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Autore: ChiiCat92    05/05/2012    3 recensioni
- Ehi vacci piano bambola, ho il diritto di essere sconvolto! Insomma tu...sei... -
La ragazza alzò gli occhi al cielo.
"- Una Sirena. Evviva. Sì, sono una Sirena, adesso che l'abbiamo appurato, mi liberi? -
- Va...bene...ok... -
Tom si avvicinò lentamente, stando ben attento a non sfiorare la coda della...Sirena."
Tratto dal Cap 1
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- 20 -

I gemelli Bill e Tom Kaulitz erano stati rapiti nel tardo pomeriggio del 15 Giugno da un gruppo di terroristi che non avevano avuto il tempo di chiedere il riscatto: una squadra speciale della polizia era intervenuta subito per liberarli.
La loro scomparsa era saltata subito all'occhio delle loro guardie del corpo che avevano allertato gli organi competenti nel giro di qualche ora.
La polizia era intervenuta immediatamente e con un pizzico di fortuna erano riusciti a trovarli subito: era da tempo che tenevano sott'occhio quel gruppo di terroristi.
C'era stata una sparatoria e i rapitori erano morti, non c'erano stati feriti tra i membri della polizia.
L'unico tra i gemelli ad aver riportato ferite gravi era stato Bill: nel tentativo di liberarsi dalle fascette di plastica che gli stringevano i polsi si era lacerato la carne tanto a fondo da rischiare il dissanguamento. Era stato soccorso in tempi brevissimi e se l'era cavata con tredici punti di sutura e una trasfusione.
Tom invece aveva solo una forte emicrania, provocata forse dalle droghe che gli avevano somministrato durante il rapimento, che lo teneva chiuso nella sua stanza, al buio, lontano da ogni fonte di rumore.
Erano ormai tre giorni che quel mal di testa non gli data tregua. Gli opprimeva i pensieri e lo lasciava avvolto in una nebbia confusa.
Non era riuscito ad alzarsi dal letto neanche per mangiare, si era costretto a farlo soltanto per svuotare la vescica ogni tanto, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Steso sotto le coperte, accucciato in posizione fetale, aspettava solo che il peggio passasse e che, tra una fitta di dolore e un'altra, potesse riuscire a prendere sonno.
Sentì Bill ancora prima che arrivasse davanti alla sua porta. Aveva un udito così sviluppato e sensibile che poté contare i passi del fratello sugli scalini. Percepì un tintinnio di bicchieri, Bill doveva portare un vassoio.
Arrivò davanti alla porta, non bussò, come gli aveva chiesto di fare (il bussare gli avrebbe spaccato il cranio in due). La scostò gentilmente, anche se Tom sentì comunque il cigolio dei cardini, ed entrò lasciandola socchiusa, quel poco che bastava perché la luce del corridoio filtrasse dentro la stanza.
Bill avanzò piano, poggiò il vassoio sul comodino e si sedette sul bordo del letto. Tom non si mosse. Non spuntava neanche fuori dalle coperte, era appallottolato al buio sotto il piumone. Benché fuori ci fossero dai 30 a 35 gradi all'ombra, lui aveva brividi di freddo, forse era febbricitante, si era rifiutato di accertarsene.
- Ti ho portato la medicina. - Gli sussurrò Bill, piano, pianissimo. Sapeva che era sveglio, non riusciva a dormire nonostante il tempo passato al buio in solitudine. Tom, in risposta, bofonchiò qualcosa che Bill non capì. - Cosa? -
- Non la voglio la medicina. -
Fece lui, un po' più forte, pentendosene subito. La sua stessa voce gli era ostile, gli rimbalzava nel cranio e lo rintronava.
- Non fare il bambino, così non ti sentirai mai meglio. -
- Sto bene. -
- Sì, l'ho visto come stai. Stai come un fotofobico il giorno di Ferragosto. -
- Come sta un fotofobico nel giorno di Ferragosto? -
Bill sbuffò.
- Come te sta! Come deve stare! Forza tirati su. -
Tom continuò a bofonchiare qualcosa. Tirò fuori solo un braccio dalle coperte e Bill gli passò il bicchiere con il medicinale, che qualche istante dopo gli venne riconsegnato vuoto.
- Fa schifo questa cosa. -
- Questa cosa ti fa stare meglio. Scendi per la cena? -
- A che ora? -
- Non so, quando vuoi, ordino una pizza. -
- Mi sembra che mangiamo sempre e solo pizza. -
Bill ridacchiò.
- Sì, ma è la cosa più buona e veloce che possiamo ordinare. Puoi sempre metterti a cucinare, o uscire per andare al ristorante. -
- E che mangeremmo al ristorante? -
I due rimasero in silenzio per un attimo, poi risposero in coro:
- Pizza. -
Tom tirò un sospiro.
- Vienimi a chiamare quando arriva. -
- Va bene. -
Contento di quella piccola vittoria, dato che erano giorni che non lo vedeva deambulare per casa, Bill si alzò portando con sé il vassoio, poi lasciò Tom chiuso nella sua oscurità.
Tom non avrebbe potuto dare il merito alla stanchezza, al dolore o alla medicina, ma a un certo punto riuscì a prendere sonno, anzi, crollò proprio, su due piedi, senza neanche rendersene conto, non appena Bill richiuse la porta e lo lasciò solo.
Fece degli strani sogni, sogni che un po' sembravano veri e un po' assurdi. A volte vedeva se stesso dormire nel suo letto, sentiva le coperte sopra la testa e il caldo confortante del suo buio, a volte volava in ampi spazi in cui l'aria sembrava traballare. Sognò anche che nel cielo notturno invece della Luna c'erano due grandi sfere violacee, gemelle ed enormi che lo sovrastavano. Poi sognò che aveva un'urgenza impellente di andare in bagno, si alzava dal suo letto e ci andava, ma non riusciva ad urinare perché qualcuno entrava sempre a disturbarlo, cosa che aumentava il suo bisogno in maniera esponenziale.
Spalancò gli occhi, disperato, doveva correre al bagno, altri due minuti e se la sarebbe fatta addosso.
Scostò le coperte e si alzò traballante sulle gambe. Strascicando i piedi se ne andò in bagno e fece quel che doveva fare.
Tornò a letto, non aveva poi tanta voglia di scendere a cena, anche se, in un certo senso, l'aveva promesso a Bill.
Ai piedi del suo letto c'era un ammasso di vestiti che non aveva mai sistemato.
Sbuffò ancora e li afferrò per scaricarli sulla sedia della scrivania. Erano un bel po', dovette fare due viaggi. Al secondo un bermuda gli cadde a terra. Imprecò, perché non voleva e non riusciva a stare un altro attimo in piedi, e si abbassò per riprenderlo. Immediatamente sentì e vide qualcosa rotolare fuori dalla tasca e andarsi a infilare sotto il letto. Incuriosito, frugò nella tasca per vedere se ci fosse altro, ma niente. Ora doveva assolutamente capire cos'era caduto. Si accucciò sul pavimento e cominciò a tastare a vuoto nel buio. A parte qualche ciuffetto di polvere scappato alle pulizie della domestica, non trovò nulla.
Si tirò su, arrabbiato ma non deciso ad arrendersi, e corse ad accendere la luce. Di colpo la sua stanza riprese forma e colore, tutti gli oggetti che aveva sparpagliati in giro gli sembrarono rinascere, brillavano come al sole. La sua emicrania però gli fece socchiudere gli occhi per un attimo. Si massaggiò le tempie e poi ricordò l'oggetto caduto dalla tasca, e la curiosità prese di nuovo il sopravvento.
Si rigettò sotto il letto alla ricerca di qualunque cosa fosse caduta a terra. Per po' tastò il nulla, poi con la punta delle dita toccò una pallina. Si spinse di più e l'afferrò.
Sul palmo aperto della sua mano c'era una perla, una grossa perla viola. Non ne capiva molto di gioielli, quindi non sapeva se fosse una perla vera o solo una pallina di plastica senza valore.
Chi è che l'aveva infilata nella tasca del suo bermuda? Non riusciva a ricordarlo.
Si tirò su, spense la luce e uscì dalla stanza, sempre rigirandosi tra le dita quella perla viola.
Si faceva mille domande e tutte quante erano senza risposta.
- Oh, sei qui! Stavo per venirti a chiamare. -
Annuì a Bill senza guardarlo in faccia e si sedette al tavolo.
- Secondo te è una perla vera? -
- Mmm? Cosa? -
- Questa. -
Tom porse al fratello la perla; lui la prese e gli diede una veloce occhiata, la soppesò sul palmo della mano e poi gliela restituì.
- Boh, che ne so. Dov'è che l'hai trovata? -
- E' caduta dalla tasca di un mio pantalone. -
Tom era tornato a rigirarsi la perla tra le dita, parlava a Bill fissando l'oggetto, completamente rapito dalla sua perfetta forma sferica, dalla sua lucidità, dal modo in cui la luce lo faceva brillare.
- Davvero? E chi ce l'ha messa là? - il fratello rispose solo stringendosi nelle spalle - Non so che dirti, possiamo provare a farla valutare da un orafo, o qualcosa del genere. -
- No. -
Stavolta Tom inchiodò gli occhi su Bill e lui rabbrividì.
- Oook, non ti arrabbiare! Tienitela, che vuoi detto. - Bill non ci fece caso, come tutte le cose senza un'utilità obbiettiva che passavano per le mani di Tom, presto anche quella perla sarebbe finita in un angolo buio, dimenticata perché lui si era annoiato. Gli mise davanti la scatola di cartone della pizza - Funghi, olive e carciofi, come piace a te. -
- Grazie. -  

Era passata una settimana dal rapimento, e le cose miglioravano con il passare del tempo.
Più di un giornale avevano voluto un'intervista esclusiva su quantoi gemelli ricordavano dell'accaduto, ma loro erano stati telegrafici con chiunque, non tanto perché non avessero voglia di raccontare quello che gli era successo, ma solo perché facevano fatica a ricordare tutti i particolari che i giornalisti gli chiedevano.
Qualcuno diceva che erano ancora sotto shock e che era un meccanismo normale della loro mente quella sorta di amnesia, e gli avevano consigliato di sottoporsi a uno specialista (uno psicologo) per essere sicuri che non sviluppassero un trauma. Ma loro avevano rifiutato dicendo che non era assolutamente necessario e che gli bastava ricominciare a vivere la loro vita con tranquillità.
Quindi ripresero a comporre musica, a stare in studio fino a notte fonda, a uscire se ne avevano voglia a bere e divertirsi e a fare le piccole cose che facevano anche prima, senza avere alcun tipo di paura.
Era un fatto sconvolgente più per Tom che per Bill che non avessero nessunissimo tipo di fobia, nessuno strano comportamento, nessun incubo: come se non fosse successo nulla e quello fosse tutta una candid camera ben organizzata.
Tom ci pensava spesso, soprattutto la mattina, in quell'attimo che rimaneva con la mano sul pomello della porta, quando stava per uscire. Forse non si conosceva abbastanza bene, era semplicemente più forte di quanto credesse di essere.
Non soffriva più di emicrania, non costante con i primi tre giorni. Ogni tanto gli veniva una fitta quando si metteva a pensare troppo a quello che era successo. Bill lo prendeva in giro dicendo che era il pensare a fargli male e che doveva smetterla prima di fondersi il cervello, ma sapeva che in fondo era preoccupato tanto quanto lo era lui.
Quel giorno era stato indaffarato come non succedeva da tempo, ed era riuscito a liberarsi solo verso sera, al tramonto, il momento della giornata che amava di più. Aveva la schiena a pezzi per quanto era stato chino sui mixer e sulla chitarra per provare nuovi arrangiamenti per una canzone ancora in lavorazione, mentre Bill nell'altra stanza montava a tratti il testo, aggiustandolo quando le parole erano dissonanti.
- Bill, sto uscendo il cane! -
Urlò al fratello, che aveva appena finito di registrare la prima parte della canzone.
- Che vuoi? -
- Sto uscendo il cane! -
Bill gli fece cenno di aspettare e si tolse le cuffione che gli avevano otturato le orecchie.
- Sì? -
Tom alzò gli occhi al cielo.
- Porto Scotty fuori, va bene? -
- Ok. Io rimango un altro po' qui, sto quasi per finire. - scribacchiò qualcosa sul foglio che aveva davanti - Che dici se stasera mangiamo al giapponese? È tanto che non andiamo. -
- Mmm no, non mi va, non credo che mangerò stasera. -
- Certo, tu vai avanti con hot dog e chili che ti fanno bene! Sei ingrassato come non so cosa. - Tom gli mostrò il medio senza dire altro: era abbastanza eloquente - Come vuoi, almeno mi compri del gelato? -
- Ok. -
- Alla vaniglia. -
- Lo so. -
- Senza le scaglie di cioccolato, solo vaniglia. -
- Sì, lo so come ti piace. -
- Senza zucchero! -
- Oh fottiti, è gelato! -
Bill rise si infilò di nuovo le cuffie mentre Tom sbuffava e fissava il soffitto, sperando che qualcuno dall'alto intervenisse per la stupidità di suo fratello.
Uscì dalla sala di registrazione e andò a recuperare il guinzaglio di Scotty.
Il cane era in cortile che faceva su e giù come un pazzo, come sempre a quell'ora, scodinzolando e saltellando ovunque.
Prima di uscire Tom si accertò di avere il cellulare e la perla viola in tasca. Fece un fischio al cane e quello subito corse verso di lui, contento. Gli saltò addosso e gli lavò la faccia con una buona dose di saliva.
- Oh Scotty, bello, ti voglio bene anch'io ma non c'è bisogno di essere così affettuoso. -
Ma il cane continuava a leccarlo, in piedi con le zampe anteriori sulle sue spalle, scodinzolando incessantemente.
Poi di colpo si fermò, come richiamato da qualcosa o da qualcuno, e corse lontano.
Tom lo seguì con lo sguardo con un sorrisetto sulle labbra, finché i suoi occhi non incontrarono una figura in piedi sul prato. Per un momento il suo cuore perse un battito, il suo cervello pensò a tutto quello che non aveva pensato in quei giorni, e temette di rivivere il vuoto del rapimento ancora una volta, poi vide che si trattava di una ragazzina e si tranquillizzò, anche se un moto di stizza gli prese lo stomaco: che ci faceva lì? Come aveva eluso la sicurezza? Come era possibile che dopo quello che era successo qualcuno riuscisse ad intrufolarsi fino ad arrivare così vicino a loro?
Scotty le corse in contro e prese a farle le feste, abbaiando e uggiolando felice, come se la conoscesse da tempo. Non era un cane particolarmente amichevole con gli sconosciuti, ci metteva un po' per abituarsi alla presenza di qualcuno che non fosse Bill o lui stesso, d'altronde viveva con loro 24 ore su 24. Eppure sembrava conoscere quella ragazza da sempre, tanto che non aveva problemi a farsi accarezzare la testa dalla sua piccola manina.
- E tu chi sei?! Come hai fatto ad entrare? Scotty, a cuccia bello, vieni. - Le chiese, mantenendosi a distanza. Scotty alzò le orecchie e tornò da lui. Gli girò un po' intorno alle gambe, poi prese a spingerlo e tirarlo verso la ragazza. - Scotty, ho detto cuccia! - il cane emise un basso gemito e si sedette con la coda tra le gambe e le orecchie basse. - Allora? Chi sei ragazzina? -
Lei però non parlava.
Aveva visto nella sua vita più di una bella ragazza, ma lei aveva un fascino nella sua semplicità che non comprendeva. Era una bellezza esotica, strana, non umana. Aveva lunghi capelli biondo scuro, tendenti al color caramello, umidi, che le cadevano con dolcezza sul volto e sulle spalle. Ma ciò che più colpì Tom fu i suoi occhi: erano così...così...pieni, forse era l'aggettivo che più si avvicinava a una descrizione adeguata. Erano pieni di qualcosa che Tom non riusciva a comprendere, a cui non sapeva dare un nome.
Aveva un'espressione insieme terrorizzata e sollevata.
Tom, passato l'iniziale stupore, cominciò a irritarsi. Quella ragazza per essere arrivata sulla soglia di casa sua doveva essere come minimo una scostata che voleva avere magari una loro ciocca di capelli con cui fare strani riti vodoo, o che magari era alla ricerca di qualcosa di scandaloso da fotografare per venderlo a un giornale. Ne aveva viste tante come lei, non sarebbe stata né la prima né l'ultima volta.
- Non parli? Cosa vuoi? Una foto? Un autografo? -
Si accorse da solo di essere sulla difensiva, spaventato da qualcosa che non capiva da dove venisse: quella ragazza, anche se lui voleva convincersi del contrario, non aveva un'aria pericolosa, anzi sembrava più che innocua, come un'apparizione più che come un essere di carne e ossa.
- Volevo solo...salutarti. -
Disse alla fine lei, con un piccolo sorriso sulle labbra rosse come sangue.
- Adesso mi hai salutato. Puoi anche andartene. -
La ragazza continuò a sorridere e fece retrofront. Scotty, seduto ai piedi di Tom fece per lanciarsi al suo inseguimento, ma lui lo intimò con un altro “cuccia!” a cui non poteva fare a meno di obbedire.
Tom seguì con gli occhi la ragazza che voleva solo salutarlo, per scoprire anche da dove era entrata. Il suo sguardo si poggiò presto sulle impronte di sangue che i suoi piedi lasciavano sul prato.
“E' ferita” pensò istantaneamente, e si sentì in colpa per averla trattata in modo così distaccato.
- Ehi aspetta! - lei si girò, sempre sorridendo. Si avvicinò a lei riempiendo lo spazio che li divideva con grandi falcate decise. Quando se la ritrovò davanti vide quanto era piccola, ed esile, sembrava sul punto di spezzarsi sotto i colpi di chissà quale male. - Sei ferita? Ti hanno fatto del male? - Le poggiò le mani sulle spalle, sul viso. Lei chiuse gli occhi, inebriata dal quel contatto, e respirò a fondo il suo profumo, come fosse l'aria di cui aveva bisogno.
- No. Sto benissimo. Ti ringrazio. - indirizzò a Tom un altro di quei sorrisi di una dolcezza spiazzante - Adesso devo andare. -
Si liberò dalla sua presa e corse via, tra le siepi che contornavano il perimetro della villetta.
Per un attimo Tom fu certo, assolutamente certo, che al collo lei portasse una perla viola, identica per dimensioni e colore a quella che lui aveva in tasca.
Ma fu solo un attimo, quella sensazione sparì immediatamente e la ragazza divenne solo un'illusione.
Gli tornò l'emicrania. Tanto forte da doversi afferrare la testa tra le mani per paura che gli si spaccasse in due come un cocomero maturo.
Un giramento lo fece crollare a terra e il mondo si confuse.
A svegliarlo fu l'abbaiare disperato di Scotty e lo scuoterlo disperato di Bill, e ovviamente il suo chiamarlo insistente e ripetitivo, tanto che non si capiva neanche più com'era il suo nome, se “Tom” o “Tontotontontontonton”, perché neanche si sentiva la “m”.
Aprì gli occhi respirando a fondo e si ritrovò la lingua di Scotty sulla faccia. Lo scostò via gentilmente e si tirò su a sedere.
Era sul prato, in giardino, il sole era tramontato, c'erano un mucchio di stelle accese in cielo. Quanto tempo era rimasto svenuto?
Si asciugò con una manica la saliva del cane della guancia e si guardò intorno spaesato.
- Che è successo? -
Borbottò. Bill gli saltò al collo e lo strinse in un abbraccio che gli mozzò il fiato.
- Dovresti dirmelo tu cretino! Sei crollato come una pera cotta! Se ti sentivi male non dovevi uscire!-
- Ma mi sentivo bene infatti. - si massaggiò le tempie - C'era una ragazza. - rievocare il ricordo gli faceva venire più male - Era qui, in piedi nel giardino...era ferita, sanguinava. - Bill lo guardò come se fosse pazzo, e forse lo era - Non sono pazzo! - disse però al fratello.
- Certo, ne sono sicuro. Adesso ti alzi, ti metti sul divano e io ti preparo qualcosa di caldo, eh? Così ti riprendi. -
- Cazzo, sembri la mamma. -
- Sì, me ne rendo conto. Solo che la mamma te ne avrebbe date tante da farti diventare nero, così eri più credibile con queste trecce. -
Lo aiutò a tirarlo su prendendolo per un braccio.
Mentre rientravano in casa Tom guardò il prato, era all'ossessiva ricerca di qualcosa che gli dicesse che non aveva immaginato quel sangue e che quella ragazza c'era stata davvero.
Quando non trovò niente si chiese se stesse davvero bene come pensava.
Non aveva notato le impronte di minuscoli piedi femminili impresse nel prato verde con il sangue.

*

Maryll era felice.
Provava un dolore lancinante che era difficile da descrivere. Ogni singolo nervo del suo corpo era percorso da colate di lava bollente che le lasciavano appena la forza di muoversi e parlare. Le piante dei piedi erano ricoperte di vescicole purulente che sanguinavano a ogni passo dandole l'impressione di camminare sui carboni ardenti. Il petto, l'addome, i fianchi, le gambe, ricevevano sferzate di dolore che andava aumentando di intensità ogni minuto che passava. Lo scorrere del tempo diventata relativa, tutto era in funzione di quella pena che non era fisica, ma dentro di lei. A parte il sanguinare continuo dei piedi nessuno avrebbe potuto capire quanto e come stesse soffrendo. Era una sofferenza che dava come unico scampo la morte; non avrebbe provato più dolore infilandosi un coltello nel cuore.
Ed era felice, felice come non mai prima d'ora.
Il dolore era buono, era giusto, era la prova che il suo sacrificio era valso a qualcosa, che Tom era vivo.
Abituarsi a tutta quella sofferenza le era costato del tempo, tempo prezioso che avrebbe voluto spendere con lui.
Si era accorta del cambiamento in lei già una volta abbandonata Sub LA; qualcosa si era mosso nel suo stomaco, un avvertimento forse. Più si avvicinava alla superficie più respirare diventava difficile, più muoversi le costava fatica, più gli arti le dolevano.
Il primo giorno non era riuscita neanche ad uscire la testa fuori dall'acqua. Abbacinata dal dolore e dallo sconforto si era immersa di nuovo, senza alcuna intenzione di smettere di provare.
Il secondo e il terzo giorno era andata meglio: era riuscita ad affiorare a pelo d'acqua e cominciare ad avvicinarsi alla riva.
I Salvatori erano stati buoni con lei, d'altronde condividevano lo stesso dolore. Le avevano indicato un luogo adatto dove cambiare forma e le avevano consegnato una piccola valigia colma di vestiti che lei poteva usare una volta trasformata. Anche se scoraggiavano le sue intenzioni di uscire fuori dall'acqua con i suoi piedi.
Ma non le importava, era felice.
Quel giorno, una settimana dopo l'eclissi, era riuscita ad arrivare sulla spiaggia.
Il dolore era talmente forte che le ottenebrava i sensi, non riusciva più a percepire niente del mondo intorno a lei come prima, c'era solo quel sesto senso a lei prima sconosciuto: dolore.
Nella valigia aveva trovato un vestitino a fiorellini azzurro, l'aveva indossato, le stava bene, le cadeva morbido addosso mettendo in risalto le sue curve, a lui sarebbe sicuramente piaciuto.
Poi aveva alzato lo sguardo sulla grande casa bianca in lontananza, e aveva cominciato il suo calvario per arrivarci.
Non sapeva neanche cosa avrebbe fatto una volta lì, che cosa avrebbe detto, se fosse riuscita a dire qualcosa, ma non le importava neanche quello: era felice.
Ora, mentre tornava a piccoli passi verso la spiaggia, pensava che ne era valsa la pena. Vedere di nuovo il suo viso, sentire di nuovo la sua voce, non aveva prezzo a pagare, e la felicità che le riempiva il cuore era quasi più forte di tutte le sofferenze che stava patendo.
Inciampò, cadde, le giunture di braccia e gambe le erano diventate rigide come pezzi di legno, si rialzò, continuò a camminare. Non poteva fermarsi, non sarebbe più riuscita a muoversi.
Sotto i piedi feriti la sabbia era come acido corrosivo. Immerse le piante tra i granelli ancora caldi di sole e desiderò ardentemente tornare da Tom.
“Un po' per volta” le disse però la sua mente “un po' per volta”. Era convinta che sarebbe riuscita ad abituarsi al dolore, a farne una parte integrante della sua vita e renderlo solo lo sfondo in cui si svolgeva la sua esistenza. Convivendoci forse avrebbe potuto restare al fianco di Tom.
Immerse i piedi nell'acqua salata e sentì subito il sollievo prenderle la gola. Non avrebbe mai ammesso che la sofferenza era troppa da sopportare e che il solo rivedere l'Oceano l'aveva fatta sentire meglio.
Ripose con cura il vestito nella valigia, accarezzandolo. Lui l'aveva vista con quello indosso, e ora non l'avrebbe più dimenticato.
Si gettò in mare e riprese le sue sinuose forme da essere marino.
Sparì alla vista come il sole all'orizzonte.

The Writer Says:

Cari Lettori,
siamo giunti alla fine,
ma è davvero la fine?
Questo non so dirvelo.
Grazie sempre a Asja Writes e Ginger Snaps per essere state le mie fidate commentatrici.
Questa storia, o almeno questa parte di storia, si è conclusa,
ma sento nel profondo del cuore che Maryll ha qualcos'altro da dire
e che lo dirà molto presto.
Quindi credo che sia solo un "arrivederci" e non un "addio".
Keep in contact, presto potrebbero esserci novità ;)
Vi invito a leggere la nuova storia che verrà pubblicata  breve: "Love & Death",
con la speranza che plachi l'attesa di qualche chicca di "Deep Sea".
Continuate a guardare l'orizzonte,
proprio quando il Sole si immerge nel Mare
potreste vedere una Sirena nuotare,

XXX
Chii
   
 
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