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Autore: Rejoice96S    07/05/2012    0 recensioni
Napoli. Piccola, grande Napoli.
Lei è Giulia, non vuole affrontare per l'ennesima volta la realtà.
Lei è Chiara, riuscirà a far emergere l'altro lato della medaglia della sua città?
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le foglie iniziavano a ricordare i colori del sole, scivolavano e si adagiavano sui prati del parco Virgiliano. Il sole continuava a mostrarsi e a risplendere con i suoi raggi sul Maschio Angioino, creando quotidianamente giochi di luce e splendore, fino a tuffarsi nuovamente nelle azzurre acque che carezzavano le rive di Mergellina. Piccole nuvole sparse qua e là, come tanti batuffoli di cotone, che circondavano il mite vulcano. I Decumani si ripopolavano, sostituendo ai silenziosi turisti armati di mappe e videocamere i vivaci e chiassosi napoletani, pronti a rianimare la loro città. Traffico e confusione ritornavano nella quotidianità di Via Caracciolo.
Insomma, dopo una lunga estate, tutto tornava alla normalità. Stava iniziando un nuovo autunno e tutti sembravano pronti ad affrontarlo con una controllata serenità. Tutti. È impossibile racchiudere un popolo in una parola così globale. Tra gli odori e i colori della gente, in uno dei piccoli vicoli che si affacciavano al Decumano Inferiore, c’era una ragazza. Una ragazza dai tratti semplici e lineari distrutti da un sogno mai realizzato. Una ragazza dai capelli neri come una notte senza stelle. Una ragazza con un sorriso storpiato dalla realtà. Un’adolescente di nome Giulia, i cui occhi ripetevano che ella  non era ancora pronta ad affrontare per l’ennesima volta Napoli.
 
Erano passati due anni da quando la sua vita cambiò definitivamente.  Ormai non riusciva più a vedere la sua città con gli occhi di una partenopea, ammaliata dalle sue tante e piccole genuinità, e aveva imparato ad osservare e a giudicare il mondo, il suo mondo, quello in cui viveva. Napoli era cambiata. Il piedistallo su cui si reggeva il mito della città ideale era crollato.
Due anni. Era un caldo pomeriggio di settembre quando tutto cambiò. Il sole stava tramontando, una leggera e fresca brezza carezzava la città. Tutto tranquillo, nulla di strano. Improvvisamente, uno sparo. Un uomo, dai lineamenti simili a quelli di Giulia, era disteso a terra, con gli occhi persi, e mai più ritrovati, nel vuoto. L’unica colpa di questo uomo era stata quella di essersi rifiutato di vendere la propria libertà come carta straccia. Perché avrebbe dovuto pagare il prezzo di una vita trascorsa a lottare da solo contro un qualcosa che sembrava essere molto più grande di lui? Perché nel cuore di quest’uomo, Francesco, vi erano due cose di cui non poteva fare a meno: la sua famiglia e la giustizia.  E in quegli occhi, negli stessi occhi con cui aveva conosciuto il mondo, vi era ancora il riflesso, seppur consumato, di una figlia che avrebbe capito che la verità graffiava più di una lama.
No. Non poteva essere vero. Tutto ciò non poteva volare via come una piuma in balìa del vento, senza lasciare alcun segno. Eppure fu proprio quello che accadde. Certo, per un paio di settimane non si parlò altro che della sua “misteriosa” morte, ma poi tutto fu cancellato dalla memoria della gente.
Fu proprio questo a sconvolgere Giulia. Come potevano tante persone dimenticarsi così facilmente di un episodio così immorale? Tutti e nessuno erano a conoscenza che qualcosa oscurava continuamente l’unicità di Napoli.
Esattamente due anni dopo, Giulia rifletteva ancora su tutto ciò. Tante domande senza alcuna risposta. Ora basta, non poteva continuare a piangere sul latte versato, doveva fare qualcosa. Giulia si rialzò, sollevò lo sguardo e si riempì di coraggio. Gli occhi al cielo: era una bellissima giornata, non doveva sprecarla. Ma come ben si sa, il battito di una sola farfalla non poteva generare un uragano, al massimo un lieve spostamento d’aria. Nessuno sembrava importarsene. Nessuno eccetto Chiara.
Chiara era la migliore amica di Giulia, l’unica ragazza che comprendeva a fondo le sue emozioni. Aveva capelli ed occhi color castano scuro, labbra sottili ed un naso piuttosto importante. Aveva un fisico da nuotatrice: alta e slanciata, con spalle ben squadrate.
Era un’adolescente estroversa e grintosa, non si arrendeva facilmente. Aveva una straordinaria capacità di far tornare il sorriso sul volto di Giulia in ogni momento, perfino in quelli più disperati. Chiara era simpatica, con uno spiccato senso dell’umorismo, era sempre disponibile nei confronti degli amici, era la spalla ideale su cui piangere. Per questo era la migliore amica di Giulia.

Così Giulia, dopo aver cercato la forza tra le nuvole del cielo, si diresse verso la casa della sua amica. Attraversò con lo sguardo chino forse una delle più incantevoli piazze di Napoli. Poggiati all’obelisco di San Domenico, c’erano tanti, tanti saltimbanchi. Chi imitava Pulcinella, chi semplicemente voleva mostrare le proprie capacità di acrobata ma, in un modo o nell’altro tutti riuscivano comunque a far nascere un sorriso sui volti dei bambini lì presenti. C’era anche il solito gruppo di anziane che, tra chiacchiere e pettegolezzi, attendeva con ansia l’inizio di una nuova messa della chiesa di San Domenico Maggiore. Eccoli lì, tutti lì.  Ma Giulia non guardava. Era troppo impegnata ad esaminare le cartacce lasciate qui e lì da qualche ignoto personaggio. Continuò a camminare. E a riflettere. Sempre in cammino, ammalata di un’eterna nostalgia di un qualcosa che non sarebbe mai tornato. Infine, mentre cercava di trovare una cura a quella che sembrava essere un inguaribile malessere, sentì uno, anzi più rumori, a lei familiari. Le parole volavano alte nell’aria, i suoni s’innalzavano lungo le alte case intrise di storia della strada. Suoni di tamburi, di trombe e di chitarre: questa era via San Sebastiano. L’unico posto dove la musica conviveva ogni giorno con il passato di Napoli.
Tra un negozio di un uomo che riparava violini e un altro che vendeva batterie di tutti i tipi, c’era la bottega del padre di Chiara. Giulia vi si avvicinò.
 
“Giovanni, per caso c’è Chiara? Dovrei dirle una cosa..”
“Oh, ciao Giulia! Prego, accomodati. E’ di là che sta accordando il suo basso.”
Ringraziò cortesemente il padre ed entrò all’interno. Passò per la saletta principale, dove c’erano un’infinità di bassi e chitarre, e  una scrivania piena zeppa di conti in sospeso. Seduta su uno sgabello in un angolino, Chiara stava cercando di trovare un buon accordo che rispecchiasse il suo stato d’animo in quel momento.
“Ehilà! Qual buon ven... Ma che cos’hai? Sembra che hai appena visto un fantasma!” Esclamò la ragazza, poggiando con cura lo strumento nella propria custodia.
“Niente, il solito.”
“Mi dispiace, ma oggi nemmeno io sono in grado di aiutarti. Le cose qui in negozio vanno sempre peggio... ”
 
Quella moltitudine di foglietti sparpagliati sul bancone del negozio non erano semplici scontrini. Buste e lettere, le cui parole scritte non rassicuravano per niente. Volantini e messaggi, alcuni accartocciati per paura di dover rileggerne le espressioni, altri semplicemente nascosti dagli occhi dei curiosi.
 
“Se papà continuerà ad ignorare tutta quella cartaccia, dovremo chiudere l’attività. Non voglio che mio padre faccia la stessa fine del tuo.. Oh, scusami. Non volevo ricordarlo.” Si scusò Chiara, ricordandosi troppo tardi che quello era un argomento tabù.
“Non importa. Anzi, che ne dici se ce ne andiamo da qualche parte? Ero venuta qui proprio per chiacchierare un po’con te.” Le rispose Giulia, regalandole un forte abbraccio.
 
La ragazza annuì. Così decisero di passare tutta la giornata in giro per la città. Avrebbero mangiato una pizza ‘a portafoglio’ sedute su una panchina vicina a Port’Alba, prendendo in giro la marmorea statua di Dante. Avrebbero corso e scherzato come bambine a Piazza del Plebiscito. Avrebbero passeggiato lungo via Roma e avrebbero comprato qualcosa di futile. Chiara sarebbe riuscita a convincere la sua migliore amica che il posto in cui vivono non è così male, dopotutto. Il sole era già alto e c’era un’insolita aria soffocante, doveva essere sicuramente mezzogiorno.  Camminavano silenziosamente da più di mezz’ora ormai, e il sorriso sul volto delle adolescenti non era ancora tornato. In realtà quello di Chiara era un sorriso sornione. Era disposta a tutto pur di farle riacquistare fiducia in se stessa e nella sua città, perfino indossare, seppur per poco tempo, una maschera.
Erano giunte a Piazza del Plebiscito. Si sedettero sulla scalinata della basilica di San Francesco da Paola, tra una colonna e l’altra. Mentre entrambe cercavano di trovare le parole giuste con cui iniziare la conversazione, i loro occhi si posarono su un gruppo di piccioni intenti a girandolare per la piazza. Vagavano senza una meta precisa, cercavano solamente qualcosa da mangiare. Non si scoraggiavano, se qualcuno li cacciava via a suon di calci o sassate, non perdevano la speranza e, dopo un paio di minuti, ritornavano indietro. Cosa li spingeva a tornare?
 
“Perché i piccioni sono così testardi? Se io fossi un uccello in cerca di qualche mollica di pane, non ritornerei nel luogo dove altri mi hanno rifiutato..” Si chiese pensosa Giulia.
“E’ perché sono piccioni napoletani! Nessun napoletano perde la speranza, noi napoletani siamo ostinati! E’ qui che il tuo cuore crolla! Nonostante tutto, devi continuare a vedere l’altro lato della medaglia! In tutto è nascosta una bellezza, anche in Napoli!”
“Oh no, non farmi di nuovo la predica, tanto è inutile! Comunque non riesco proprio ad andare dritto, non mi va. La mia condizione è girare intorno all’infinito.”
“Leopardi paragonato a te è la persona più ottimista del mondo! Dai, scommetto una pizza che riesco a farti cambiare idea su tutto ciò! Iniziamo subito.. Guarda, basta che tu guardi anche solo questa piazza!”
 
Piazza del Plebiscito. Che cosa bisognava aggiungere alla descrizione di un luogo che rappresentava l’altruismo, la solidarietà e l’unione del popolo partenopeo? Nella grande piazza vi si mescolavano le voci delle persone; italiane e straniere, cristiane e musulmane, infantili e adulte. A nessuno importava chi tu fossi o da dove tu venissi, l’importante era restare uniti e felici. La candida basilica si prostrava agli occhi dei passanti, compiuta a ritrarre l’orgoglio e l’umiltà dei suoi fedeli. L’ampio portico colonnato sembrava essere un grande braccio pronto ad unificare tutta la gente lì presente. La gente. I partenopei e i semplici visitatori. Importava davvero sapere da dove provenivi, quando ti trovavi in una città capace di custodire e cullare, come solo una madre con il suo bambino può fare, le speranze di mille popoli diversi?
 
A tal punto, Chiara prese la mano della sua migliore amica e la strinse forte.
“Vieni” le disse “Ora devi venire con me. Ti porto in un posto speciale, il mio preferito.”
Camminarono per tutto il pomeriggio ininterrottamente. Attraversarono via Roma, passarono sotto la cupola di Galleria Umberto I con lo sguardo rivolto verso l’alto, osservando gli infiniti giochi di luce che i raggi di sole e i vetri delle finestre creavano. Passarono vicino al Teatro San Carlo. Per un solo momento, Chiara e Giulia credettero di passeggiare su un pentagramma. Il teatro, origine di questa fantasia, assomigliava ad una chiave di violino e le persone erano tante note, ognuna diversa dall’altra, ognuna con un suono differente, unico.
“Chiudi gli occhi, siamo quasi arrivate.. Eccoci. Bene, ora puoi aprirli.”
Giulia aprì i suoi grandi occhi neri e capì. Capì il motivo per cui la sua migliore amica amava quel posto.  Non aveva mai notato come le nuvole si disponevano sulla cima del Vesuvio, non aveva mai fatto caso a come le onde si increspavano sulle fondamenta del Castel Dell’Ovo, non aveva mai provato quella sensazione che stava provando ora mentre era seduta su un muricciolo di via Caracciolo. Ci stava riuscendo. Finalmente stava riuscendo a vedere la sua città con altri occhi.
“Vedi? Ora capisci perché ti ho portato qui?” Chiese Chiara, pur sapendo che non avrebbe ottenuto una ragionevole risposta.
Restarono in silenzio per qualche minuto ascoltando la voce del mare e il sussurro del vento. Il sole stava tuffandosi nel mare, e il cielo poco a poco cambiando il suo colore.
“Si, ora capisco. Ma la realtà è che siamo noi quelli che cerchiamo di andare avanti giorno per giorno, e lo facciamo cercando di non farci cambiare da niente e da nessuno, indifferenti a tutto ma attente a ogni cosa. Ho sbagliato. Dovevo semplicemente aprire gli occhi e affrontare la realtà.” Rispose la ragazza con un fil di voce, delicato ma deciso. “Ma... Si è fatto tardi. Dovremmo essere a casa da almeno due ore, ci crederanno disperse! Chiara, ti prego, inizia ad andare a casa e avverti mia mamma che resto qui ancora un po’...”
 
Chiara eseguì l’ordine impartitole senza discutere, avendo capito che l’unica cosa di cui la sua amica aveva bisogno era solo un po’ di tempo per riflettere. La salutò, fece un profondo respiro e ritornò a casa sua, tra le braccia della realtà. Un ultimo sguardo alla sua compagna di mille avventure. Era pensierosa, guardava l’orizzonte credendo di riuscire a trovare delle risposte in quella sottile linea immaginaria che separava il mare dal cielo. Niente di più.
“Sì, capirà...” Sussurrò infine, allontanandosi.
 
Cosa c’era da riflettere? Per due lunghi, lunghissimi anni aveva creduto di essere su un treno in corsa senza finestre, al buio, cosicché da non riuscire a vedere la bellezza del mondo che scorreva velocemente, come tanti scatti di varie fotografie. Cosa c’era da riflettere? Giulia era scesa da quel treno, ne stava prendendo un altro. Uno nuovo, con tante finestre, che procedeva lentamente, facendo così assaporare ai suoi passeggeri gli straordinari paesaggi che l’umanità offriva. Non c’era nulla su cui riflettere. Ogni medaglia ha due lati. Uno sicuramente non gradevole, ma ne esiste un altro, e incantevole è dir poco per definirlo.
Ancora due minuti, solo qualche minuto in più. Il mare di Napoli era davvero speciale quel giorno, trasmetteva una strana, piacevole sensazione di serenità in Giulia. Forse era il frizzante profumo dell’acqua, le costanti voci delle persone che incedevano, parlavano, inermi di fronte al mondo visto dal cuore di una ragazza.
“Bene, ora è veramente tardi. Sarà meglio tornare a casa...” Furono le uniche parole che la ragazza riuscì a dire. Un passo, un altro e un altro ancora. Doveva tornare a casa, anche se in realtà non l’aveva mai abbandonata.
 
Da quel pomeriggio, il tempo volò via velocemente e, senza nemmeno avere il tempo di accorgersene, era passato un mese. Così poco tempo, così tanti avvenimenti. Tante erano le cose che erano cambiate, nella vita di Giulia quanto in quella di Chiara.
 
Faceva piuttosto freddo, per essere un pomeriggio di Ottobre.
Chiara era appena uscita da scuola e voleva andare a casa della sua migliore amica, erano ormai due settimane che non si faceva vedere. Ma, per qualche sconosciuto istinto, decise di andare prima a salutare suo padre. Erano le cinque, quindi si trovava sicuramente in bottega. Arrivò in via San Sebastiano, suonò il campanello del negozio ed entrò. Scaraventò a terra lo zaino e si diresse verso l’interno del locale, dando come al suo solito uno sguardo al bancone della cassa. Aveva un aspetto del tutto nuovo. Erano scomparsi tutti quei fogli e volantini, non c’era nient’altro se non qualche libro, una lampada e.. Una lettera?
“Papà, sono tornata. Volevo solo farti sapere che non sono scomparsa e che tra un po’ vado da Giulia.”
“Va bene!” Esclamò il padre dalla sala attigua “A proposito, prima che me ne dimentichi... C’è una lettera sul bancone, è per te. E’ della tua amica.”
Con un’aria stupita, la ragazza aprì la lettera e iniziò a leggere.
 
“Cara, carissima e chiarissima Chiara.
Scusami se in questi giorni non ti ho chiamato, ma sono stata molto impegnata. Sai, riordinare le proprie idee è davvero un lavoraccio. Ci ho impiegato un po’ di tempo, ma alla fine ci sono riuscita.
Sai, credo di doverti una pizza... Hai vinto la scommessa! Ecco, lo ammetto: hai ragione, hai sempre avuto ragione! Credevo di aver visto di tutto, soprattutto dopo che mio padre.. Beh, è inutile scriverlo.
Volevo semplicemente ringraziarti. Di cosa? Ma di tutto, ovviamente! Mi hai insegnato ad accettare la realtà così come viene presentata e a riuscire sempre a vedere qualcosa di buono nella vita. Credevo di abitare in una città spoglia, senza valore né dignità. Invece ho scoperto di aver sempre abitato a Napoli, la vera Napoli, quella bella, quella vera.
Perdonami se questa lettera che ho scritto è breve, ma credo che sia più facile dimostrarti tutto il mio affetto di persona. A proposito, quando leggerai questa lettera saranno all’incirca le cinque del pomeriggio, quindi ti avverto che in questo momento sei in ritardo: ti sto aspettando  a Piazza Dante!
Un’ultima cosa. Sicuramente avrai notato che sul bancone di tuo padre non ci sono più “messaggi”. Poiché so che tu non leggi mai i giornali, ho il dovere di informarti che quei quattro uomini, che puntualmente ogni mese entravano in negozio, sono stati arrestati ieri sera... Non è una notizia fantastica? Ora anche tu non hai più preoccupazioni, oltre alla scuola ovviamente!
Ehi... Cosa ci fai ancora qui a leggere questa comunissima lettera? Corri, corri che ti sto aspettando! Devo pagarti una pizza!
Tua Giulia.
P.S. Ti voglio bene, davvero!”
 
Chiara piegò con cura il foglio e la ripose nello zaino, asciugò le sue lacrime di gioia e corse verso la meta stabilita. La sua migliore amica la stava aspettando. Un nuovo futuro attendeva queste due ragazze. Forse duro, forse un po’ arduo. Ma sicuramente le attendeva un futuro più sereno e felice.
Grande, piccola Napoli. Questa è la città dei sogni da realizzare. Questa è la città delle eterne contraddizioni, che regala speranze ed emozioni. Non solo a Giulia, a Chiara. A tutti.
Perfino a te.
  
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