era Louis, quel Louis di
cui avevo una cotta fin da bambina? Quel Louis a cui avevo dato il
primo bacio a sei anni? E, soprattutto, quel Louis che faceva parte
di una famosissima boyband che, proprio in quel periodo, stava
spopolando in tutto il mondo?
La zia aprii con qualche difficoltà
la portiera posteriore.
Proprio lì, acciambellato su un vecchio
salvagente blu, c'era un ragazzino della mia età mezzo
addormentato,
con le cuffiette dell'mp3 nelle orecchie.
Doveva essere proprio
lui, quel Louis Tomlinson.
- -
LEGGI, YO
non
mi dilungherò molto, perché questo prologo era
molto lungo come, appunto, prologo e credo
che voi siate già molto stanchi. se avete letto tutto, vi
dico
veramente GRAZIE,
perché ho messo tutto il mio impegno possibile per
concluderlo.
spero vi abbia incuriosito almeno un po'; quindi, che
vi costa lasciare una recensione, anche di poche parole? mi fareste
davvero
molto
contenta.
ok, grazie ancora, vi
voglio bbbene. -lu c: