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Autore: Jolly Camaleonte    08/05/2012    6 recensioni
John aveva un amore.
Riccioli neri.
John aveva un dolore.
Riccioli neri.

[Partecipa allo Sherlock Bang]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sarah Sawyer, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Another World.'
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Ember Boy.

Autore: [info]ginnix
Titolo: Ember boy
Personaggi/Pairing: John, Sarah, Sherlock, diversi OC
Rating: PG
Warning: What if!The Reichenbach Falls; NO SPOILER SECONDA STAGIONE, Pre-slash?
Post-slash? No slash? xD
Riassunto: 
John aveva un amore.

Riccioli neri.

John aveva un dolore.

Riccioli neri.

Note:  le trovate in fondo alla fic.

Link alla fanfic:

Gift: 

href="http://pics.livejournal.com/m_bfly/pic/0002p783">coverart di
[info]m_bfly

 

 

 

Ember boy.

 

 

 

Gli uccellini cantano.

Non ha bisogno di guardare l’orologio, sono le 4.30 del mattino.

Sono sempre le 4.30 del mattino quando gli uccellini incominciano a cinguettare, dicendosi poi chissà cosa –avranno una vita emozionante? Sogni da raccontarsi?

John, se fosse stato un uccellino, non avrebbe mai raccontato i suoi.

Neanche a Sarah, nonostante lei insista tanto –è interessata, sul serio, non per compassione o dovere.

Ma John –con una piccola, dolce, leggera increspatura sulla guancia- la bacia e sorride.

«Un’altra volta.»

 

E lui solo lascia scorrere quelle ore, lascia che gli uccelli cantino i loro sogni.

Sta lì, con una tiepida tazza di tè in mano, a fissare un punto imprecisato, imprimendosi nella mente i dettagli dell’ultimo incubo.

 

Poi tutto ricomincia a scorrere.

 

La sveglia che suona. Sarah che mugola.

La sveglia che tace. Le coperte che frusciano.

Un “John” farfugliato alla metà di letto freddo. Lui che la raggiunge.

Lui che le accarezza i capelli e le dice di farsi una doccia mentre prepara la colazione.

Lei che borbotta qualcosa tipo “sei un tesoro”, “grazie, ti amo”, “ancora una notte insonne…”, “vorrei solo che tu dormissi sereno”.

E altre cose che farebbero sentire John in colpa, perché l’ultima cosa che vuole è vederla preoccupata o infelice.

Altre cose che lo farebbero sentire ancora più in colpa, perché nella sua testa non c’è solo l’Afghanistan.

 

Sarah non lo sa.

Lui vorrebbe non saperlo.

E gli uccellini cantano.

 

Cantano di quel mondo che, a volte, vorrebbe fosse il suo.

 

 

~

 

«Allora è il tuo primo giorno qui al Bart’s, eh?»

«Sì, come lavoratore, ma ci sono già stato da studente.»

«Sembra un secolo fa, eh? Quante avventure…»

Juliet –Jul, chiamami Jul- guarda John con i ricordi e la comprensione negli occhi.

Gli sta simpatica, questa amica di Sarah.

O almeno, riesce a sopportare una camminata lungo i corridoi dell’ospedale con lei.

È già un inizio.

«Quante avventure, ma alla fine niente a confronto con quella che stai per iniziare tu, eh? Sarah è stata fortunata ad accalappiare uno come te. Vi vedo già: entrambi perfetti, entrambi in abito bianco… e ricoperti di riso! O almeno, io ho intenzione di ricoprirvi.» s’interrompe per una risatina e lui ricambia, più per cortesia che vero divertimento.

«Peccato che a questo mondo non ci siano uomini seri come te –un doppio lavoro per fare un bellissimo matrimonio, se non è amore questo!- che sposano brave ragazze come me e Sarah.» tira di nuovo il fiato e John è quasi sollevato, ha paura che collassi se continua a parlare così veloce. «Non è che hai un fratello, eh?»

E John vorrebbe che sul suo viso si formasse un sorrisino malizioso, vorrebbe –terribilmente – rispondere “No, ho solo una sorella, ma a lei non dispiacerebbe affatto divertirsi con una brava ragazza come te”.

Ovviamente le risponde in altro modo, molto più cordiale e adatto ad una nuova collega, ma non può evitare il sorrisino, prontamente nascosto da un diniego  - fin troppo vigoroso- della testa.

«Oh, peccato. Ma vabbè, siamo qui per lavorare, eh?» dice lei, con tutto il suo vigore e mostrando i denti a tutto spiano.

«Sarah ti avrà già detto tutto, eh? Ma io voglio evitare i malintesi, quindi sopportami per altri due minuti e poi ti lascio al resto della truppa. Dunque, per adesso sei in prova, farai da assistente per una settimana nel reparto di pediatria, poi vedremo. Non sarai con me. Alyson, la ragazza che è a casa per maternità, era l’assistente di Colfer e prendendo tu il suo posto, prenderai anche il suo “mentore”.»

John annuisce.

Juliet – John, per l’amor del cielo, Jul! – ha trentacinque anni sulle spalle ed è già primaria di pediatria. Una ragazza con i contro-attributi, ma gentile e disponibile, neanche troppo montata.

Ecco, forse un po’ incline ai monologhi, se le si deve trovare un difetto, ma almeno gli ha fatto passare il tempo.

«Ho capito, e lascia che ti ringrazi ancora, a nome mio e di Sarah.» risponde John, mentre si fermano davanti alla sala relax del reparto.

«E di che? Appena Sarah mi ha detto dei vostri problemi di cash per il matrimonio, mi sono messa all’opera. Ero pronta a cercare in tutto l’ospedale un posto libero, ma per fortuna una mia collega è a casa per maternità e tu hai ottime credenziali, eh?» la donna gli tira una pacca sulla schiena, dall’alto del suo metro e ottanta.

«Vedrai, qui con noi ti divertirai, in più potrai fare pratica con i bambini» gli fa l’occhiolino per poi spalancare la porta di fronte a loro.

«Ragazzi, questo è John.»

Dato in pasto a dei pediatri.

Che morte infame per un reduce di guerra.

 

 

~

 

Si pensa sempre che i rossi siano persone frizzanti, scherzose, piene di vita. Ancora di più se Irlandesi.

Cazzate.

Il dottor Colfer è un perfetto irlandese: capelli carota, occhi bosco, alto tre mele e poco più e faccia da folletto.

Peccato che sia un ghiacciolo umano, all’arancia contando il colore dei suoi capelli.

John si chiede se sia così anche con i bambini.

«Lì c’è il bagno, lì la macchinetta per le bevande, dietro a quella porta lo sgabuzzino, di là lo spogliatoio, la sala d’attesa e le camere dei pazienti. Chiaro?» domanda puntando i suoi occhi color granita alla menta su John, che annuisce velocemente, cosa che Colfer pare apprezzare –finalmente qualcuno di sveglio!

«Bene, per la prossima settimana sarai il mio camice: ti insudicerai per me. Iniziamo il giro delle visite.» detto ciò parte in quarta lasciandosi dietro un John appesantito dalle cartelle.

E il nuovo arrivato sospira mentalmente, preparandosi a una giornata piena di bambini urlanti, madri protettive e padri impazienti.

Guarda la schiena di Colfer allontanarsi e con passo pesante ma rapido lo raggiunge.

No, non è quella la vita che aveva immaginato.

 

 

~

 

Quindici pazienti dopo, circa alle due del pomeriggio – costretto a mangiarsi l’interno guancia, per la fame – il dottor Colfer gli lancia addosso il suo camice e gli dice di farsi un giro, perché lui deve andare.

«Ma aspetta! Il nostro turno finisce alle quattro.» replica John correndogli dietro, ma l’altro non si volta neanche, puntando deciso alla scala anti incendio.

«Io ho fatto la mia quota di pazienti giornaliera, ho cose più urgenti da fare» risponde apatico Colfer, spingendo il maniglione antipanico.

«In ogni caso non mi sembra etico che un medico—» s’inalbera John, fissando malamente la schiena dell’altro e sorprendendosi quando questo finalmente si volta.

«E invece ti sembrerebbe etico lasciare a casa da sola la propria moglie incinta, se il lavoro minimo è completato?»

John apre la bocca per ribattere, ma poi la chiude, non trovando un’argomentazione abbastanza forte, e sente un leggero formicolio alla bocca dello stomaco, un senso di dejà vu recondito.

«Bene» afferma l’altro, aprendo finalmente la porta. «E ricordati di piegare bene il mio camice, o si formeranno delle pieghe!» e sparisce velocemente lungo la scala antincendio.

John ferma la porta prima che si chiuda e si sporge.

«E IO FINO ALLE QUATTRO COSA FACCIO?» urla sentendosi leggermente idiota.

«QUELLO CHE TI PARE! A DOMANI!» gli risponde l’altro non curante e agitando velocemente la mano.

Così John si ritrova a gironzolare per i corridoi gremiti di visitatori, genitori e amici venuti a salutare i loro cari.

É tutto così colorato, si sentono delle risate, dei rimproveri sussurrati.

Si sente la vita che scorre in quei ragazzini, e automaticamente tutti ne risentono, persino John.

Lascia che un piccolo sorriso gli ammorbidisca le labbra e cammina lungo tutto il corridoio, gettando occhiate, cercando di capire le situazioni.

Sarah lo dice sempre che è un tipo curioso, con tanta voglia d’imparare, ma non sa quanto.

Non sa che John, ogni volta che passa davanti a Scotland Yard, si ferma e pensa di andare a fare una visita a Lestrade, solo un piccolo piccolo saluto.

Non vede i suoi pugni stringersi leggermente intorno al giornale, o i leggeri segni a matita sulla cronaca nera che spera lei noti, e che magari ci intavoli una discussione.

Non capisce.

E John neppure.

Ma la vita è la vita, si va avanti, non per forza si deve capire tutto, no?

Non tutte le persone devono sapere tutto, devono avere il controllo su tutto, devono risolvere tutto.

E quel formicolio torna a invadergli leggermente lo stomaco.

John si stropiccia lievemente gli occhi, un po’ stanco, e fa per tornare indietro –magari in mensa hanno qualcosa- ma rimane immobile.

C’è una stanza buia, con le tendine tutte tirate, alla fine del corridoio a destra.

Non ha visto nessuno dirigersi da quella parte, né la mattina né in quel momento.

Eppure qualcuno deve esserci, se no perché chiudere tutto?

John si guarda attorno.

Niente.

Guarda davanti a sé.

Qualcosa.

 

 

~

John rigira il cucchiaino nel suo tè. Senza zucchero.

Sono le sei del mattino, ha solo un'ora prima che Sarah si svegli.

Guarda il vetro della finestra, perdendosi a osservare le impronte lasciate dalle gocce di pioggia secche.

Forse è così che Lui appare.

Un’impronta.

Un'impronta nella sua vita, che prima c’è –liquida, linfa vitale- ma che poi secca, aspetta solo di essere lavata via da altra acqua, altra linfa.

La sua bocca prende una smorfia strana, dolorosa, e il cucchiaino tintinna cupamente contro la tazza.

Avrebbe rimandato –impedito- il lavaggio di vetro.

Stanno bene così.

Stanno bene così.

Sia lui, sia Andrea.

John abbassa lo sguardo e osserva il tè vorticare nella tazza ancora intoccata.

Andrea.

Andrea coi suoi riccioli neri.

Il viso si riempie di sorpresa all’udire un suono metallico – il cucchiaino! Accidenti, è caduto!

Subito lo raccoglie, di fretta, nervoso, come se avesse appena commesso un peccato, e immobile tende l’orecchio.

La paura, l’insana paura, non scivola dal suo viso finché un respiro – lento, regolare, quasi impercettibile – gli soffia nelle orecchie.

John sospira tra i denti, pregando il suo cuore di non battere tanto forte, e con un leggero tremito ad accompagnarlo, appoggia la tazza illibata nel lavello.

Il suo sguardo, come richiamato – supplicato, pregato, invocato – torna alla finestra, a quelle macchie.

E chiude gli occhi.

                                

«C’è nessuno?»

La penombra regna su quella piccola stanza, singola.

John muove lento i passi.

Non un tremito. Non un dolore.

Solo il cuore che pulsa nelle orecchie.

Cerca di scrutare in quel velo di oscurità che sembra ricoprire tutto.

La finestra chiusa da piccole tende, le sedie e il tavolo apparentemente inusati e il letto…

«Chi…» voce impastata. «Mamma…?»

Il letto come sfatto, no, il letto è sfatto.

La luce si accende di scatto e John è costretto a strizzare gli occhi per un attimo.

L’attimo prima dell’oblio.

«Ah.»

John aveva un amore.

«Lei…»

Riccioli neri.

«Lei deve essere il mio dottore.»

John aveva un dolore.

«Giusto?»

Riccioli neri.

 

BIIIIIIP

«Dottore?»

Salve a tutti qui è radio Liverpool!

«Devo… devo aver sbagliato stanza, perdonami.»

Buongiorno a tutti i nostri ascoltatori.

Scappa. Scappa.

Grazie di averci seguito fin ora, sono le sette in punto.

È tardi. È tardi.

E a quelli ancora a letto: pigroni, alzatevi!

Non si torna indietro.

«John, dove…?»

 

Non più.

 

 

~

Colfer lo sta trapanando con un solo sguardo.

John torna indietro a recuperare la cartella che gli è appena scivolata, cercando di non far cadere anche le altre mille che ha tra le braccia.

«Watson, muovi quelle gambe! Siamo solo al quinto paziente e oggi devo andare via prima per portare Alyson dal ginecologo.» dice il medico, prima di voltarsi e ignorarlo completamente.

John gli corre appresso, aumentando il passo. Non dice niente, non dice praticamente niente la maggior parte del tempo. Diretto e professionale.

Colfer lo apprezza. Non è da tutti.

«Eccomi, questa è la cartella del prossimo paziente: Andrea Armstrong, stanza 6.» risponde John, ignaro, aprendo la cartella e in contemporanea camminando rapido.

«Anamnesi?»

«Nessuna, non era mai stato all'ospedale prima.»

«Cosa sappiamo su di lui?» domanda l’irlandese, fermandosi.

John, così concentrato a leggere, quasi gli sbatte contro.

«Ha tredici anni, è stato portato qui dalla madre la notte scorsa perché accusava forti dolori addominali e presentava una tumefazione linfonodale, e il battito accelerato.»

«Mh, bene, andiamo.» sentenzia per poi spalancare la porta.

Lo sguardo di John viene attratto verso il piccolo letto davanti a loro, c’è un ragazzino seduto sopra.

Magro, il viso leggermente corrucciato, un’immensa massa di capelli ricci.

John rimane paralizzato, e lo fissa.

Non può fare a meno di fissarlo.

Quei riccioli. Quei riccioli neri.

«Ciao Andrea, io sono il dottor Eoin Colfer e lui è il dottor John Watson, siamo venuti per sapere come ti senti oggi.» esordisce sorridendo l’irlandese, mentre si avvicina al letto.

«Stanco, ma sto meglio» gli risponde Andrea, ma senza prestarci attenzione, troppo occupato a osservare John, leggermente perplesso «Scusi, ma lei è…»

E John boccheggia a quelle parole, allo sguardo dubbioso di Colfer.

«Ah sì, scusa l’intrusione di ieri» tossisce un po’ nervoso, «avevo sbagliato stanza, non era mia intenzione disturbarti.»

«No, no! Si figuri, tanto ero sveglio…» replica frettolosamente il bambino, distogliendo lo sguardo.

Colfer, sempre perplesso e un po’ irritato, riprende le redini, anche se l’anomalo nervosismo di Watson non gli è affatto sfuggito, sono in un ospedale, non hanno tempo da perdere.

«Bene, finiti i convenevoli, abbiamo qualche domanda per te, Andrea, te la senti?» gli chiede gentilmente, sedendosi accanto a lui sul letto.

«Va bene tutto, basta che possa tornare a casa presto.» risponde il bambino, abbassando lo sguardo, triste.

Colfer gli sorride.

«Stanne certo, io e il dottor Watson siamo i migliori del reparto, neanche ad accorgertene e sarai a casa.» dice entusiasta, voltandosi verso il collega che, come uno stoccafisso, è rimasto immobile al fianco della porta. «Vero, Watson?»

John, per la seconda volta in pochi minuti, trasale e si palesa con un «Eh? Ah, sì sì!» di indubbia intelligenza.

Andrea ridacchia e ora stira le labbra.

«D’accordo, chiedete pure.» afferma deciso, guardandoli dritti negli occhi.

Colfer non si fa sfuggire l’occasione e parte alla carica, mentre John non si perde un movimento, uno singolo, del bambino.

«Quando hai incominciato a star male?»

«Poco dopo essere sceso dall’aereo, la mamma infatti pensava che fosse il fuso.»

«Come mai eri su un aereo?»

«Tornavo dalla vacanza con mio padre, in America. I miei sono separati.»

E John vede gli occhi di Andrea abbassarsi leggermente, e si trova a sospirare, perché lo sa benissimo, anche se non lo vede, cosa c’è in quello sguardo. Esperienza personale.

E John vede già nella bocca di Colfer quelle parole di finto conforto, finta empatia, che ti rifilano ogni volta che la cosa viene a galla, che sortiscono l’effetto contrario a quello desiderato, facendoti sentire ancora più giù, ancora più solo.

E John non le aveva mai sopportate, e scommette neanche Andrea, così  fa un passo avanti.

«Cosa avete fatto di bello tu e tuo padre?» domanda diretto, solo per cambiare argomento, solo per evitare di parlare inutilmente di quello.

«Abbiamo fatto campeggio, un campeggio fai da te, mio padre odia quei villaggi turistici tutti costruiti.» risponde il bambino, alzando lo sguardo su di lui, perplesso da quella domanda, e vede gli occhi di John spalancarsi appena.

«E avete dormito all’aperto?» ribatte immediatamente, quasi con fretta.

«Sì, nel bosco.» annuisce Andrea, ancora più confuso dalle occhiate che ora i dottori si stanno scambiando.

«E ti ricordi dove precisamente?» chiede Colfer e lui balbetta, osservando come le sopracciglia del medico si siano aggrottate e il suo viso abbia perso la gentilezza nei tratti.

«Nel… nel Midwest, ma non mi viene in mente il nome…» cerca di spiegare, agitato.

Colfer subito gli poggia una mano sul braccio e glielo stringe rassicurante.

«Non ti preoccupare, Andrea, chiederemo a tua madre. Ora riposati un attimo, io e il dottor Watson dobbiamo un attimo parlare di una cosa, poi torniamo subito da te.» dice, puntando lo sguardo su John e facendogli segno di uscire.

La porta non fa in tempo a chiudersi che Colfer gli è addosso.

«Che ne pensi?»

John si umetta le labbra e si appoggia leggermente al muro, lasciando che la tensione scorra via.

«I sintomi, il Midwest e ciò che ci ha raccontato fanno pensare a un’ipotetica malattia di Lyme.»

Colfer annuisce, soddisfatto del suo collega.

«Concordo con te, è l’unica soluzione che mi venga in mente, ora dobbiamo solo averne la conferma trovando la puntura di zecca.»

In un attimo, Colfer si trasforma di nuovo e, sfoderando un magnifico sorriso, spalanca la porta.

«Andrea, sei fortunatissimo! Io e il dottor Watson siamo stati così bravi che sappiamo già cos’è che ti fa star male e potremmo rispedirti a casa in men che non si dica!»

Andrea sobbalza leggermente sul letto, preso alla sprovvista.

«Davvero? E cos’ho?»

«Oh, niente di grave, piccolo, semplicemente sei stato punto da una zecca probabilmente mentre eri in campeggio con tuo padre.» gli risponde calmo Colfer.

«Ah… e la cura è dolorosa?» domanda, con una nota stonata nella voce.

«No, non ti preoccupare, ma adesso aspettiamo che arrivi tua madre, così spieghiamo tutto anche a lei. D’accordo?» cerca di rassicurarlo Colfer ma inutilmente.

Andrea si morde le labbra e scosta lo sguardo.

«D’accordo…»

John lo osserva, cercando di capire quale sia il problema, perché ha già visto quella occhiata che sembra indifferente, ma in verità è piena di mille pensieri, la maggior parte delle volte spiacevoli.

Colfer non sembra farci caso, ed esce immediatamente per andare a chiamare uno specializzando che si occupi di cercare la puntura a occhio di bue che confermerebbe le loro teorie, cosicché loro possano proseguire il giro visite.

John invece rimane lì, aspetta con Andrea.

Non riesce a muoversi, cerca di estraniarsi dalla situazione, di non pensare a quanto siano simili –identici – quei capelli, a quanto il viso corrucciato di quel ragazzino gli ricordi ben altre espressioni.

È rigido, immobile, cerca di distrarsi, di trovare differenze, finché non sente chiamare il proprio nome.

E finalmente John li nota.

Gli occhi, gli occhi non sono di ghiaccio.

Bosco.

«Dottor Watson?»

John, ormai rassegnato, fa l’ennesima figura da allocco.

«Eh? Sì, Andrea, dimmi pure.»

Il bambino lo guarda tentennante, umettandosi le labbra.

«Volevo chiedere se… se è possibile usare un computer qui.»

John aggrotta le sopracciglia e si avvicina al letto.

«Un computer? Bhe, certo, dimmi dove ce l’hai e te lo prendo.»

«Non ce n’è uno dell’ospedale che possa usare?» domanda il bambino.

«Temo di no.» risponde il medico, fissandolo in cerca di una risposta alle mille domande che ha intesta.

«Ah, capisco…»

E John invece non capisce, non capisce il suo sguardo triste, il modo in cui la testa s’inclina leggermente verso la finestra e i suoi riccioli neri sembrino più pesanti.

Si porta una mano tra i capelli e li stringe leggermente, cercando una soluzione.

«È molto importante? Magari potremmo chiedere a tua mamma se—»

«No! No, lei no!» scatta Andrea.

Resosi conto di aver quasi urlato, subito si acqueta e abbassa lo sguardo.

Ma i suoi occhi non possono non fuggire verso l’alto quando sente il materasso scricchiolare.

«Non glielo dirò.»

Gli occhi di John sembrano così solidi, ma al tempo stesso attraversati da una crepa così grande…

Andrea lo guarda stupito, incredulo.

Impaurito.

«Ricordi? Sono un medico, sei protetto dal segreto professionale, io non posso dire niente a tua mamma a meno che tu non lo voglia.»

E Andrea non può fare a meno di raccontare.

Raccontare come il computer gli servirebbe per video chiamare suo padre in America, come sua mamma sia così arrabbiata per il divorzio da impedirgli di chiamarlo, come invece Andrea voglia e debba assolutamente farlo.

Gli racconta della promessa a suo padre, di come abbia giurato che appena sceso dall’aereo l’avrebbe chiamato per dirgli che era andato tutto bene.

Gli racconta di come ormai siano passati due giorni, di come sua madre rifiuti anche solo di sentire la voce di suo papà, di come lei sicuramente non lo chiamerà mai.

Gli racconta di come odi aver rotto la promessa, di come odi farlo preoccupare.

E Andrea si prende una ciocca tra i capelli, descrivendo con le dita la curva morbida dei ricci, e respira – piano.

Gli racconta che sua mamma amava passargli le dita tra i capelli, torcerli, tirarli, ridere affondandoci il naso.

Gli racconta che sono l’unica cosa per cui assomiglia a suo papà.

E Andrea sospira, non sa bene cosa sia successo tra i suoi genitori, ma ora sua madre non glieli tocca neanche più, i capelli.

E lui non chiede niente, non insiste.

Non vuole farla soffrire, ma gli manca suo padre ora che si è trasferito in America per lavoro. Sua mamma non vuole che abbiano troppi contatti, lo considera un cattivo esempio, ma qualche breve vacanza non gli basta.

E Andrea non sa se ridere o piangere quando, alla fine, gli racconta che ora l’unico reale legame che ha con lui sono quei capelli un po’ gonfi e assurdamente ricci.

E John.

John gli direbbe che lo capisce, che lo fa davvero.

John glielo direbbe, se le sue braccia non fossero state occupate a stringere un altro busto magro, se la sua bocca non fosse stata soffocata tra altri boccoli color notte.

 

 

~

«Cosa significa che non c’è niente?»

«Significa che non ho trovato nessuna puntura ad occhio di bue o qualsiasi cosa di vagamente somigliante, mi dispiace.»

«Non è possibile, questa è sicuramente la malattia di Lyme, sia io che il dottor Colfer—»

«Mi dispiace, ma non posso farci niente, dottor Watson, se non c’è non c’è.»

«Bhe, adesso vedremo se ha guardato bene, vado a chiamare il dottor Colfer!»

«Guardi che è già andato a casa.»

John alza gli occhi al cielo, cercando di trattenere le parole poco gentili che gli raschiano la gola.

Non è possibile. Non Andrea.

Ora come faranno?

«Dottor Watson, ma perché si agita così tanto? È solo una diagnosi sbagliata.»

John sospira – breve, stanco – e guarda la specializzanda.

«I sintomi del paziente si sono attenuati, se non abbiamo una diagnosi l’assicurazione non pagherà e quindi…» John scuote la testa, scacciando quell’idea, e deciso inizia a camminare, lasciando l’altra lì impalata.

«No, Andrea non sarà dimesso.»

 

 

~

John non incomincia a ripensarci proprio quando l’ennesimo taxi gli passa davanti ignorandolo.

Va bene che sbattere la testa contro i libri di medicina finché la soluzione non gli si mostra, non è la cosa migliore da fare, però abbandonare così il lavoro per tornare a casa a prendere il computer…

D’altro canto, Andrea deve fare quella telefonata, Andrea merita di avere l’affetto di entrambi i suoi genitori, ora.

Però se sua madre proprio non vuole forse un motivo—

«TAXI!» urla improvvisamente, appena vede l’inconfondibile vettura nera all’orizzonte e questo, incredibilmente si ferma.

John sapeva che il ventunesimo era quello giusto, quello che non sapeva era che sopra ci fosse Juliet.

«Ah, John! Hai già finito il tuo turno? Che fortunato, io devo fare la notte invece, dopotutto non cambia niente se sono la primaria del reparto, dobbiamo lavorare tutti allo stesso modo e con efficienza, anche se la notte non penso piaccia a nessuno, visto che il giorno dopo si è come degli zombi se non peggio, e di certo a nessuno piace essere—»

John teme di essere finito, ma una voce dall’interno della macchina lo salva.

«Juliet, datti tregua!»

L’uomo che aveva parlato è il guidatore, che ora sghignazza all’occhiata truce della ragazza.

«La tua simpatia non ha confini, Gideon.» replica lei annoiata.

«Lo so, è per questo che mi ami.» le risponde l’altro, vantandosi.

«Non è amore ma sopportazione, fratellone mio adorato.» lo punzecchia lei acida.

«Fratello?» chiede perplesso John.

Solo in quel momento i due paiono tornare coscienti della presenza del medico.

«Ahimè sì, ho una piaga logorroica come sorella.» conferma Gideon con aria fintamente martire.

«E io un taxista impiccione ed egocentrico come fratello.» ribatte Juliet, per non essere da meno.

«Capisco…» dice John piano «e starei volentieri qui a chiacchierare con voi, ma ho una cosa urgente da fare a casa e quindi dovrei…» ma non lo fanno neanche concludere.

«Ti serve un passaggio?» gli domanda Gideon.

E quando John risponde di sì e sale sulla macchina, non può neanche immaginare cosa comporterà nella sua vita quel viaggio.

 

 

~

Incrocio.

«Allora, chi è?»

«Chi è chi

«La persona che ti fa diventare così.»

John distoglie lo sguardo per un attimo, fin troppo consapevole.

«Così come?»

«Lo sai. Riconosco subito quelli come te.»

«Ah, sì? E come sono “quelli come me?» replica cercando di scherzare, finendo a sbuffare isterico.

«Con una brace nel petto.»

Gideon si volta brevemente, e i suoi occhi grigi – come la nebbia più fitta di Londra – fissano le labbra incollate di John, e poi tornano sulla strada, lontani.

«Una brace che muore piano al centro dell’anima.»

Semaforo rosso, la nebbia torna a circondarlo.

«Lo so bene, perché bruciava anche in me.»

«L’hai spenta?»

Verde. Velocità. Cielo pulito.

«Ho dovuto. Volevo. O forse è stata una coincidenza. In ogni caso le opzioni erano poche.» gli getta un occhiata veloce «Sai bene quanto è difficile vivere con tutto quello addosso.»

John accenna col capo, anche se l’altro non può vederlo. Sembra che la lana dei suoi maglioni gli sia arrivata in gola, stringendo e soffocando.

Troppo caldo.

«Ero come in un limbo, un limbo di nulla, e mi imposi di cercare una soluzione, almeno una. Ovviamente ne trovai miliardi, ma non volevo accettarne nessuna.» Gideon si ferma, prende fiato, piano. Il fuoco brucia l’ossigeno, rapido.

«Potevo lasciare che la brace si spegnesse lentamente, trasformando tutto ciò che era in cenere – tanta, morbida, tiepida cenere – che mi sarebbe scivolata tra le mani, lasciando semplicemente l’alone di qualcosa che non sarebbe mai stato.

Potevo soffocare la brace, toglierle ogni molecola di ossigeno, e aspettare un’intera vita in apnea, lasciando che tutto dentro di me morisse. Marcire dall’interno.

Potevo lasciarmi bruciare, soffiare su quelle braci fino a sentire il fuoco nei polmoni. Fomentarle e lasciare che la fiamma tornasse alla vita – forte, impetuosa, indomabile. Bruciare così tanto da perdere identità…»

Gideon tace e Londra indisturbata torna la colonna sonora principale di quel viaggio.

John si sente impacciato, rigido, abbattuto, terribilmente pieno.

Per un attimo pensa persino di udire uno scoppiettio di brace, ma niente.

È solo la sua testa, solo la sua fottutissima testa.

Quella che gli fa tremare la mano.

Quella che lo fa zoppicare.

Quella che lo fa parlare con i suoi commilitoni afghani defunti.

Quella che ogni notte gli ripropone l’incubo che vorrebbe fosse realtà.

E che ora gli stringe lo stomaco, gli preme al centro del petto, e gli ordina di soffiare costantemente sulle braci – per prima, unica, importantissima cosa.

«L’importante è uscirne.»

John si porta le mani allo stomaco, cercando di arginare quelle fiamme immaginarie.

«Non esiste un metodo universale, certo è—»

Una musica forte, dirompente, quasi rabbiosa irrompe tra loro.

Gideon sobbalza leggermente.

«Scusami un attimo» dice per poi cliccare un pulsante sul cruscotto. «Ciao, Matt, sono—»

«Sei in terribile ritardo, ecco cosa sei, e non so se te lo perdonerò! Avevi detto che non mi avresti fatto fare tutto il lavoro sporco da solo.» una voce calda, maschile e vagamente irritata si espande per tutta la macchina.

John vede il viso di Gideon distendersi appena sotto un leggero sorriso e i suoi occhi grigi non gli erano mai parsi così scuri, caldi, sereni.

«Scegliere i fiori deve richiedere una grande forza di spirito.» risponde con una vena di divertimento nella voce.

«Zitto, va. Appena hanno saputo del matrimonio, le commesse sono impazzite e mi hanno tempestato di domande su di noi.» dice lamentoso quello che Gideon aveva chiamato Matt.

Una risata riempie l’aria e John vede che l’altro non è affatto preoccupato, anzi sembrava entrato in una sorta di galleggiante universo parallelo, quasi si fosse dimenticato di lui che, invece, incominciava a capire.

«Non voglio sapere.»

«A quanto pare loro sì, visto che si rifiutavano di lasciarmi andare o di lavorare se prima non avessero saputo in quale posizione preferisci prendermi o quante volte—»

«Matt, no.» lo ferma Gideon, più che leggermente imbarazzato, senza avere il coraggio di guardare la persona affianco a lui.

«No cosa?» risponde Matt giustamente perplesso.

«No, non dirlo, sei in vivavoce.»

Il silenzio cala nell’auto e John sorride internamente, dimentico delle sensazioni precedenti.

«Ah…» si sente un colpo di tosse, «e chi sta ascoltando? Se è Jul non ti preoccupare, lei queste cose le sa già.»

Gideon aggrotta le sopracciglia.

«Perché mia sorella sa certe cose? Non sono adatte alla sua età.»

Uno sbuffo carico riempie le orecchie di John.

«Uno, non hai risposto alla mia domanda; due, tua sorella non ha più dieci anni, rassegnati.» lo informa Matt con un’intonazione da maestrino delle elementari davanti agli allievi più recidivi.

Gideon scuote la testa e lanciò a John un’occhiata d’intesa.

«Ah, ecco cosa succede a sposare un matematico: elenchi numerati in continuazione.» dice e subito in risposta arriva qualcosa molto simile a un “gne gne gne”.

«Comunque» prosegue l’autista, «qui in macchina con me c’è John.» lancia un'occhiata al sedile affianco,  «John, questo è Matt, la persona di cui stavo per parlarti prima.»

John di scatto si allunga verso il cruscotto, risvegliandosi da quella semi paralisi che l’aveva colpito.

«Salve, molto piacere.» risponde quasi meccanico, guadagnandosi il tono caloroso e comprensivo di Matt.

«Piacere mio, John. Sii meno formale e dimmi cosa stava dicendo quell’essere ignobile di fianco a te.»

Matt sembrava essere maledettamente serio e minaccioso, ma Gideon ride spensierato.

«Gli raccontavo di quando mi hai spezzato il mio povero, piccolo cuore!» dice esageratamente tragico, senza riuscire a trattenere un sorriso.

«Cosa?! Non credergli, è stato lui a spezzarlo a me! È un essere subdolo, guarda come mi ha ridotto: sull’altare!, a tenere a bada fioraie in crisi ormonale! Fuggi finché puoi.»

John sorride di tutto cuore e risponde con uno sbuffo divertito, ricambiando l’occhiata fintamente esasperata di Gideon, che improvvisamente pare ricordare qualcosa.

«A proposito, sono in ritardo perché sto accompagnando John a casa, deve prendere una cosa per un paziente.»

«Ah! Ma sei per caso quel John collega di Juliet che sta per sposarsi?» chiede Matt con allegria, Gideon invece si adombra.

«Per sposarsi?» ripete cupo, girandosi a guardare fisso il diretto interessato.

John si umetta le labbra, non capendo neanche il perchè della propria agitazione.

«Bhe…»  s’interrompe e deglutisce, tutto sotto lo sguardo serio dell’altro, poi distoglie gli occhi.

Gideon, gravemente, fissa i suoi sulla strada.

«Amore.» fa appena in tempo a dire che un suono di disapprovazione riempie la macchina.

«No, non dirlo. Quando lo dici mi devi sempre dare una notizia che mi farà incazzare profondamente.»

«Mi conosci troppo bene, infatti mi sa che non arriverò in tempo.»

«Cosa?! Lurido—» Gideon, senza aspettare, interrompe la chiamata per poi fermare a lato della strada la macchina.

«John» lo chiama e quando questi si volta, trova quella fitta nebbia a circondarlo.

«Cosa?» chiede velocemente, stanco.

«Non farlo.»

John spalanca la bocca, stupito, ma Gideon è serio.

«Non rovinare due vite.»

E John sa che è sincero, sa che sta parlando con in cuore in mano eppure… eppure non riesce a credergli, non vuole.

«La farò felice.» replica testardo.

«Non è vero.»

Il vaso trabocca.

Troppe verità per mesi di bugie.

«Come fai a dirlo? Tu non mi conosci!»

La rabbia nella gola.

«È vero, ma so – credimi, lo so – come ti senti. Tu non la ami.»

Gli occhi aperti con forza.

Il mondo vero brucia.

«Ti stai sbagliando. Io la amo.»

Il filo della collera che esce dalla tua bocca.

«Può darsi, ma non come dovresti. Così la priverai solo della felicità totale che le spetta e—»

Tutto ritorna a galla.

La morte che serpeggia tra i ricordi.

«Fottiti.»

Sussurra e basta, poi apre la portiera ed esce – il passo deciso.

«John!»

Gideon grida, scendendo velocemente e inseguendolo.

John ha la testa bassa, i pugni stretti – fremono, tutto il corpo freme.

Voglia di rabbia. Adrenalina. Correre. Sputare. Gridare.

«Non farlo, sai che è sbagliato! Solo perché tu hai perso la tua luce, non devi toglierla anche a lei!»

Destro, sinistro. Destro, sinistro. Deciso.

«Se n’è andato, vero? Se n’è andato e tu non hai capito, non sei riuscito a evitarlo.»

Ho detto deciso. Fottuta gamba.

«Hai mai urlato? Hai mai urlato fino a lederti la gola da quando se n’è andato?»

Stupido me.

«Sei mai riuscito a piangere? Sei mai riuscito a produrre qualcosa in più di qualche lacrima e singhiozzo strozzato da quando l’hai visto andarsene senza poter fare nulla?»

Stupido me per aver creduto in un deficiente, borioso, stupido te.

«Ti ha mai abbandonato quella sensazione allo stomaco? Ti ha mai abbandonato da quando la sua presenza è sparita dalla tua vita?»

Le chiavi vanno nella serratura. Fottuta mano.

«L’hai mai accettato? Hai mai accettato veramente che—»

Le chiavi cadono.

E il rumore è così forte da provocare un terremoto.

Interno.

«È morto! Lui è morto! Che cazzo c’è da accettare?» si volta di scatto.

Le fiamme negli occhi. Un fulmine nel cuore.

Il silenzio nell’aria.

«Ecco, era questo che volevo sentire.»

Apre la porta e la sbatte, insieme al suo cuore.

Ed è così potente che soffoca l’odore dello Speedy accanto, elimina il luccichio dei tre numeri che affiancano il portone.

C’è solo il tempo di aggrapparsi al muro.

Al muro che per diciotto mesi ha significato casa.

 

~

 

Ed è lì.

Appoggiato al muro.

La carta da parati così particolare, un po’ kitsch ma terribilmente familiare, sembra quasi avvolgerlo.

Gli ricorda di un'altra volta, un'altra vita.

Quando era lì, con il fiatone, gli occhi pieni di divertimento, le labbra piene di risate e si appoggiava.

Si appoggiava, si aggrappava dal muro, come se la potenza delle sue – delle loro, proprio loro – risate potesse trascinarlo in aria.

E ora si appoggia, si aggrappa al muro, si fa sostenere come se la forza delle sue – solo sue –  lacrime potesse schiacciarlo a terra.

Ma no, John non piange.

Non può, non ne ha diritto, non ne ha ragione.

Si raddrizza – piano, cauto – e sale le scale.

Ha gli occhi bassi, a guardare i graffi inflitti dalle migliaia di scarpe che hanno corso su quei gradini.

Ha le orecchie attente, a godersi ogni minimo cigolio provocato da dei passi che sembrano appartenere a un’altra vita.

Ha la mente aperta, spalancata, pronta a ogni evenienza, ogni imprevisto, ogni stranezza.

Ma niente.

Tutto è incredibilmente falso, artificiale e così poco… casa.

Stringe le labbra e ingoia un sospiro, per poi aprire la porta.

Ogni cosa è esattamente come l’aveva lasciata.

L’archetto accanto alla poltrona, la provetta in bilico sul tavolo, il cuscino spiegazzato.

La luce entra piano dalla finestra, preoccupata di disturbare, accarezzando la vestaglia di quel blu tanto particolare che giace a terra, tutta stropicciata.

Ma niente.

John non ci riesce, proprio non ce la fa.

Come può essere quella casa sua?

Come può considerare quell’ombra – quel fantasma, quel riflesso – ciò che è stato il palco dei diciotto mesi più vivi della sua vita?

No, si dice John avviandosi verso la camera non sua, questo non è la vera realtà.

Perché la realtà, quella autentica e inconfutabile, la vede ogni notte, da quando chiude gli occhi fino alle quattro e mezzo di mattina.

E gli occhi sono saldi su quelle immagini, sul paragone che non può fare a meno di compiere.

Ma niente.

Entra semplicemente in quella stanza, prende il computer pieno di polvere ed esce.

Esce, scende le scale e si chiude la porta alle spalle.

Una normale porta di un normale palazzo di una normale via.

 

 

~

John non si accorge neanche che i gradini dell’ospedale sotto i suoi piedi sono finiti, e la sua testa è così distante dalla realtà che neanche si ricorda come ci è arrivato.

«Watson, alla buon ora! Bene che hai portato il portatile.»

John si volta incredulo.

«Colfer?»

«Non perderti in domande inutili e vieni a darmi una mano.» dice l’irlandese per poi girarsi e incominciare a camminare velocemente per i corridoi come suo solito.

«Ma che ci fai qui? Tua moglie?» gli chiede l’altro, raggiungendolo rapidamente.

«Mia moglie sta bene, al contrario di quel ragazzino che, se non facciamo qualcosa, domani sarà dimesso.»

E per un attimo John sbatte gli occhi, stupito, guardandolo.

«Bhe, cosa credevi? Che fossi un mostro senza cuore? Se così fosse, non ce l’avrei mai fatta in questo reparto, i bambini queste cose le sentono.» ribatte acido, ma forse non così tanto, visto il sorriso sghembo che gli delinea le labbra.

E niente più.

Il resto del tempo, della notte, lo passano tra i libri e il computer di John nella sala relax finché anche il mondo non crolla addormentato.

 

 

~

 

Le parole scivolavano come la pioggia.

Incessante, lontana, inutile, ma necessaria.

Come era necessario parlare a un funerale.

«Certo, e dopo il morto si alza, ti tira una pacca sulla spalla dicendo “bella orazione, amico!”»

 

Le gocce scivolavano sul vetro che proteggeva la cappella e la stessa cosa facevano le parole del prete che cadevano nelle orecchie di John per poi allo stesso, identico modo scivolare senza intaccare il suo respiro cadenzato, il battito regolare e lo stomaco chiuso.

Vuoto di tutto, tranne che di acqua e sale.

Miscela comunemente chiamata lacrime.

Lacrime che non aveva versato.

Non poteva.

Ma voleva.

 

E non riusciva a staccare gli occhi.

Non riusciva a staccare gli occhi dalla bara di fronte a sé.

Non riusciva a togliersela dalla testa.

Non riusciva a non pensare che quello non era Sherlock.

Era solo legno lavorato.

Vuoto.

Niente a che vedere con la sua parlantina a mitragliatrice, che lo stordiva e lo incantava sempre.

Niente a che vedere con la sua boriosa espressione, che lo faceva sospirare e sorridere.

Niente a che vedere con quella cascata di riccioli neri, in cui una volta aveva incastrato la spazzola.

Niente, assolutamente niente a che vedere con quegli occhi vivi, che si coloravano quando meno te lo aspettavi.

No, quella cosa non era Sherlock.

Ma John non riusciva a togliersela dalla testa.

«Concime. Il mio meraviglioso cervello concime per qualche stupida pianta. Perfetto.»

E finalmente riuscì a distogliere lo sguardo.

Lo aveva sentito.

Ancora una volta.

Sapeva che non era possibile, normale.

Ma quando mai con Sherlock le cose lo erano?

E sentì l’impulso di andare, scoperchiare quella tomba vuota e correre via.

«Sicuramente sarebbe un passo avanti rispetto al restare qui a ciondolare senza scopo.»

Non poteva.

Ma voleva.

 

E non riusciva a toglierselo dalla mente.

Senza alcuno sforzo, se lo immaginava.

Se lo immaginava seduto in qualche punto strategico a osservarli, ad insultarli e a sorridere di quei poveri pazzi, distrutti per una tomba vuota.

Avrebbe goduto nel vedere suo fratello in piedi, ritto e attivo.

Avrebbe storto le labbra davanti alle futili lacrime della signora Hudson.

Avrebbe sbuffato vedendo Anderson e Donovan, compatendo ironicamente Lestrade per la perdita del suo asso nella manica.

E poi sarebbe arrivato alla prima fila a destra.

John.

John solo, senza Sarah.

L’aveva pregata di non venire e lei aveva promesso di aspettarlo a casa – se così la si poteva chiamare.

Cosa avrebbe detto Sherlock di quel John, solo, con una giacca leggermente logorata sui gomiti e senza maglione?

Forse l’avrebbe rimproverato per essersi unito a quella pagliacciata.

O forse sarebbe stato zitto.

In un piccolo grazie mai pronunciato.

Non necessario, ma importante.

E John desiderava entrare lui stesso nella bara, per renderla meno vuota.

Non poteva.

Ma voleva.

 

E la pioggia cadeva.

Le gocce scivolavano.

Le parole scivolavano.

E Sherlock se n’era andato.

Se n’era andato senza di lui.

E ora l’unica cosa che gli rimaneva era uno stupido, ultimo messaggio.

 

Non potevo

Ma volevo, John.

 

 

~

 

John apre gli occhi.

Gli uccellini stanno cantando, lui ha ancora il rumore della pioggia nelle orecchie.

Colfer dorme con un tomo in mano e John trova il primo sorriso del giorno.

Sta per ricominciare a “sbattere la testa” sui libri di medicina, un po’ per esorcizzare i pensieri che gli si agitano per la testa, un po’ perché non può arrendersi – non questa volta.

«John?» sente sussurrare e alza la testa verso la porta.

«Juliet, ciao.»

Lei sorride e non dice niente, e John la ringrazia dal profondo del suo cuore.

Tra il sogno di quella notte, le parole di Gideon e il problema di Andrea, non ce l’avrebbe fatta a reggere il marasma di parole, non alle 4:30 di quella mattina.

Il silenzio che si crea, interrotto solo dalle pagine sfogliate e dai passi di Juliet, è quasi confortante, se non pensa ai minuti che corrono veloci e alla pioggia che continua lentamente a battergli nella testa.

«Maledizione!» sente sibilare e alza la testa.

Juliet è davanti alla macchina del caffè, ai suoi piedi un lago di chicchi macinati.

«E adesso come faccio a pulire? Con ‘sta moquette pelosa è impossibile anche solo passare l’aspirapolvere e pensare di tirar su qualcosa!»

John non può fare a meno di sbuffare divertito e scuotere la testa.

Quella ragazza…

«Tu ridi ma chissà chi altro ha fatto cadere della roba lì dentro… probabilmente c’è una colonia antropomorfa nascosta tra un gatto di polvere e l’altro.»

«Mini alligatori?» la canzona John – preso dal gioco, perso dalla pioggia.

«Ehi, non prendermi in giro, sai benissimo che in ogni leggenda c’è un pizzico di verità! Guarda, mi piacerebbe prendere un rasoio e togliere tutto questo pelo… chissà cosa nasconde sotto!»

E John non sa spiegare né come, né perché, ma capisce.

«John?»

Capisce e corre.

 

Radere.

Perché la specializzanda ha cercato ovunque, tranne in un punto.

Radere quei riccioli.

 

 

~

 

«No.»

«Andrea, guarda che—»

«Ho detto no!»

John sospira grattandosi la testa e fa segno alla specializzanda munita di rasoio di uscire.

L’altro non lo guarda neanche, le braccia incrociate strette, le sopracciglia aggrottate e un ricciolo che gli accarezza le tempie.

John non può fare a meno di sorridere amaro.

«Andrea, non farà male e non sarà niente di permanente. Per favore, è importante, se il chirurgo non vede la puntura non può operarti e tu non puoi stare meglio.»

Ma Andrea stringe solo più forte le braccia mentre le labbra gli tremano.

«Non voglio che mi taglino i miei ricci, non avrò più niente di papà, non sembrerò suo figlio, non avrò più niente di lui…»

E John non sa cosa fare perché lo capisce. Lo capisce terribilmente bene.

Come si può decidere di recidere un legame? Con quale coscienza, con quale metro di giudizio?

Non gli resta che umettarsi le labbra, sedersi affianco a lui, prendere un unico respiro e raccontargli tutto.

Raccontargli di quanto sia difficile tagliare col passato, soprattutto se questo è strettamente aggrappato al presente.

Raccontare di quanto però, a volte, sia indispensabile tagliare un vecchio filo per evitare che quelli nuovi si sfaldino.

Raccontargli di quanto in verità sia impossibile tagliare veramente col passato, che comunque rimarrà in te, che comunque i capelli ricresceranno e che comunque quel filo rimarrà per sempre parte di lui.

Andrea trattiene le lacrime e lo guarda, dritto negli occhi.

John non ha bisogno d’altro.

Ha già chiamato la specializzanda e sta per lasciare la stanza quando sente chiamarsi.

«Dottore!»

E John si volta verso Andrea, un po’ sorpreso, un po’ curioso, un po’ al limite.

L’altro, senza più lacrime negli occhi, senza più tensioni nel viso, gli sorride.

Ed è solo un attimo.

Solo un attimo in cui tutto si fa più chiaro.

 

Solo un attimo in cui i capelli – ricci, neri, voluminosi – si schiacciano leggermente in una frangia, gli zigomi – pallidi, morbidi – si alzano e diventano più affilati, e gli occhi.

Solo un attimo in cui gli occhi s’illuminano, s’illuminano di quell’azzurro impossibile che nessun altro al mondo può possedere.

«Grazie.»

 

 

~

 

Silenzio.

È questa la prima cosa che John pensa appena aperti gli occhi.

Tende l’orecchio, ma non sente gli uccellini cantare.

È notte.

Con una strana sensazione sullo stomaco, scende dal letto e a piedi nudi si dirige in salotto.

La stanza è illuminata fiocamente e la luce della lampada accarezza morbida una lunga figura dinoccolata.

John sbatte gli occhi e sente la testa leggera.

Non ha bisogno di guardarsi intorno, lui sa.

È Baker Street.

«Sto sognando…» dice incredulo, lasciandosi cadere sulla sua poltrona.

«È una domanda o un’affermazione? In ogni caso rimane che tu sia un idiota.»

Dal divano giunge un'altra voce, la sua.

John volta la testa nella sua direzione.

E poi il suo profilo inconfondibile.

«Cosa?»

«Tu fai solo incubi – deve essere un incubo o non saresti sveglio nel bel mezzo della notte – sull’Afghanistan, e nonostante Mrs. Hudson  non tenti di riordinare da una settimana, vedo ancora differenza tra il nostro salotto e un campo di battaglia. Ultimo dettaglio: ti sei sorpreso quando hai visto me. Devo forse dedurre che i tuoi incubi abbiano preso fantasia e mi abbiano incluso? Certo, se tu mi sognassi spesso sarebbe—»

«Ovvio che no! Perché dovrei sognarti?» replica, con più acido di quanto intendesse, ma l’altro non pare curarsene.

«Allora sei un idiota, perché non c’è nulla di più reale di me che, nel mezzo della notte, suono il mio violino come se fosse… - come avevi scritto nel blog? Ah già - come se fosse “un eretico nelle mani dell’inquisizione”.»

«Allora l’hai letto.» si lascia scappare un sorriso, piccolo piccolo.

«Dovevo scoprire cosa tramavate tu e Lestrade.» sbuffa l’altro dal divano.

«Noi non tramiamo niente.» gli risponde come se fosse ovvio.

«Certo, e Mycroft ha messo la macchina a disposizione di Lestrade solo per buon cuore.»

«Cosa? Mycroft ha—» chiede stupito, come al solito.

«La cravatta, l’ombrello, la giacca bagnata per un decimo sulla spalla!» sbuffa l’altro, «Idiota.» ribadisce e, nonostante debba continuare a fingersi scocciato, arcua lievemente le labbra, nascosto della penombra del salotto.

John, senza neanche saperlo, gli fa riflesso.

«Cosa ti suono? Così torni a dormire e mi lasci pensare in pace.» gli chiede l’altro improvvisamente.

John lascia lo sguardo perdersi su di lui che pulisce concentrato l’archetto.

«Fammi la solita, la mia preferita.» gli risponde, quasi senza pensarci.

Sherlock sbuffa di nuovo, borbottando qualcosa sui reduci di guerra senza fantasia, ma immediatamente posa l’archetto sulle corde e inizia a suonare.

E a John batte forte il cuore, ha quasi paura che Sherlock si fermi per rimproverargli tutto quel rumore che sta facendo.

Ma le note si susseguono senza interruzioni e John sente i muscoli rilassarsi, stendersi, fidarsi.

Un leggero sorriso gli macchia le labbra, quando le palpebre si abbassano stanche e sente il buio avanzare, avvolgendolo.

 

Mi ritroverai nel ricordo.

Con gli occhi in fiamme, un buco nel petto.

E l’oscurità mi tratterrà ancora.

Ma mi ritroverai.

Mi ritroverai nei sogni.

 

Finché il sole non sorgerà.
 Mi ritroverai nei sogni.

Finché il sole non sorgerà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

~

 

La luce filtra dalla finestra.

BIIIIIIP

Un mugolio riempie l’aria viziata.

«Mhhh…»

Salve a tutti qui è radio Liverpool!

Le macchine, i bus, i taxi corrono.

«Due… minuti.»

Sono le sette e la giornata promette sole!

Le coperte frusciano.

«John…?»

Forza, forza! Giù dal letto, dormiglioni!

Una mano si allunga piano, lentamente e svogliata, trovando calore.

«John ma…»

Calore umano.

Non potete perdervi una giornatona così!

 

«Sarah..?»

Un occhio aperto, a fatica.

Incollato, stretto, incatenato di sogni.

«Cosa… io…»

Uno sguardo confuso, le labbra appena dischiuse.

Un sorriso luminoso, la voce dolce.

«Hai dormito, hai dormito tutta la notte. Con me.»

Le coperte scivolano sulla pelle.

E poi calore.

Calore di due labbra sulla sua guancia.

«È meraviglioso.»

Una risatina soffocata, un po’ perplessa.

«Che strano, hai il viso bagnato.»

Lei prova a sorridere.

Lui non ci riesce.

 

Sarah lo sa.

Lui non dovrebbe saperlo.

E gli uccellini non cantano.

 

Non cantano, non più.

Non ne hanno bisogno. Non ora che l’hanno dentro.

Non ora che hanno capito.

 

~

 

E tutto ricomincia a scorrere.

A scorrere a un ritmo indiavolato.

A una velocità impossibile da raggiungere.

Ma impossibile è una semplice parola di vocabolario per John quando si trova a correre per le strade di Londra.

Un cuscino della Union Jack per compagno e una sola destinazione.

Sono solo due miglia dopotutto.

Due miglia dall’ossigeno che ravviverà la brace nel suo petto.

Due miglia di fuoco puro.

Due miglia da…

Aspettami.

 

~

John sta ghignando.

John sta ghignando a un vasetto di violette che ha comprato dal fioraio davanti al cimitero.

Perché John sa perfettamente che Sherlock ne adorerà il colore, ma detesterà l’odore troppo forte e coprente.

Ed è così che lo vede il custode del cimitero.

Con la camicia fuori posto, i pantaloni stropicciati, un cuscino sotto braccio e una piantina in mano.

Lo guarda curioso, perché non tutti i giorni si vede qualcuno contento di andare al cimitero.

«Signore!» lo chiama, andandogli incontro, «mi scusi se la disturbo, ma non l’ho mai vista qui, e forse gradirebbe una piantina del cimitero, sa è molto grande.»

John alza lo sguardo dalle violette e lo punta sull’uomo che a di fronte.

«No, grazie» gli risponde sorridendo gentile, «Non penso ne avrò bisgono.»

E ricomincia a camminare.

La schiena dritta, lo sguardo fiero, le gambe scattanti e la presa delicata ma decisa delle mani.

«Signore, ma questo cimitero è profondo» gli urla il custode, rimasto indietro, «alcune tombe sono nel più fondo del fondo del bosco!»

John non si gira neanche indietro, non ne ha più bisogno.

«Mi basta che sia più profondo di me.»

 

 

~

Finalmente intravede le lettere d’oro che compongono il suo nome.

Ed è arrivato, è arrivato senza neanche esitare, perché John ha sempre avuto una grande capacità di ritrovare Sherlock Holmes.

Sia nelle parole, che nei gesti, che nei luoghi.

Nelle persone.

E alla fine non fa niente di che.

Semplicemente si sdraia accanto alla tomba, si sistema il cuscino sotto la testa e con la punta delle dita accarezza piano le violette.

Rimane così, in silenzio, come in silenzio lasciava che Sherlock facesse scorrere i pensieri o leggesse i suoi.

Rimane così, in silenzio, e si addormenta.

E gli uccellini continuano a cantare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***Angolino del cambia-colore****

Avete appena letto 7728 parole. Da me. ME.

Bene, posso non scrivere per tutto il resto dell’anno xD

No, comunque, volevo assolutamente complimentarmi con voi, siete arrivati alla fine di questa storia, al finale finale finale, perché come avrete notato ci sono tanti finali, i principali fondamentalmente sono quattro: di Sherlock, di Andrea, il finale di Sarah e ultimo ma più importante (e forse scritto peggio ><) di John.

Ma mi fermo un momento.

Mi fermo perché ho un enorme grazie che mi raschia la gola.

Per prima cosa ringrazio Fabrizio De Andrè, perché senza di lui questa storia non esisterebbe.

Poi ringrazio Anna, da voi conosciuta come OperationFailed, da me conosciuta come Watson. E ci tengo a specificare che ti ringrazio dopo Faber solo perché tu avresti voluto così.

E il grazie c’è per tanti motivi che tu sai, ma che molto probabilmente ti sei dimenticata –come al solito.

Il grazie c’è per avermi fatto da soulbeta, il grazie è per aver compiuto 160 anni oggi e di averne spesi alcuni a sopportarmi.

Ma ora basta, il resto te lo dirò poi.

E in realtà avrei dovuto fare delle note infinite, senza capo né coda, ma mi sono detta “ne hai voglia? No. Servirebbe a molto? No” allora ho deciso che c’è un solo modo per spiegare tutta questa storia senza stare a fare tante parole prive di significato, ossia spiegare la proporzione John: Andrea = Sherlock : Riccioli neri.

Ossia2, la canzone di Fabrizio De Andrè “Andrea” di cui qui sotto riporto il testo, ASSSSSSOLUTAMENTE da leggere, o avrete per sempre questa storia a metà.

 

Andrea s'è perso (s'è perso) e non sa tornare
Andrea s'è perso (s'è perso) e non sarà tornare
Andrea aveva un amore (Riccioli neri)
Andrea aveva un dolore (Riccioli neri)

C'era scritto sul foglio ch'era morto sulla bandiera
C'era scritto e la firma era d'oro, era firma di re

Ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia.
Ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia.

Occhi di bosco, contadino del regno, profilo francese
Occhi di bosco, soldato del regno, profilo francese
E Andrea l'ha perso, ha perso l'amore, la perla più rara
E Andrea ha in bocca un dolore, la perla più scura.

Andrea raccoglieva violette ai bordi del pozzo
Andrea gettava Riccioli neri nel cerchio del pozzo
Il secchio gli disse, gli disse – Signore, il pozzo è profondo,
più fondo del fondo degli occhi della Notte del Pianto.

Lui disse –Mi basta, mi basta che sia più profondo di me.
Lui disse –Mi basta, mi basta che sia più profondo di me.

   
 
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