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Autore: NekoRose    05/05/2012    2 recensioni
un racconto introspettivo, una riflessione, su come e perchè gli angeli arrivino a dannare il loro cuore fino a cadere all'inferno. Non ha intenzione di essere una storia offensiva, ma ne sconsiglio comunque la lettura alle persone sensibili ai temi religiosi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Buon giorno, pomeriggio o sera a tutti coloro che hanno voluto dedicare un pochino del loro tempo alla lettura di questo mio racconto. è il primo che pubblico, quindi spero che mi perdonerete per la sgangherata introduzione e per eventuali errori con i codici di scrittura del sito. Qualunque tipo di commento sarà terribilmente gradito e ricompensato con un'immensa ondata di gratitudine (anche quelli negativi,del resto come ci si potrebbe correggere senza conoscere i propri errori?) Vi ringrazio ancora sperando che la lettura vi risulti piacevole. NekoRose.

La caduta degli angeli

Nacqui dal respiro di Dio, perché è così che nascono gli angeli.
Nacqui per custodire il cuore degli uomini, ma ancora non lo sapevo. Non si sanno queste cose la prima volta che si aprono gli occhi. In realtà non si sa nulla la prima volta. Probabilmente l’unica consapevolezza è quella di esistere, ma è un battito di ciglia. E crescendo non ti rimane nemmeno quella.

Nacqui dal respiro di Dio, perché è così che nascono gli angeli.

Nacqui in Paradiso, sotto i fiori delle rose in boccio. Ed erano bianche e pure, le mie rose. Profumavano come i pomeriggi di maggio, quando le spose felici e tremanti posano le ginocchia sull’altare, con gli occhi lucidi e colmi di speranza, avvolte dai loro fluttuanti abiti candidi. E come le spose i miei boccioli avevano screziature rosse di pudore e petali ancora chiusi a conservarne la virtù.

Nacqui dal respiro di Dio, perché è così che nascono gli angeli.

Nacqui di mattina, quando il sole sorge e la natura è ancora bagnata dalla notte. E fu il sole a farmi nascere nel calore di un abbraccio, avvolgendo con i suoi raggi il mio roseto bianco e puro. E fu la rugiada l’acqua santa che mi bagnò la fronte e la terra feconda il mio altare di eterna purificazione.

Crebbi in Paradiso, perché è lì che crescono gli angeli.

Crebbi nutrendomi di aria e luce, senza conoscere mai fame o carestia. Tutto era rigoglioso attorno a me, gli alberi fiorivano e davano frutti e non esisteva inverno, ma solo un’eterna primavera di abbondanza e calore. Anche gli animali avevano sempre di che mangiare. Mangiavano i frutti della terra perché nessuno in Paradiso mangia la carne e bevevano acqua benedetta dalle fonti e latte e miele dai fiumi.

Crebbi in Paradiso, perché è lì che crescono gli angeli.

Crebbi conoscendo solo la pace, l’amore e la fratellanza, dato che il dolore e la morte sono banditi da quel luogo. Ed ero felice di quella felicità che deriva solo dall’inconsapevolezza del male. Vivevo con l’anima leggera e pura fluttuante in un’aria di serenità e conforto, sola, eppure circondata da altri, non avevo bisogno di nulla e non conoscevo peccato.

Crebbi in Paradiso, perché è lì che crescono gli angeli.

Crebbi per custodire il cuore degli uomini,e mi insegnarono a farlo. Mi dissero che questi erano i figli di Adamo ed Eva, creature deboli e sporche, traditrici ed egocentriche per natura, malate di cupidigia, lussuria, accidia e gelosia. Mi dissero che per superbia avevano tradito loro padre e che nascevano già col cuore sporco di peccato, che veniva lavato via col battesimo, ma che non restava pulito se non mantenuto tale. Mi dissero che nascevano in posto chiamato Terra dove furono confinati a punizione del male fatto, che questa Terra era costellata di tentazioni e pericoli e che si sarebbero guadagnati il Paradiso mantenendo pura la loro anima.

Così venni mandata sulla Terra, perché è qui che vivono gli uomini.

Scesi sulla Terra e baciai la fronte al mio protetto per portargli il respiro di Dio, perché è così che nascono gli uomini.

Scesi sulla Terra, gli baciai la fonte e mi macchiai le labbra di rosso, perché il suo viso e il suo corpo erano sporchi di sangue. Gli occhi erano chiusi e ciechi e si agitava come una mosca nella tela del ragno, urlando e piangendo.

Scesi sulla Terra e baciai la fronte al mio protetto per portargli il respiro di Dio, perché è così che nascono gli uomini.

Nacque sulla Terra dal ventre di una donna. E lei era sporca di sangue e tremante e pallida. Aveva un odore come le notti di maggio, quando le spose novelle macchiano di rossa purezza le lenzuola dei loro mariti. E delle spose novelle la donna aveva gli occhi ricolmi di lacrime che scendevano a rigarle il viso sfigurato dal dolore e le gambe aperte di lussuria.

Scesi sulla Terra e baciai la fronte al mio protetto per portargli il respiro di Dio, perché è così che nascono gli uomini.

Nacque in una notte d’inverno, quando il vento soffia ed imperversa la bufera. E fu la levatrice a metterlo in seno alla madre addormentata per farlo mangiare. E fu il prete a immergerlo nella fredda acqua santa della chiesa per lavare dal suo cuore il peccato originale. Suo padrino fu lo zio, che aveva ucciso le figlie femmine per non sfamare cose inutili e madrina fu sua zia, che glielo aveva permesso.

Scesi sulla Terra, perché è lì che crescono gli uomini.

E il mio protetto crebbe nutrendosi di vermi e erba, soffrendo la fame in un mondo devastato dalla carestia. La terra non dava sempre frutti e stava all’uomo piantarli e raccoglierli, perché essi non crescevano spontaneamente. Allevavano buoi e altri animali miti per poi ucciderli e mangiarli, mentre scacciavano e temevano quelli dai denti affilati che si nutrivano di carne come loro. Bevevano acqua fangosa dai pozzi e melmosa dagli stagni e si lavano in fiumi dai flutti torbidi e gelati.

Io, essendo cresciuta in una terra di latte e miele, non capii il loro comportamento e mi ritenni migliore.

Fu così che conobbi la superbia.

Scesi sulla Terra, perché è lì che crescono gli uomini.

E il mio protetto crebbe dapprima arrancando sul terreno polveroso a quattro zampe, poi, tra le mie braccia, su due finché non fu in grado di stare in piedi da solo. E feci questo perché era mio compito. Imparato a camminare cominciò a correre e a cadere e io gli curai le ferite, perché questo era mio compito. E imparato a correre si dilettava nell’acqua e io lo tenevo lontano dalle correnti forti e lo facevo perché questo era mio compito. Finito di giocare si stendeva al sole e si riposava sotto le fronde degli alberi e io con lui.

Mi sentivo così a casa nello stare al sole sull’erba a farmi carezzare i capelli dalla brezza che smisi di seguire il mio protetto ovunque andasse e di adempiere al mio dovere.

Fu così che conobbi la pigrizia.

Scesi sulla Terra, perché è lì che crescono gli uomini.

E il mio protetto crebbe bello, sano e forte e fu tempo per lui di trovare un lavoro rispettabile. Così partì per cercare la fortuna in terre lontane e per sopravvivere finchè non vi fosse riuscito cantava nelle piazze canzonette e poesie su amori ed eroi d’altri tempi. Ma viveva di stenti, il mio piccino, così decisi di fermare la carrozza del re proprio nella piazza dove il mio protetto cantava. Ed il re, colpito da tanta bravura lo assunse come cantore di corte e gli diede una casa e cibo in abbondanza. Il mio protetto, che era un ragazzo pio e rispettoso, decise di lasciare le eccedenze della sua tavola come offerte al suo Signore e al suo custode.

Ed io mi azzardai ad assaggiarle. E le trovai talmente buone e deliziose, io che ero cresciuta nutrendomi di sola luce, che non riuscivo più a smettere di mangiarne e più ne avevo più ne volevo, ma soprattutto nulla cedevo.

Fu così che conobbi la gola e l’avarizia.

Restai sulla Terra, perché è lì che muoiono gli uomini.

Per prima morì la donna che aveva partorito il mio protetto. Erano venute delle navi dal mare, portando oro, ricchezze e topi. E i topi a loro volta avevano portato la peste che cominciò a dilagare per le strade e pochissimi non ne erano vittime e ancora meno sopravvivevano. La donna si ammalò e lui le rimase accanto, curandola e cullandola come lei non aveva mai fatto. E c’era così tanto amore nei suoi gesti che per un attimo pensai che potesse avere in se un pezzetto di Paradiso. Di quel Paradiso da me tanto lontano e desiderato.

E fu così che mi innamorai di lui. Divenni felice di vederlo, di stargli vicina, perché in lui ritenevo ci fosse un po’ del mio mondo perduto. Ma non era una felicità buona, naturale. Era un’allegrezza selvaggia, spasmodica, folle, che mi nasceva nelle viscere e mi invadeva tutto il corpo.

Fu così che conobbi la lussuria.

Restai sulla Terra, perché è lì che muoiono gli uomini.

Per seconda morì la cortigiana della quale il mio protetto si era invaghito. Morì dissanguata nel suo letto la stessa sera in cui le sue labbra incontrarono quelle calde di lui. Quando successe mi sentii morire, non poteva essere vero, lei lo aveva avuto, aveva ottenuto ciò che io da troppo tempo segretamente bramavo nell’angolo più recondito delle mie viscere.

Fui io stessa a trafiggere il suo candido petto con un coltello gioendo mentre la lama affondava nella sua carne morbida e cedevole. Vidi il rosso spargersi sulle sue vesti, l’odore del sangue, l’odore di vita. E lo trovai talmente inebriante che non riuscii a smettere. Affondai, affondai e riaffondai la lama fino a che di lei non rimase altro che un mucchietto di putrida carne sanguinolenta. Allora mi ritenni soddisfatta e smisi ridendo selvaggiamente.

Fu così che conobbi l’ira e l’invidia.

Restai sulla Terra, perché è lì che muoiono gli uomini.

Per terzo morì il mio protetto, il mio unico amore, la ragione per la quale ero stata creata. Morì tra le mie braccia e sentii il suo corpo da bollente diventare freddo, sempre più freddo, fino a che il viola si impossessò delle sue labbra e ampi cerchi blu gli si formarono sotto gli occhi e la sua pelle, un tempo così ricca di vita, divenne pallida e bianca come le rose sotto le quali ero nata. Allora sentii che se ne era andato e una rabbia cieca pervase il mio corpo sconquassando le mie membra dal più profondo del mio essere. Non avevo più senso di esistere e non avevo più lui. Sarei potuta tornare in Paradiso alla mia vita e alla mia pace, mi sarebbe stato perdonato tutto, ma l’idea mi disgustava. Mi sarei potuta redimere, avrei potuto chiedere perdono per tutti i miei peccati, ma non l’avrei più rivisto. Avrei potuto riottenere la ragione per la quale mi ero innamorata di lui. Ma non la bramavo più, volevo avere lui. Allora estrassi il coltello dal suo petto, lo stesso con il quale avevo ucciso il suo amore, e lo affondai nel mio petto maledicendo il nome del Padre che mi aveva costretta a un’esistenza così miserabile e dolorosa.

Maledissi il suo nome affondando la lama nella mia carne corrotta e caddi all’Inferno.

Caddi urlando il nome dell’uomo che avevo amato.

Perché è per amore che cadono gli angeli. 

Giù le mani dal mio cucciolo! Mamma Neko dice: "Questo è un componimento originale e ne è assolutamente vietata la riproduzione (intera o parziale) in qualunque luogo, tempo, spazio e dimensione senza un mio esplicito permesso" (per favore)
   
 
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