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Autore: Fusterya    04/05/2012    10 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5° capitolo - C’è qualcosa che non va. Troppo silenzio. Sherlock è scomparso. John viene trascinato in un vortice di caos e violenza. E di nuovo non è più un dottore.


Song: Battle for the sun - Placebo
http://www.youtube.com/watch?v=Kp7p4GqngLY

I will battle for the sun

And I won’t stop until i’m done

You are getting in the way

And I have nothing left to say.

I will brush off all the dirt

And I will pretend it didn’t hurt

You are a black and heavy weight

And I will not participate

I will battle for the sun

Cause I have starred down the barrel of a gun

You are cheap and nasty fake

And I am the bone you couldn’t break.

Dream brother

My killer, my lover

Dream brother

My killer, my lover

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

- JOHN-

Sono passati pochi giorni.
Troppi, secondo me.
Aspetto con ansia quella notizia, quella conferenza stampa, ma non ce n’è traccia da nessuna parte.
Non ho ripreso a dormire, per cui ogni mattina, non appena sento per le scale lo scalpiccio del ragazzo che porta i giornali, corro alla porta e lo raccolgo come un indemoniato, spalancandolo lì, sul pianerottolo. Mi collego ogni mezz’ora con il cellulare ai quotidiani principali, ma niente.
Nessuno parla di Sherlock Holmes.
Non ci sono breaking news: lui non è ancora vivo, per il mondo non esiste.
Mi sto preoccupando.
Non dovrei, non dopo tutto quello che ho giurato a me stesso, ma non ce la faccio a non pensarci.
Sento addosso la responsabilità di averne parlato a Floren, ma nello stesso tempo mi giustifico da solo: come avrei potuto sopportare di tenermelo dentro ancora?
Quando vado al lavoro, o al supermercato, o da Flo, cammino per strada e mi guardo attorno con aria tesa, e inconsciamente spero di intravederlo da lontano. Anche per un tempo uguale a un battito di ciglia.
Sono sicuro che mi segua.
A volte sono in grado di riconoscere qualche scagnozzo che mi viene dietro, di Mycroft, immagino.
Lo spero.
Più che altro per Floren.
Ho timore di averla messa in qualche guaio, a dire il vero: mi aspettavo che in capo a qualche giorno, come aveva detto lui, le cose venissero alla luce, e che io in qualche modo ne fossi definitivamente escluso.
Avrei avuto la rogna dei giornalisti di nuovo sotto casa, ma nulla che in un paio
di settimane di “no comment” non avrei saputo gestire.
Dopodiché... di nuovo la mia vita.
Bene o male.
Invece...

E’ passato un altro giorno, con oggi sono sei.
C’è qualcosa che non va.
Ho spiegato a Flo che è meglio vederci di meno, e che è meglio farlo sempre in
posti pubblici: è ansiosa, lo vedo.
Ha accettato con sollievo, e ancora mi chiedo perché non mi scarichi e basta.
In queste sere sono restato seduto nel mio appartamento a percepire il nervosismo fluire sottilmente nel mio corpo, sotto tutta la mia pelle, come un liquido fastidioso che si espande dopo un’iniezione ipodermica. Ho le orecchie tese, la pistola sempre addosso.
Ma non mi preoccupo per me. Quella fase è ormai superata.
Il sapore di cenere che avverto ogni mattina in bocca, quando mi sveglio da solo in questo appartamento, mi fa sapere per certo che se morissi oggi, ora, sarebbe una benedizione.
Perché nulla è cambiato.
Ma devo proteggere Flo.
Penso che prestissimo la lascerò andare per la sua strada.
Proverò un piccolo dolore, mi rimprovererò per essere stato il solito approfittatore e sparirò nell’anonimato. Lei ha bisogno di essere al sicuro, io ho
bisogno di stare solo, senza sguardi che mi autorizzino a parlare di lui.
Come stasera.
Ho appena pulito la pistola e la sto guardando tra le mie mani.
Precisa, affidabile, letale.
Un certo tassista lo sa bene.
Mi chiedo se mi servirà mai più e mi si contrae lo stomaco al pensiero che no,
non lo farà.
E’ inutile rimuginare su quanto mi manchi quella parte della nostra vita.
L’adrenalina. Le situazioni più grottesche. Il divertimento puro. Tranne nel caso
di Moriarty.
Ho bisogno di una birra, su questo non ci piove.
Mi alzo, infilo la pistola dietro la schiena e prendo la giacca.
Se mi va bene, nel mio solito pub qui vicino ci sarà poca gente e potrò chiacchierare del più e del meno con Tom, il gestore.
Dopo due-tre pinte mi sento sempre meglio senza mai essere ubriaco, e guardo fuori dalla vetrina a fianco del mio solito tavolo, stuzzicato dalla ansiogena possibilità di intravedere da lontano una figura alta, coi capelli mossi.
Ed è tutto ciò che vorrei stasera.
Una birra e l’idea di Sherlock che mi osserva da lontano.

Il pub è quasi deserto, infatti.
Tom mi saluta da dietro il bancone e io gli faccio un cenno; mi vado a sedere all’angolo con vetrina sulla strada e dopo un po’ lui mi porta la solita bionda, ma io ho cambiato idea, non sono più in vena di chiacchiere.
Un saluto veloce è tutto quello che gli rivolgo.
Piuttosto... sto pensando di chiamare Mycroft.
Lo so, è da pazzi.
Nessun contatto, mai più, mi sono ripromesso.
Ma il silenzio intorno a Sherlock comincia ad atterrirmi.
Sta succedendo qualcosa. Perché avrebbe dovuto dirmi che erano in procinto di
rivelare tutto? Non avrebbe fatto nessuna differenza per me, quella sera.
Anzi, voleva chiaramente anticiparmi lo shock.
Tra poco chiamerò. Pregherò Mycroft di non dirgli che ho chiesto notizie, e lui lo farà, se lo conosco come credo.

La porta del locale si apre dietro di me, sento la folata di aria fredda sulla schiena, ma me ne accorgo veramente solo quando vedo un paio di Jeans fermarsi affianco al mio tavolo, allora alzo gli occhi e resto perplesso.
L’uomo alto e squadrato mi guarda come se mi conoscesse da secoli.
Il suo viso non mi è nuovo.
Affatto.

Istintivamente mi irrigidisco.
Lui, senza battere ciglio, si siede di fronte a me.
“John Watson” dice con una strana voce, profonda ma nasale.
Ha gli occhi castani e allungati che mi rimandano uno sguardo ostile, un viso affilato in cui campeggia un naso da antico romano. Un accenno di barbetta, i capelli rossastri ben pettinati.
Chi sei? Io ti conosco.
Chi cazzo sei tu?
Il sorrisetto fintamente cordiale che si allarga leggermente sulla sua faccia mi induce a spostare in avanti il bacino per allargare lo spazio tra la mia pistola e lo schienale della sedia, pronto per infilarvi la mano in caso di necessità.
“Capitano John Watson, per la precisione. Che strano ritrovarci qui dopo tanto tempo.”
“Chi cazzo sei?”
Io sono fermo e rigido come ogni volta che mi trovo di fronte a qualcosa che  non conosco. Il sangue freddo non mi è mai mancato.
“Non ti ricordi di me, peccato” il sorriso si allarga.
Mi fa venire i brividi.
E’ ovvio che si riferisca al mio periodo da militare. La mente vola laggiù, ma non lo annovera tra nessuno dei miei ex compagni. Forse è solo un vecchio conoscente di un altro plotone, ma la sua faccia fa suonare dentro di me un campanello d’allarme che non posso ignorare.
"Ero nei fucilieri anch'io, ma non ho mai avuto bisogno della tua... professionalità. Agivo da dietro le linee, non visto. Una pacchia."
Un cecchino, quindi.
Un reparto speciale, gente difficile.
Passo in rassegna i volti di quelli che conoscevo anche solo di vista e, quando
lo trovo, capisco che qualcosa di terribile è appena cominciato.
Ci siamo, dunque.
Una volta avrei avuto un sussulto, avrei sudato freddo, mi sarei guardato intorno disperato per capire cosa fare.
Adesso non più.
"Moran" dico senza scompormi "criminale di guerra. Ti credevo a marcire da qualche parte in una prigione militare per aver arbitrariamente ucciso...ricordami... quanti civili?"
"Ventiquattro in un pomeriggio solo" dice con tutta calma "e dodici di noi, in varie azioni insospettabili. Mi piacciono i numeri pari. Il mio nome è Sebastian. Posso?"
Mi sfila il bicchiere dalla meno e beve, ed è più questo che mi fa rizzare i peli
sulla nuca che ciò che ha appena detto.
"Se hai qualche buon amico" continua dopo una lunga sorsata "evadere non è poi la fine del mondo. Soprattutto quando non è conveniente che lo sappia l’opinione pubblica".
Sebastian Moran è uno squilibrato da manuale, uno completamente fuori di testa.
Da cecchino compì una silenziosa, immane strage durante varie missioni prima di essere scoperto e arrestato in maniera rocambolesca: ricordo lo sgomento cupo che serpeggiava in tutto l'esercito in quei giorni.

Non fornì mai nessuna spiegazione, soprattutto circa il suo allegro tiro al bersaglio sui suoi stessi compagni, nemmeno dopo la sia condanna a infiniti ergastoli da scontare in un carcere militare.
Io credo solo che sia un amante della morte pura, come Moriarty: un lucido malato di mente da cui non aspettarsi nessuna spiegazione.
Prendo un profondo respiro.
Ho le mani sul tavolo e vedo che lui le tiene d’occhio, pronto a cogliere qualunque movimento improvviso. Sa che sono armato, come lui.
"Immagino che tu non sia qui per caso...”
"No, infatti." spinge nuovamente il bicchiere verso di me, ma io, ovviamente, non berrò di nuovo "visto che siamo in vena di rimpatriate, parliamo di amici comuni."
Porta una tracolla di traverso sul petto, la tira verso il proprio grembo e apre la zip.
“Ti conviene lasciare le mani bene in vista su quel tavolo, Watson, ma penso tu lo abbia già capito.” mi avverte con noncuranza.
Tira fuori un i-pad e lo accende, esattamente come ha fatto Sherlock quella sera con il telefono, e io ho il terribile presentimento di sapere cosa sto per vedere.
Quando lo appoggia sul tavolo, sotto i miei occhi, il fermo immagine mi fa stringere i pugni dolorosamente.
Ha il capo reclinato in avanti e l’immagine non è definita, ma riconoscerei quella figura ovunque, in qualunque situazione.
Serro le mascelle con così tanta forza che mi fanno male.
Moran allunga una mano e tocca lo schermo: il video parte.
Per lunghi secondi sembra ancora un fermo immagine: c’è una parete grigia come sfondo, poca luce; Sherlock, che sembra svenuto, è sbilanciato in avanti ma non cade perché dev’essere legato alla sedia metallica che vedo alle sue spalle.
“Non è una registrazione, è una trasmissione in tempo reale” mi avverte Moran, e sento il compiacimento nella sua voce da matto.
“Da quanto è lì?” chiedo con la gola strozzata.
Ma non è una cosa dovuta alla sorpresa, allo sgomento, alla paura.
E’ furia. Furia cieca.
Per un istante valuto seriamente di prendere la pistola dalla mia cintura e sparargli sotto il tavolo, dritto nei coglioni da cecchino pavido che ha, anche sapendo che, forse, uno come lui avrebbe tutto il tempo e la tecnica di uccidermi a sua volta.
“Due giorni” mi risponde tranquillo.
Alzo lo sguardo su di lui, incredulo.
Lui beve di nuovo dalla mia birra.
“E’ stato più facile del previsto, devo ammettere. E’ bastato seguire te.”
Si è distratto. Sherlock si è distratto.
Moran appoggia il bicchiere, di nuovo, e stira le labbra sornione.
“Sei sempre la chiave per tutto, Watson.”
Il mio stomaco si contrae in uno spasmo di disperazione. E’ ancora colpa mia.
“Cosa vuoi da lui?”
Sì, gli sparo, cazzo. Ora gli sparo!
“Una cosa che appartiene agli amici che mi hanno fatto evadere.” Moran è divertito, la ruga che gli si forma sul labbro superiore quando fa quel ghigno felice è la cosa più malata e distorta che io abbia mai visto.
“Una cosa che, per colpa delle sue manie di grandezza, James Moriarty gli ha erroneamente lasciato in eredità”
“Cosa, figlio di puttana?”. Sto ringhiando. Lo odio.
Pensavo di non poter odiare più nessuno dopo Moriarty, ma questo qui ha ucciso anche Paulson, e Jagger, e Smith.
“Penso che tu lo sappia, John.”
“Non mi chiamare John, stronzo!”
Si dà un po’ indietro e si appoggia allo schienale, compiaciuto.
“Ok, ok, niente John. Nè giochini mentali del cazzo, io sono uno pratico. Il codice, Watson.”  Solleva il bicchiere e fa una specie di brindisi a me.
“Il codice binario che il signor Holmes ha chiuso a chiave in quella bella testa.”
Faccio un attimo mente locale.
Ricordo il racconto di Sherlock circa il thè con Moriarty, e poi il video sul telefono. Quando Jim Moriarty lo prende in giro.
Era un’esca, non un’inverosimile chiave per aprire tutte le porte del mondo.
Non esiste nessun codice. Era una partitura di Bach!
Sono confuso.
Ora sì che ho paura.
“Il codice non esiste” dico all’improvviso senza voce “il codice era un bluff...”
“Il codice è reale” mi risponde Moran sollevando il labbro superiore e mostrandomi i denti come un animale “Moriarty lo possedeva e non si decideva a venderlo a nessuno, lo prometteva a mezzo mondo e alla fine lo ha dato a chi? A Sherlock Holmes! Il codice esiste, eccome, e qualcuno adesso lo rivuole indietro.”
Guardo di nuovo lo schermo con terrore, ora ho il respiro spezzato.
“Ma lui non ve lo dà” termino al posto suo.
Non riesco a deglutire, sento un sapore amarissimo in bocca.
“Per ora resiste. Ecco perché sono venuto a prenderti, Watson.”
Lo guardo di nuovo, ha un’espressione placida e beata, come se fossimo davvero vecchi amici che stanno conversando.
“E immagino che un piccolo incentivo sia sempre utile, credo” aggiunge.
Noto ora che ha un auricolare appeso al collo, lo prende con le dita e lo infila all’orecchio destro, poi parla nel microfono.
“Dai un esempio al capitano Watson.”
“No... non c’è bisogno... fermati!” esclamo tendendomi verso di lui, ma nell’inquadratura subentra una mano che prende Sherlock per capelli e gli tira
la testa indietro.
Non so come spiegare... non è dolore, il mio, né disperazione.
E’ raccapriccio puro dinanzi a quella maschera di sangue.
Non riesco a distinguerne gli occhi. Ha uno zigomo spaccato, dalla bocca massacrata il sangue gocciola copioso sul mento, sul collo, sulla camicia.
Per sua fortuna è chiaramente privo di conoscenza.
La canna di una pistola gli viene puntata sotto la gola.
Lo stomaco mi si torce, scalcia, credo di dover vomitare.
“Chiaramente i nostri metodi non stanno funzionando” mi spiega Moran sempre
tranquillo “e tu sei la nostra ultima speranza. Ci auguriamo che la tua presenza ne stimoli il senso di collaborazione.”
Sudo freddo. Ho le mani ghiacciate.
Sento la voce di Moran ma a malapena lo ascolto. Il mio cervello sta vorticosamente cercando di pensare ad un modo per tirarlo fuori di lì.
Solo questo conta.

Tiralo fuori di lì, John.
In qualunque modo.

All’improvviso è scomparso tutto.
Tutto è stato risucchiato in un vortice senza senso: la caduta, la morte, Moriarty, il mio lutto, la mia disperazione, il suo ritorno, le lacrime, la mia rabbia... tutto è lontano e ovattato come se volasse via da me, senza toccarmi più.
Senza essere nemmeno mai esistito.
Devo tirare fuori Sherlock da lì, solo questo.
Devo impedire che muoia davvero.
Non so ancora come, ma in qualche modo farò.

Il cuore mi martella in gola, sembra stia per saltare via dallo sterno.
“Ok! Ok... basta” mi affretto spingendo via il tablet “verrò con te, fai togliere quella pistola di lì”.
Mi sentono dal microfono, la mano lascia i capelli, il capo ricade pesantemente in avanti.
Il mio cuore perde dei battiti, cerco di rallentare il respiro agitato.
“Bene” conviene Moran “sarà il caso che tu infili la pistola e il telefono qui dentro.”
Mi porge la tracolla. E sorride.
“Puoi farlo sotto il tavolo, così nessuno vede. Non credo mi sparerai a bruciapelo.”
Io lo faccio senza battere ciglio.
Poi Moran si alza, tira fuori dalla tasca 5 sterline e le getta sul tavolo.
E aspetta che io lo segua.

Quando usciamo, l’aria è gelida e sferza la mia faccia.
Sono un fascio di nervi, gli cammino qualche passo davanti. Non dubito che una delle mani infilate nelle tasche del suo giubbotto stringa una pistola, ma se mi conoscesse davvero, saprebbe che non ce n’è bisogno.
Guardo la strada trafficata attorno a me.
Automobili, pedoni, vita varia, ignara di tutto quest’orrore.
I miei sensi sono acuiti dalla tensione, i miei occhi osservano tutto con una chiarezza impressionante, è come se il mondo fosse trasparente. L’aria fredda nei polmoni mi sveglia definitivamente, mi fa essere più attento.
Mi sento come gli ultimi tempi al fianco di Sherlock, quando camminavo con lui sul campo di battaglia, cominciando a imparare a dedurre.
E capisco di aver commesso un errore fondamentale.
Un errore che costerà la vita a Sherlock, e al quale io devo rimediare.
Non ho propriamente paura, adesso.
Sento l’eccitazione che corre dentro le vene e so, mentre prendo un profondo respiro carico di ossigeno freddo, che probabilmente morirò stasera.
La cosa al momento non mi impressiona.
La mia mente è concentrata sul mio errore, e su Sherlock.
Gli occhi guizzano in tutte le direzioni, sono certo che la gente di Mycroft ci segua, non può essere diversamente.
Ma non so se e quanto servirà.
Moran avrà fatto bene i suoi calcoli, uscendo allo scoperto così con me, per cui non devo farvi affidamento.
Devo usare l’istinto. Qualcosa farò, ho detto.
Mi si affianca e mi tocca un braccio, indicandomi una strada secondaria. La imbocchiamo e zigzaghiamo nel traffico, fino a un’auto scura ferma in doppia fila.
Mi ci spinge dentro, sui sedili posteriori, non dandomi la possibilità di guardare l’autista, si infila accanto a me e tira fuori la pistola, puntandomi la canna sull’esterno della coscia sinistra.
“Stai giù, faccia schiacciata sul sedile.”
Ovviamente obbedisco.
L’auto parte, io respiro polvere e odore di vecchia tappezzeria mentre le orecchie mi fischiano a causa della pressione e il battito cardiaco mi rimbomba nelle tempie.
Troverò un modo, riesco a ripetermi solo questo, me lo ripeto ancora e ancora, un po’ per farmi coraggio e un po’ perché mi aiuta a riflettere.
Ma prima devo arrivare da te.

L'auto si ferma circa 45 minuti dopo, riesco a calcolare per sommi capi.
Minuti di silenzio assoluto, con la canna della pistola di Moran sempre più a fondo nella mia carne e crampi alla gamba, quella con cui zoppicavo, ma non devo darvi importanza, devo fare finta di non averla, questa maledetta gamba.
Quando freniamo e mi fanno scendere, vedo che siamo in una specie di capannone pieno di furgoni e motrici di camion. Dev'essere uno dei tanti siti industriali e commerciali in una delle tante periferie della città, sembra tutto di recente costruzione.
Moran mi spinge in direzione di una porta antipanico sul fondo, mentre mi guardo attorno.
"Muoviti".
Camminiamo a lungo.
Corridoi, scale, un tunnel sotteraneo.
Non potrei ripercorrere la strada all'indietro nemmeno se l'avessi filmata con il  cellulare.
Non devo pensare.
Se lo faccio, andrò nel panico.
Non c'è oggettivamente speranza che io da solo possa fare qualcosa, ma devo aspettare di essere lì dove lo tengono prigioniero, osservare, capire che possibilità ho.
Nessuna, credo.
Il posto pullulerà di loro uomini, ma non devo pensarci ORA.
Alla fine di un lungo corridoio senza finestre e illuminato da neon accecanti, Moran mi fa aprire una porta grigia, l'ultima. Entriamo in una stanza piccola in cui ci sono tre uomini attorno a un tavolo, che si alzano appena siamo dentro. Uno di loro va ad aprire un'ulteriore porta in fondo a questa specie di anticamera, Moran mi fa cenno col mento di andare là.
Mentre passo, squadro i tre gorilla. Grandi e grossi, sì, ma i capelli, lo stato delle mani, gli abiti, dichiarano che probabilmente non sono militari.
Qualcosa da Sherlock Holmes l'ho imparata anch'io.
Oltrepasso la soglia e mi ritrovo in uno stanzone rettangolare, enorme.
In fondo c’è luce, dobbiamo camminare un po’ attraverso delle colonne, della mobilia da ufficio sparsa e roba del genere. Intravedo due persone in piedi, un grande tavolo, la famosa sedia con sopra una specie di fantoccio riverso.
E quando arriviamo lì, mi ritrovo faccia a faccia con il mio errore.
Mi sfugge un mezzo sorriso sarcastico e mi sembra che per un istante, un istante solo, lei non riesca a sostenere il mio sguardo fermo.
Poi, invece, lo fa. E lo distolgo io, disgustato.
Sembra sorpresa che io non abbia avuto nessuna reazione, è abituata a un altro John, lei.
Il John distrutto, emotivo, che l’ha condotta fin qui e ha consentito tutto questo.
Sherlock è in fondo alla stanza, abbandonato come prima su quella sedia metallica. C'è un altro di quei tizi vicino a lui.
Lo stomaco mi si contorce così forte che mi devo mordere l'interno della guancia per non emettere un suono doloroso.
"Novità?"
"Nessuna" dice Floren, o chiunque sia, andando verso di lui con una siringa in mano "proviamo a svegliarlo."
Moran mi spinge verso di lui, io comincio ad essere veramente irritato da tutte queste spinte.
L'uomo a fianco di Sherlock lo tira indietro e dal vivo la scena del suo volto devastato è ancora più impressionante.
Respira a fatica, rantola.
Deve avere delle costole rotte. Anche sul petto, sotto la camicia, è pieno di sangue.
Riesco solo a pensare che, se non potrò fare nulla per lui, dovrò trovare un modo per ucciderlo velocemente.
L’uomo gli toglie le manette che lo tengono legato alla sedia e lo tiene fermo all'indietro. Floren, che dev’essere un medico o una specie di esperta di droghe, gli prende il braccio e lo appoggia sul grande tavolo di metallo che ingombra la stanza, a fianco a lui, e poi gli inietta quella roba.
“Quanto ci vorrà?” chiede Moran.
Floren si gira e non riesce più a guardare me, nonostante io ora la stia fissando.
“Un paio di minuti, forse meno.”
La sua voce è diversa da quella che conoscevo io.
Non mi suscita nulla che non sia odio.
Bene.
Moran è alla mia destra, mi afferra per un braccio e solleva la canna della pistola, una bellissima automatica nera di ultima generazione, e me la punta sotto la gola.
“Gli piacerà vederti morire davanti ai suoi occhi. John.”
Scandisce il mio nome sapendo che il suo suono pronunciato da lui mi disgusta.
“Che senso ha tutto questo?” gli chiedo senza scompormi, senza mai distogliere gli occhi dalla faccia di Floren.
“Perché lo avete ridotto così? Non vi potrà dare nessun codice in queste condizioni.”
“Glielo chiederai tu. Lo supplicherai di dartelo. E poi la faremo finita.”
“Se mi hai seguito tu, saremo stati seguiti anche adesso” gli faccio notare con un sorriso scettico “non ne avrai il tempo. E io non farò niente di quello che dici.”
Moran ride. Una risata franca, leggera, quella di un uomo normale.
“Esther, questo è l’uomo di cui mi parlavi? Quella specie di checca? Questo qui è un vero duro” poi mi strattona più vicino a sè “allora vi ucciderò prima” mi sussurra all’orecchio “il mio ricchissimo cliente sopravvirà anche senza codice.”
Finalmente mi giro a guardarlo.
Ora i suoi occhi sono pieni di un disprezzo puro. Definitivo.
Mi mordicchio il labbro inferiore.
“E’ personale... “intuisco “Questa pagliacciata è personale. Codice un cazzo.” gli dico in faccia.
“Non scherziamo!” interviene quella che ora so chiamarsi Esther, e che sarà un ennesimo nome falso, con un tono allarmato che non ammette repliche “Moran, non dire idiozie. Ci sono milioni di sterline in ballo. Tiriamogli fuori quella merda e andiamocene velocemente. Faranno irruzione tra poco grazie alla tua imprudenza.”
“Resta calma. Abbiamo la fuga perfetta pronta”
”Non dovevamo farlo stasera, qui, in questo modo!”
Si avvicina a Sherlock per controllare, gli prende il mento con una mano.
Gliela vorrei staccare a morsi, quella mano.
“Tu non hai capito.” dice Moran con estrema calma.
Lei si gira a guardarlo con l’aria di una belva.
“Stasera nessuno di noi uscirà di qui, sei una puttana idiota come tutti quelli là fuori.”
Floren... cioè... chiunque lei sia, si irrigidisce insieme all’uomo che trattiene Sherlock per le spalle.
“Cosa?”
Moran mi lascia andare il braccio, allontana la canna della pistola da me e la punta verso di loro.
Il suo profilo svela un uomo tranquillo, determinato, assolutamente divertito.
“Aspetteremo che il signor Holmes si svegli, lo osserveremo mentre guarda me sparare in testa al capitano Watson, spareremo anche a lui e poi attenderemo insieme che entrino. Sono sicuro che sono già qua fuori. Sempre se non volete morire prima.”
Sorride. Sorride sempre. Questo momento deve essere per lui una vera delizia.
“Figlio di puttana...” mormora lei, con gli occhi sgranati, all’improvviso evidentemente consapevole di qualcosa di orribile.
Vedo chiaramente la luce snaturata della presa di coscienza nelle sue iridi scure, spalancate di fronte a qualcosa che non può negare ma che no, non può essere la verità!
“Avevi detto che non aveva importanza! Non aveva più importanza!!! Che questo era un lavoro come tanti altri!”
“Jim avrà sempre importanza” sorride lui.
Jim?
Moriarty?
Che cazzo sta succedendo qui?
“Hal... “ chiama con angoscia l’uomo vicino a lei, che è stato ad ascoltare la conversazione con aria da beota, esattamente come me.
Ma mi è chiaro che sono tutti distratti da questo.
L’uomo non si è mosso, non ha nemmeno lasciato andare Sherlock, sta ancora cercando di capire da che parte, eventualmente, gli convenga stare, o per lo meno di processare quello che lei ha già compreso.
E cioè che Moran li ha messi tutti in trappola per un suo motivo personale: per poter uccidere me di fronte a Sherlock e chiudere i conti.
L'errore, adesso, è loro.
Anche di Moran, che si sta beando del suo momento e impercettibilmente allenta la presa del calcio della pistola, lo vedo da come sistema appena le dita attorno ad esso.
Come il liquido giallastro che scorre veloce dentro le vene di Sherlock, così l'adrenalina si impenna nel mio sangue ed erutta  dietro i miei occhi.  
Qualunque cosa debba accadere, che accada.
Ricordo di aver pensato solo questo, e rivedo a rallentatore la mia mano destra muoversi verso il braccio teso di Moran, agguantargli il polso e torcerlo dietro la sua schiena con un unico movimento, con tutto il peso del mio corpo.
Posso ancora sentire nelle orecchie lo schiocco secco dell'osso che si spezza, mentre  lui urla di dolore e rotea in maniera innaturale: è costretto a flettersi davanti a me mentre io, con la sinistra, gli sfilo la pistola e la punto da dietro lo scudo del suo corpo.
L’altro tizio sta ancora cercando di estrarre la sua pistola in maniera confusa e agitata quando gli sparo in piena gola. Cade come una statua di piombo, si appoggia alla sedia, trascina Sherlock per terra con sè. Per fortuna è una caduta lenta, spero innocua. Credo di aver udito un lamento di Sherlock e la cosa mi rincuora.
Sposto immediatamente la mira a destra, contro una donna che sta alzando le braccia per difesa nel solito riflesso condizionato che ho già visto altre volte.   
Un altro colpo per lei.
Dritto in faccia.
Quella faccia che mi ispirava tanta calma, che era una promessa di riposo.
Il suo sangue si vaporizza nell’aria intorno come se fosse spruzzato da un aerografo.
Dietro le mie lacrime c'ero io, ma lei non mi ha mai visto.
Nessuno, oltre Sherlock, mi ha mai visto.
Non provo niente, sono perfettamente lucido e saldo sulle gambe, un colpo per uno, devo farmi bastare i proiettili.
Moran cerca di rimettersi dritto e si voltaverso di me, cercando di colpirmi con la mano buona, non devo neanche scansarmi. Gli sparo in una gamba a nemmeno 30 cm di distanza, spero di avergli preso l'arteria femorale.
Crolla a terra con un gemito, ed è adesso che le cose si fanno complicate.
Quei tre che stavano di là stanno correndo attraverso la porta. Mi giro verso di loro, nonostante la grande distanza e il fatto che siano in movimento, e quello che nel frattempo si è fatto più vicino non ha scampo.
Gli altri due si gettano a terra dove capita.
Bene.
Mi muovo verso il grande tavolo metallico come se non fossi io: ho tutto così chiaro nella mente, tutto così cristallino... è pesantissimo, ma lo ribalto con un rumore assordante e mi ci abbasso dietro.
È probabile che io li stia terrorizzando.
Non tutti gli uomini sono eroi, soprattutto se devono sparare per soldi.
Sento che cercano di comunicare con dei bisbigli concitati, forse odo le scariche elettriche di una trasmittente, ma non si muovono ancora.
Bene. Sì, bene.
Mi sporgo quanto basta per afferrare Sherlock per un braccio e tirarlo con me dietro il tavolo. Potrei avergli slogato una spalla nel farlo, ma tant'è...
Sto ansimando, sto sudando.
Sento i lamenti di Moran sempre più deboli, ma nessun altro suono.
Mentre trascino Sherlock, riesco anche a mettere le mani sulla pistola del tizio a cui ho sparato in gola.
Questa è fortuna, cazzo! E allora giochiamocela, eh, Sher? Tu e io, come una volta. Come cazzo dovrebbe essere sempre!
Lui emette un lungo rantolo accanto a me, la sua testa è vicino alla mia coscia. Qualunque cosa gli abbiano iniettato, sta riprendendo conoscenza e non sarà bello.
Gli metto la mano libera sulla fronte senza guardarlo.
"Shhhh" mormoro come se potesse sentirmi "è tutto ok".
Sento un impercettibile cigolio, sporgo dal tavolo e sparo alla mia sinistra.
Quell'imbecille era in mezzo alla stanza, crolla come un pupazzo.
L' altro sbuca fuori da una colonna ma, con mia sorpresa, corre nella direzione opposta. Gli sparo dietro un paio di volte ma lo manco, mi fermo, non posso sprecare munizioni. Attraversa come uno scalmanato la porta da cui siamo arrivati.
Tornerà con qualcuno, immagino.
Ma non è importante adesso.
Ho guadagnato minuti preziosi e devo pensare a cosa fare.
Sherlock si lamenta.
Mi inginocchio e mi piego su di lui per valutare la situazione.
"Cristo santo!"
Quanto sangue, cristo!
Mi tolgo il giubbotto come se scottasse e mi sfilo la camicia febbrilmente, per poi strapparla nel centro e cercare di ripulire quel... casino sulla sua faccia.
Per fortuna scopro che il grosso dell'emorragia proviene da un taglio sul cuoio capelluto. Un brutto taglio, ma nulla di mortale.
È altro che mi preoccupa.  
Gli sento il battito con le dita sulla carotide e percepisco un ritmo assurdo, ai limiti dell’attacco cardiaco.
Gli apro le palpebre e osservo con orrore le pupille dilatate al massimo della loro possibilità: non voglio nemmeno immaginare cosa gli abbiano sparato nelle vene in queste ultime 48 ore.
Dopo quest’ultima iniezione, capisco che sta chiaramente andando in overdose. Di non so cosa, cristo!
Spalanca gli occhi all’improvviso, con un lamento rauco che mi fa accapponare la pelle.
Gli sollevo il capo e lo appoggio nell’incavo del mio gomito.
Respira a fatica, mi fissa... ma non mi vede.
“Sherlock, sono io... sono qui: stai calmo, ti porto via, ce ne andiamo insieme... stai calmo....” sussurro più a me che a lui.
Già. Come? Mi guardo attorno disperato. Non abbiamo nessuna possibilità.
Anche caricandomelo in spalla, e non so se davvero ce la farei, come posso portarlo via e cercare di difenderci contemporaneamente?
No, dobbiamo stare qui e resistere. Resistere.
Sherlock tossisce come se stesse soffocando, e adesso sì, mi guarda.
E mi vede.
Vedo chiaramente i suoi occhi velati farsi consapevoli.
Una mano mi afferra il braccio.
“John...” rantola.
“Shhh.... sì, John...” rido sottovoce.
Sto andando in pezzi.
Stiamo per morire e sono felice che almeno sappia che io ci sono.
“Stai buono, dobbiamo pensare a cosa fare adesso.”
“John...” ripete stremato, con un filo di voce irriconoscibile.
Poi rivolta gli occhi all’insù, mostrandomi il bianco delle sclere, e smette di respirare.
Cazzo.
Gli riappoggio il capo sul pavimento, non ragiono più: a che serve rianimarlo se tra pochi minuti sarà tutto finito? Ma adesso c’è solo l’istinto del dottore, quello del medico militare sul campo di battaglia.
Cazzo! Cazzo!
Comincio le compressioni sul petto e la respirazione bocca a bocca, mentre il sapore metallico del sangue bagna le mie labbra secche di dolore.
Un, due, tre...
Sono disperato.
Sta succedendo di nuovo, ancora sotto i miei occhi, con la variante che stavolta è vero.
Non ancora. Ancora due minuti... apri gli occhi e chiamami.
Apri gli occhi e dì il mio nome.
Ti supplico.
Sento dei crepitii in lontananza, ma non mi fermo. Mi scivolano tra le orecchie come fossero suoni qualsiasi, e invece sono sordi colpi di fucile.
Di chi? Contro chi?
Non importa.
Uno, due, tre, quattro, cinque... sapore di sangue.
Non ancora.
Ti supplico.
E poi succede. Tossisce e mi spruzza del sangue in faccia, cerca aria con un altro gemito rauco. Gli tengo la testa giù, gliela fornisco io. Soffio forte non so quante volte, con tutta la tecnica di cui sono capace.
In quel momento sento un fracasso provenire da in fondo allo stanzone.
Eccoli.
Mi stacco da lui e con un’occhiata rapida vedo che sta respirando da solo.
Non so perchè lo faccio, cosa credo di poter risolvere?
Ma lo faccio.
Prendo le pistole e mi sporgo oltre il tavolo, puntandole entrambe.
Con la coda dell’occhio vedo Moran a terra, che ancora si muove leggermente e mugola.
Ci sono uomini in tenuta da truppe d’assalto che corrono attraverso la porta, in fondo. Due di loro sono già quasi a tiro.
Miro con un braccio, anche se il loro sofisticato equipaggiamento mi confonde.
L’altro lo abbasso verso Sherlock, la pistola pronta contro la sua testa.
“Dottor Watson!” urla uno di loro, alzando il fucile. E’ a un soffio dal limite invisibile olte il quale potrei centrarlo senza problemi in uno degli spazi lasciati scoperti dalla tuta di kevlar, è uno che conosce il suo mestiere.
“Sono il maggiore Henley! Reparti speciali! Non spari!”
Si congelano nelle loro posizioni.
“Come lo so?” urlo io.
“E’ un’operazione di recupero, c’erano altri sei loro uomini nella struttura, sono morti. Getti la pistola!”
“Come lo so???” urlo un’altra volta.
Poi sento il rumore ovattato delle pale di un elicottero che si avvicina. Forse due.
Il maggiore si china e posa il fucile per terra, alzando le mani.
“Non posso garantirglielo in nessun modo, da qui. Mi avvicino. Se non si fida, mi spari.”
Fa qualche passo, ma io gli credo.
Devo credergli.
Perchè sono stanco, spaventato. Sconvolto.  
Però lascio che arrivi a tiro, a due metri da me. La mano con cui gli punto la pistola trema per lo sforzo dei muscoli tesi.
il maggiore si alza lentissimamente la visiera del casco e rivela il volto, vedo chiaramente che non ha altre armi addosso, ma dopo Moriarty, dopo questo... come posso fidarmi?
“Dottor Watson... posso prendere la radio dalla cintura?”
“Fallo senza movimenti bruschi” gli ringhio.
Devo avere l’aspetto terribile dell’animale in trappola.
Con una mano sola, si sfila pianissimo la ricetrasmittente e preme un tasto.
“il dottor Watson è in linea” esclama a voce alta, e poi preme il bottone di ricezione dell’altoparlante.
Una voce che non mai sentito fuori controllo così.
 “John! John! Sono io! Come state? Sherlock???”
“Mycroft... “ sussurro, ma la voce mi si è strozzata in gola.
Non riesco a dirgli che c’è bisogno di un’ambulanza urgente, che ho appena ucciso 4 o 5 persone, che tutto questo è un incubo che sembra non finire mai, mai, mai.
Abbasso la pistola, scivolo seduto al fianco di Sherlock e fatico a respirare io, adesso.
E’ finita?

Tutto il resto avviene in slow motion.
Delle mani robuste mi afferrano, mi sollevano, qualcuno si china su Sherlock, sento il rumore assordante dell’elicottero sempre più vicino... ma le gambe mi si piegano, la vista si annebbia, e tutto ciò che voglio è che sia vivo.
Vivo.
Dio, fallo vivere, ti prego.









 




















  
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