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Autore: Angelique Bouchard    04/05/2012    8 recensioni
E qualcosa nel mio petto si sciolse, si squagliò, andò in briciole mentre guardavo Bulma e gli altri camminare verso la porta della camera, pronti a scendere per non sapevo cosa. E lui allungò un braccino minuscolo, la mano aperta e le dita che afferravano l’aria tra di noi, come a volerla aspirare per avvicinarci. E neppure mi accorsi della mia mano appoggiata al vetro che premeva su di esso. Un altro attimo e l’avrei buttato giù, mentre il piccolo spariva dietro la porta, con la mano ancora tesa in avanti, verso… me.
Genere: Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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19. Un cuore puro




La luce del sole di quella nuova mattina illuminava l'intera città, i raggi dorati riscaldavano tutto ciò che incontravano e il cielo azzurro faceva da tetto sicuro alle persone che, all'alba delle otto, già correvano a lavoro, a scuola; uomini e donne di tutte le età erano impegnati nelle più differenti attività quotidiane, i rumori della città eccheggiavano fino alle colline; i clacson delle auto, i fischi dei treni nelle banchine, lo sbuffare delle fabbriche e gli schiamazzi della gente.
Il frastuono era senza dubbio assordante, ma al contempo era segno di pace, tranquillità; nessun urlo di terrore causato da mostruosi individui dalle forme più strambe, nessuna esplosione causata dai colpi che i duellanti si sarebbero lanciati. Nessun'ombra oscurava il cielo del suo male, nessun odio, rancore o sete di potere impregnava le giornate ancora assolate di fine dicembre.
In pochi potevano dunque vedere le ombre che incombevano all'orizzonte, così che sembravano fumo nero pronto ad avanzare e ad intossicare qualunque forma di vita avesse incontrato sul suo cammino. Perfino nella sconfinata campagna verdeggiante era tangibile -non per tutti, certo- quella patina di orrore misto ad adrenalina e paura che ricopriva qualunque cosa, come un velo scuro steso su di un prato, una macchia nera che copre l'erba fresca e bagnata di rugiada.
Per questo motivo, tre individui erano già da qualche ora nel bel mezzo di un acceso combattimento, che per quanto terrificante potesse sembrare, non era altro che una simulazione.
Goku volava veloce come il vento tra le candide nuvole bianche, voltandosi di tanto in tanto per lanciare un attacco verso i suoi inseguitori e cambiando traiettoria ogni quanto, per evitare che venisse colpito dalle onde energetiche del piccolo Gohan o del potente Junior.
Il bambino era ormai cresciuto, i capelli nerissimi gli eran cresciuti fino a metà schiena e qualvolta lo distraevano dal combattimento, ma restava comunque sempre in allerta e s'impegnava al massimo in ciò che faceva, ovvero allenarsi per essere più forte, più veloce, più pronto ad affrontare i Cyborg che di lì a pochi mesi sarebbero stati attivati e avrebbero certamente cercato di distruggere il pianeta, così come il ragazzo del futuro aveva detto quasi tre anni prima.
Junior inseguiva padre e figlio a velocità supersonica, lanciando di tanto in tanto attacchi speciali che i due non conoscevano e che erano tipici dei Namecciani; schivava ogni risposta di Goku o di Gohan ancor prima che questa venisse lanciata, approfittando dei suoi sensi maggiormente sviluppati e dei suoi riflessi super allenati. Gli capitava, a volte, di distrarsi nell'ammirare il piccolo Gohan, complimentandosi segretamente con il ragazzino per la forza che mostrava ogni giorno nell'alzarsi all'alba e nell'addestrarsi tutto il giorno, subendo le sgridate della madre che gl'imponeva di fare i compiti e di studiare. Gohan lavorava sodo per essere all'altezza di ciò che stava per accadere, così come suo padre Goku, Junior e tutti gli altri loro amici.
La mattina passò in fretta, tra un'esplosione e un'onda energetica, giunse finalmente l'ora di pranzo.
«Urca, ragazzi! Che ne dite di tornare da Chi-Chi? Io ho una fame!»
Era una caratteristica tipica dei Sayan essere sempre affamati, ma Goku era al di sopra. Non passava troppo tempo senza pensare al cibo, e una volta cominciato a mangiare sarebbe andato avanti anche per ore, se non fosse per il senso di decenza che albergava nella moglie che, ad un certo punto, si vedeva costretta a togliergli i piatti da davanti.
Gli altri si fermarono a mezz'aria, voltandosi quasi contemporaneamente nella direzione di Goku, che agitava un braccio per attirare la loro attenzione e nel frattempo si massaggiava lo stomaco con l'altra mano.
Junior lo guardò un momento, poi scosse il capo rassegnato. «Non cambierà mai» mormorò all'indirizzo del piccolo Gohan, un sorriso che timido che aleggiava sulle labbra verdi. Il piccolo Sayan rise di gusto, poi anche il suo stomaco e brontolò e, sotto lo sguardo esasperato di Junior, si affrettò a raggiungere il padre che era già un pezzo avanti, con il Namecciano al seguito.

«Eccoci, cara!»
Goku spalancò la porta con una manata, riprendendola appena in tempo prima che sbattesse disastrosamente sulla parete. Il cuore della povera Chi-Chi sobbalzò terrorizzato, la donna sbuffò il fiato forte dalle narici, indecisa se arrabbiarsi o meno. Optò per un respiro profondo e per il meno. Non aveva voglia di litigare. Si voltò lentamente e immediatamente vide i lunghi capelli neri del figlio volarle addosso in un abbraccio che, appena più accennato, le avrebbe frantumato tutte le ossa, adocchiando suo marito già seduto a tavola e Junior ancora sulla porta, indeciso. Ormai erano quasi tre anni che, quasi tutti i giorni, andava a pranzare a casa  loro e a lei la sua presenza non dava fastidio. Inizialmente ne era spaventata; non aveva dimenticato che Goku avesse combattuto più volte contro Junior, ma di recente si sentiva tranquilla sul conto del muso verde.
 «Accomodati, Junior, che aspetti lì?» disse con un mezzo sorriso, mentre spingeva affettuosamente il figlio verso il tavolo. Junior mosse velocemente il capo in un cenno di ringraziamento e si affrettò a prender posto vicino a Gohan, mentre Goku ridacchia e parlava a raffica di chissà cosa  e Chi-Chi serviva le portate. La mole disumana di quella di Goku era impressionante.
Il Sayan iniziò subito a mangiare gli spaghetti e da quel momento si zittì. Solitamente nessuno fiatava mentre mangiavano, a parte qualche commento della donna sul fatto che Gohan passasse troppo tempo ad allenarsi e stesse trascurando i suoi compiti e lo studio; diversi minuti e qualche sfuriata erano sempre necessari per farla calmare e per ricordarle che di lì a poco sarebbero stati in grave pericolo e avevano dunque bisogno di tutto l'aiuto possibile. Ormai era fine dicembre e mancavano pochi mesi al fatidico 12 maggio e al momento il cui Trunks, il ragazzo venuto dal futuro, sarebbe tornato da loro per aiutarli a sconfiggere i Cyborg. Quel pensiero se ne tirò dietro un altro, mentre si riempiva il piatto di ravioli di carne.
Chissà se è già nato il piccolo Trunks...
Un sorriso spontaneo e leggermente scettico, nonostante lui sapesse del nascituro da quasi tre anni, gli si aprì sul viso e fu difficile farlo sparire per un bel pò.



***



Bulma se ne stava sdraiata nella sua stanza con le cuffie nelle orecchie e un Walkman poggiato sul cuscino, affianco alla sua testa. La signora Brief le concedeva di muoversi un pò soltanto nel pomeriggio, quando faceva più caldo, giusto per farle evitare che le si fermasse la circolazione, ma quando lo riteneva opportuno (nessuno sapeva in base a quale criterio) la costringeva a tornare in casa e non fare più alcun tipo di sforzo. Era tremendamente stufa di starsene a letto senza poter fare nulla, ma sua madre le aveva impedito di alzarsi; le portava ogni pasto in camera, un bel vassoio pieno di cibo che puntualmente poi avanza.
Avanzava, nonbuttava.
Nell'ultimo mese eran state piuttosto frequenti le comparizioni di Vegeta. Arrivava di soppiatto, solitamente all'ora di pranzo, e s'intrufola nella camera di Bulma attraverso la finestra; si stendeva accanto a lei e sgranocchiava placidamente ciò che a lei non era andato più. Non parlavano granchè, Vegeta non sembrava troppo convinto di quel riavvicinamento e sembrava sempre sul punto di scappare. Per questo Bulma cercava di non allontanarlo, lasciandolgi i suoi spazi, rispettando i suoi silenzi. Sapeva che non era come all'inizio, sapeva che il suo Sayan era ancora distante e riluttante al ritornare da lei, ma non voleva costringerlo, per tanto si sarebbe accontentata. Continuava a sperare, sperando che bastasse.
Un fruscio la distrasse dai suoi pensieri. Sentì il lenzuolo correrle sulle gambe, sul ventre rigonfio, per fermarsi sulle spalle. Rimase immobile, gli occhi ancora chiusi e le labbra leggermente tirate in un sorriso. La musica ancora rimbombava nella sua testa svuotata di ogni pensiero, di ogni preoccupazione, piena solo di lui. Il leggero rimbalzare del materasso le fece capire che qualcuno si era appena "dolcemente" adagiato sul letto, affianco a lei, nonostante il contatto fosse inesistente.
Già, perchè Vegeta -dopo quel bacio che le aveva dato quando avevano scoperto il sesso del bambino- non l'aveva praticamente più toccata, forse solo per sbaglio. Non le stava più alla larga come fosse la peste, ma non era neanche così propenso a tornare ad essere con lei com'erano prima; lei e lui, quell'assurdo loro. Sentiva il profumo della donna arrivarle gentile e leggero, le palpebre abbassate per la stanchezza, la testa abbandonata sul cuscino che odorava così tanto di lei, dei suoi capelli, della sua pelle. Avrebbe voluto avvicinarsi di più e sentire quella dolce essenza direttamente dalla sua fonte, ma si trattenne. Da un pò lo faceva, ormai. Vegeta non voleva nessun impegno, nessuna responsabilità, nessun dovere che non fosse quello di diventare sempre più forte. Ma allo stesso tempo non voleva rinunciare cmpletamente a lei, perciò si concedeva qualche momento di debolezza e le stava vicino, come in quel momento, con quello spicchio di Luna che brillava lieve al di fuori della finestra. Un movimento accanto a lui lo costrinse ad aprire gli occhi.
Bulma si era tolta le cuffie e si era sporta verso il comodino per poggiare il Walkman sul ripiano, poi si era voltata verso di lui. Trovandolo con gli occhi aperti a fissarla ricambiò lo sguardo decisa, rilassata.
Ma Vegeta aveva altro per la testa. I suoi allenamenti erano sempre più duri ed estenuanti, sempre più difficoltosi, intensi, eppure... Eppure ancora niente. Ancora non era riuscito a trasformarsi nel leggendario Super-Sayan, così come aveva fatto Kaaroth.
Perchè? Perchè non ci riusciva? Erano quasi tre anni che si poneva sempre la stessa domanda, ma ancora non aveva trovato una risposta. Cosa c'era in lui che non andava? Cosa gli impediva di raggiungere quel livello tanto agognato? Non lo sapeva. C'erano scuramente molte, anzi, moltissime differenze tra lui e Kaaroth, ma in fondo erano entrambi Sayan, no? Kaaroth non era così tanto più potente di lui, o sì? C'era davvero un abisso così grande tra di loro? Davvero non poteva raggiungerlo?
E poi c'era il ragazzo del futuro. Anche lui era un Super Sayan, ma come? Gli unici due Sayan dal sangue puro rimasti in vita erano lui e l'odiato Kaaroth. Chi era quel terzo ragazzo così potente? Perchè era un Super Sayan? E perchè lui ancora non lo era?
Stanco di porsi sempre le stesse domande, stanco di arrovellarsi per trovare una risposta decise -o forse non lo decise, fu solo l'istinto- di cercare la soluzione al di fuori di sè.
«Perchè non riesco a trasformarmi?»
Parlò in un sussurro, incapace di tirar realmente fuori la voce. Bulma lo stava già guardando prima che parlasse, così il Sayan potè vedere chiaramente le pupille dilatarsi leggermente per la sorpresa e un momento dopo i denti bianchi della ragazza che andavano a cercare famelici il labbro inferiore di lei. Non era per nulla sicura di voler davvero dire a Vegeta il motivo per cui lui falliva dove Goku era riuscito, e al tempo stesso non voleva mentirgli. Ma come lo avrebbe ridotto la verità? Dubitava fortemente che Vegeta avrebbe preso bene la cosa. Il suo atteggiamento nei confronti del bambino era un chiaro segnale, come se fosse una lampadina al neon che brillava per farsi notare, un’insegna che diceva chiaramente NON HO UNA COSCIENZA, NE’ PIETA’. Dunque no, non poteva dirgli la verità, si sarebbe infuriato. Era decisa, non l’avrebbe fatto, non avrebbe scatenato un mostro contro il resto del mondo, non avrebbe innescato la bomba, non poteva dirgli che…
«Per trasformarti in Super Sayan devi avere un cuore puro, Vegeta»
Ecco fatto. Idiota, cretina, deficiente; nessun insulto sembrava riflettere appieno il modo in cui si sentiva i quel momento: forse colpevole, perché sapeva che centinaia di persone sarebbero morte a causa sua, anche pazza ci stava bene, perché la sua doppia identità aveva preso il sopravvento e la sua parte incosciente non aveva taciuto per lasciare il tempo a quella responsabile di inventare una menzogna efficace che avrebbe tenuto a bada la collera del Sayan. O forse, più semplicemente, l’amore aveva prevalso sulla ragione.
Intanto Vegeta la fissava. Le sopracciglia ancora più corrugate del solito, l’espressione arcigna resa appena più dolce dal turbamento, gli occhi pieni di… disperazione? Nervosismo?... Paura? Lui neppure sapeva cosa fosse un cuore puro. Chi possedeva un cuore puro? Kaaroth. E contro ogni logica si mise ad esamire il suo eterno nemico.
Kaaroth era… un rammollito.
Che però ti ha superato
Karroth era odioso.
Eppure tutti lo adorano
Karroth era un eroe da quattro soldi.
Che però ha salvato centinaia di vite
Kaaroth era un fallito.
Che però, oltre ad averti superato, è felicemente sposato, con un bel mezzo Sayan che lo adora ed è circondato da amici che lo rendono felice.
Ecco. Kaaroth era felice. Fedele. Leale. Buono. Puro.
E Vegeta era esattamente l’opposto. Turbato. Malvagio. Approfittatore. Malvagio.
Sporco. Sporco dentro, nell’anima. Nel cuore.
Guardò Bulma dritto negl’occhi per quella che parve un’eternità, incapace di allontanarsi da lei, lei che era l’unica cosa che, anche se poco, lo rendeva più simile a Kaaroth e lo faceva stare bene, lo rendeva umano.
Non si allontanò da lei quella notte. Non l’abbandonò. Rimase steso sul suo letto a guardarla anche dopo che lei si fu addormentata, le sfiorò la pelle morbida con le dita, respirò il suo profumo e si beò del suo viso. E si sentì bene. Ancora una volta, ancora con lei. Solo con lei.
 
 
UNA SETTIMANA PIU’ TARDI…
 
 

*Vegeta*

 

 
Era appena tornata dall’ospedale. Suo padre era andato a prenderla con la macchina ed erano tornati appena prima di cena, ma io non mi feci vedere. Rimasi ostinatamente rinchiuso nella camera gravitazionale a fare nulla, non avevo nessuna voglia di allenarmi. Mi sembrava anche stupido a dire il vero. Per diventare un Super Sayan avrei dovuto avere un cuore puro. Io. Roba da pazzi. Insomma, quanto può essere puro il cuore di un assassino? Perché quello significava avere un cuore puro: essere giusti, buoni, eroi, vomitevoli come Kaaroth. E dunque perché massacrarmi di allenamenti? Non serviva a un accidente.
Sentivo le risate arrivare dalla casa. Che nervoso, c’era pure Yamcha che giocava col mostriciattolo, nonostante non fosse esageratamente entusiasta della cosa, anzi. E quella donna rideva, spensierata e allegra come mai. Per cosa, diamine? Un bambino significava solo tante rotture di scatole, tipo svegliarsi a tutte le ore della notte, essere sempre vigili per evitare che si frantumasse il cranio cadendo dalla culla, pulire vomito e sorbirsi piagnistei. Era felice di tutto questo? Allora forse non era così furba come immaginavo.
E l’aura di quell’essere non era neanche percepibile. Sarebbe diventato un rammollito, non sarebbe neppure stato in grado lanciare una parvenza di sfera di energia, nessun attacco, nessun arte marziale. Nulla. Inutile e incapace. Avrei impedito a quell’altra di andare in giro a dire che fosse mio figlio, parola mia. Come potevo io, il Principe dei Sayan, lasciare che mi sputtanasse in quel modo? No, non l’avrebbe fatto.
Però avevo una fame assurda, che cavolo. Tutta quella gentaglia era sicuramente nel salotto a ciarlare inutilmente e parlottare come dei malati mentali intorno ad un fagotto di tre giorni che non capiva un piffero, ma io dovevo passare, cavolo. La finestra della cucina era sempre chiusa a chiave –Dio solo sapeva perché da un po’ era sempre sigillata- e forzarla non era proprio una grande idea. Però avevo fame, così mi alzai e uscì dalla camera gravitazionale, diretto alla porta principale. Faceva un freddo allucinante, nevicava come al Polo Nord, ma non me ne curai affatto. Mi fermai un momento per prendere un respiro profondo, ma mi accorsi subito che qualcosa non andava. Le risate, infatti, non venivano dal pian terreno, ma da sopra. Non mi fermai ad ascoltare, o almeno non intenzionalmente. Ma quelle poche parole che mi giunsero all’orecchio mi obbligarono a librarmi nell’aria fredda e a sollevarmi fino ad una finestra del secondo piano.
La camera di Bulma era leggermente diversa: la maturità che aveva dimostrato negli ultimi mesi ora si vedeva chiaramente in quella stanza, a partire dalla pareti bianche decorate solo con qualche quadro, per finire con i mille e più fogli e carte sulla grande scrivania affianco alla porta del bagno. Proprio accanto al letto c’era una nuova parte di mobilio: una culla tutta azzurra, piena di tuller svolazzante a destra e a manca, le tendine trasparenti aperte per permettere ai quattro citrulli di vedere bene la bestiola. Rigirai gli occhi digustato, ma di nuovo le parole della madre di Bulma mi bloccarono dov’ero.
«E’uguale a suo padre»
Ignorai il tono sdolcinato che aveva usato e mi concentrai sulle parole. E così mi assomigliava, eh? Forse in quanto ad aspetto fisico, perché per il resto ero certo che fosse  una mezza calzetta. Non era degno di essere il figlio di un Sayan.
«Dai, mamma, non è proprio uguale. Certo, però sono molto simili»
Il tono di Buma era smielato, mai avrei pensato di sentir parlare lei, proprio lei, in quel modo. Bleah, che schifo. Era di nuovo bella, molto più magra, meno tirata, anche se c’era ancora qualche accenno alla spossatezza. Non avevo nemmeno idea di come fosse andato il parto. Chissà se mi avesse cercato… Bhè, meglio che si abituasse al silenzio, perché da quel momento avrebbe potuto scordarsi la mia più piccola attenzione. E mentre la guardavo un'ultima volta prima di andare finalmente a mangiare, la ragazza fece qualcosa di molto normale, ma che mi colse totalmente impreparato. Si allungò sulla culla e prese tra le mani il marmocchio, facendogli posare la testolina minuscola –evitai di chiedermi perché diamine avesse i capelli viola (non poteva essere un Sayan, perché loro avevano i capelli rigorosamente neri)- e lo sbirciai un momento, così, per curiosità.
Il piccolo mostro –Trunks, da quel che avevo sentito- aveva il viso pieno che nascondeva dei lineamenti marcati, le sopracciglia lilla piegate in una smorfia che mi colpì come una frusta –troppo, troppo simile alla mia- e poi… Poi alzò gli occhi. Si era accorto di me? Quel vermiciattolo, come aveva fatto? Eppure doveva avermi davvero sentito, perché mi fissava da sopra la spalla della madre, uno sguardo troppo sveglio per essere un neonato di tre giorni. Aveva gli occhi azzurro mare, identici ai suoi. Quegl’occhi che mi avevano stregato anni prima, quegl’occhi che mi scrutavano e mi capivano, quegl’occhi che erano la mia porta che conduceva a lei, al suo cuore.
E qualcosa nel mio petto si sciolse, si squagliò, andò in briciole mentre guardavo Bulma e gli altri camminare verso la porta della camera, pronti a scendere per non sapevo cosa. E lui allungò un braccino minuscolo, la mano aperta e le dita che afferravano l’aria tra di noi, come a volerla aspirare per avvicinarci. E neppure mi accorsi della mia mano appoggiata al vetro che premeva su di esso. Un altro attimo e l’avrei buttato giù, mentre il piccolo spariva dietro la porta, con la mano ancora tesa in avanti, verso… me
 
Non è possibile, continuavo a dirmi mentre volavo alla velocità della luce senza una meta, nel buio di quella notte senza luna, in cui la neve cadeva a fiocchi enormi sulla città. Ma i non sentivo più il freddo, sentivo un caldo micidiale bruciare nel petto –sì, all’altezza del cuore- e propagarsi in tutto il resto del mio corpo, in ogni fibra del mio essere, ogni tessuto, anche nel sangue, che ribolliva nelle vene assieme all’adrenalina. Un calore che non avevo mai provato ardeva dentro di me, senza però bruciarmi davvero, tutto mentre pensavo disperatamente a lui, a lei, a loro. Possibile che avesse capito chi fossi? Possibile che avesse sentito quella strana forza invisibile in mezzo a noi, così come l’avevo sentita io? Forse sì. Forse mi aveva davvero conosciuto come suo padre, cosa che perfino io ancora faticavo a credere.
E fu con quel pensiero in testa, il pensiero di mio figlio, che sentì quel calore nel petto esplodere con la potenza di un meteorite, illuminando la notte nera con la luce di mille soli, sciogliendo i fiocchi di neve che avevano la disgrazia di sfiorarmi.
E fu con quel pensiero in testa, il pensiero di mio figlio, che mi trasformai nel leggendario Super Sayan.
   
 
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