Io abito qui.
Potrà sembrare triste, malato e lugubre, però è qui che vivo.
E’ l’unico posto che per me è più vicino al concetto di casa.
Le panchine sono di granito duro, ma è sempre meglio della plastica sporca della stazione o del legno marcio del parco; e anche se è un po’ isolato, ci sono tanti gatti, che piangono col il vento... Almeno non rischio di fare brutti incontri.
E poi è molto bello. Le statue degli arcangeli e delle madonne piangenti coperte di edera danno al tutto un’aria di fascino decadente. Come una poesia di Baudelarie.
In generale, non si può neanche dire che io sia sola.
A volte, la notte, posso sentirli.
Sento le loro voci, il loro richiamo, i lamenti e i pianti di bimbo.
Ci sono troppe storie, così al mattino tento di riscriverle tutte. Per ogni pietra, un tempo c’era una vita. Ricordi, emozioni, esperienze. Strade sbagliate, alla deriva.
Anche io un giorno sarò là. Ma non credo che nessuno si prenderà la briga di raccontare la mia, di storia…
Di solito non viene quasi nessuno, qua.
Durante il giorno è raro vedere qualcuno, e se sì, si tratta di
una sporadica vecchietta o una famiglia frustrata che neanche ricorda il perché
della visita.
Non si avvicinano mai a me.
Io invece, li ricordo tutti. Ogni nome, ogni data, ognuno di loro.
Perché ormai, fanno parte di me.
Io sono questo luogo.
E scrivo la storia di coloro che furono.
Ma non viene mai nessuno, nessuno che possa ascoltare.
Così, affido i fogli strappati agli ululati del vento, in modo che li
porti con sé.
Che li porti lontano, lontano da qui. Dove c’è chi potrà
capire, via da qui. Anche io vorrei andare via…
Lontano…
* * *
L’ultima Notte
Alla fine, le notti erano tutte uguali.
Il cielo, sempre di quel colore grigio scuro, illuminato dai bagliori dei fari.
Non che alzasse troppo spesso la testa rasata per guardare un fottutissimo cielo,
ovvio.
Comunque, per lui, ogni sabato sera si ripeteva la stessa storia, ed erano quattro
anni oramai: come vivere un giorno soltanto, all’infinito.
Roba da fumetto horror di serie Z.
Lo schema, era un classico.
Verso le nove e mezza si usciva con dei macchinoni per la tangenziale, verso
il centro di Parigi, strombazzando e sbandando come degli ubriachi. Ma alla
fine, in generale, non lo erano quasi mai. Non a quell’ora. Giusto un
po’ fatti. Uno spinello e via.
Beccavano i locali più fighetti e frequentati della città, e in
un qualche modo si imbucavano senza pagare. Bastavano le conoscenze giuste,
qualche mossa azzardata, una bustarella. Non era difficile.
Poi, si passava all’azione.
I pacchi di coca, hashish, marijuana e altro incominciavano a girare nei bagni
e nei privé. I soldi affluivano come acqua, anche se capitava fossero
falsi. Ma più spesso, le pasticche erano zucchero colorato.
A quel punto, bastava un pretesto qualsiasi. Che un “cliente” Non
avesse si rifiutasse di pagare uno dei prezzi spropositati, che i modi di un
certo damerino non andassero bene, e allora, ehi, cazzo vuoi, cosa guardi, ti
spacco la faccia, ti faccio a pezzi io, stronzo, stronzo! Vai incularti la tua
putanella, molla la roba o i soldi. Che cazzo fai? Che cazzo fai?
E partiva il primo colpo.
Dritto allo stomaco.
E poi un tavolo veniva rovesciato.
Il primo urlo non si faceva attendere troppo.
Ma prima che i buttafuori potessero capirci qualcosa, e arrivare là,
era già scoppiata una cagnara infernale, e loro si erano dileguati sui
mostri di metallo, strombazzando e gridando e sbandando e
Ubriachi fradici.
“Cosa stai facendo?”
Se lo chiedeva spesso, lui, di fronte a quelle scene. Alla fine, non erano affari
suoi. Lui più che altro doveva fare solo da palo. Del resto, si occupavano
gli altri.
Alla fine, non si poteva dire che avesse colpa.
Vendeva ciò che la gente chiedeva, anche se li uccideva lentamente, lasciandoli
in preda alla follia.
Non si era mai sporcato di sangue in nessun modo, se non forse per qualche schizzo
alla camicia se si avvicinava troppo.
Lo affascinava, certo.
Un paio di volte aveva fantasticato sul farsi strada, mettersi fra uno dei capi
e il malcapitato di turno, e prendere le difese di quest’ultimo.
Ma in realtà non aveva mai creduto alla giustizia. Era quello che si
meritavano, no?
Un modo come un altro per convincersi di non sbagliare.
La verità, era che lui era un codardo.
Il solo pensiero di sprecare una goccia del suo prezioso sangue lo terrorizzava,
non ne sopportava la vista in nessun modo. Detestava essere colpito, la sola
idea lo faceva tremare
Cosa stava facendo?
Era domanda che si faceva spesso.
Ma mai, mai avrebbe immaginato di sentirsela rivolgere lì, in mezzo a
una rissa allucinante, come d’altronde ne vedeva tutti i sabati.
“Cosa stai facendo?”
Si era voltato immediatamente verso quella strana voce femminile, che sembrava
a solo un soffio da lui. Non si era neppure accorto della sua presenza…
Era poco più di una ragazzina. Stava là, ritta, ferma immobile
di fianco a lui, con un’espressione serena e distaccata, quasi lei non
c’entrasse niente con tutto quello, con tutto quello schifo, quella rabbia.
E in effetti doveva essere così.
Appena dopo aveva udito quella domanda, rivolta da una voce sottile, aveva visto
quegli occhi nerissimi puntati su di lui. Ma che fine aveva fatto la pupilla?
I capelli, di un biondo cenere, erano dei boccoli infantili, che potevano appartenere
solo a una bambina.
Era vestita interamente di bianco, una tunica semplice e pura, che scendeva
dritta fino alle ginocchia. La fissò qualche secondo, incapace di distogliere
lo sguardo da quell’apparizione, improvvisamente sordo alle grida, ai
colpi e al sangue, che da quando riusciva a ricordare erano sempre stati con
lui. Si perse nell’abisso di quelle pupille cieche e senza luce-
<< Cazzo, fai qualcosa! >>
Una voce disperata l’aveva chiamato, facendolo voltare di scatto.
I suoi stavano avendo la peggio, e gli sembrava quasi di udire le sirene della polizia che si avvicinava…
<< Fai qualcosa! >>, ancora quell’urlo disperato.
Il coltello affilato brillava ammiccante nella semioscurità del locale.
Il primo colpo lo affondò nel più vicino a lui, probabilmente
chi lo aveva chiamato sperando in un aiuto. Si stava picchiando selvaggiamente
con un ragazzino più piccolo di lui, completamente coperto di sangue.
Lo guardò un secondo negli occhi, quasi come un muto ringraziamento.
Il secondo colpo prese lo stomaco del capo, troppo impegnato a fronteggiarne
due per farci caso. Si rovesciò a terra vomitando sangue.
E poi il terso, il quarto, il quinto colpo…
Le urla non smetteva. Lui aveva finito, ma loro non smettevano. Li aveva uccisi
tutti. Axel, Ferda, Toppa, Nazo, il Capo… Tutti quanti.
Si guardò disperatamente intorno, alla ricerca di quegli occhi neri,
quegli iridi incantatori. Ma non c’era nessuno. Nessuno più con
lui. Le sirene della polizia erano adesso vicinissime. Alcuni lo guardavano
nervosamente, altri tremavano, senza avere il coraggio di andare contro di lui.
E allora scappò. L’oscurità della notte era affilata come il ghiaccio, gli mozzò il respiro mentre si buttava in mezzo alla strada, e i lampeggianti della polizia gli facevano lacrimare gli occhi abbagliando-
Xavier Debouche
1981-2006
R.I.P.
Charlotte amava tracciare il contorno delle lettere incise nella pietra, come
una carezza. Come un pensiero persistente, una preghiera recitata attraverso
i polpastrelli ruvidi sul marmo freddo.
Io non ti dimenticherò...