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Autore: _maya96_    08/05/2012    3 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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-Regrets-

 
 
Guardai la mia stanza già maledettamente vuota, eppure piena di ricordi, che continuavano ad affollarmi la mente non appena trovavo il modo di cancellarli.

Ma non mi fu permesso.
Forse era quella la mia punizione, non morire quella notte insieme ai miei genitori. Sarebbe stato troppo facile.
Dovevo continuare a vivere, assaporando ogni giorno quelle lacrime, che non mi davano tregua.

Il mio cuore doveva continuare a battere, nonostante quella lama d’acciaio lo trafiggesse ogni giorno.


Ma non andava mai in profondità, si fermava sempre prima. Prima che quel dolore mi portasse alla morte. Prima che la mia vita fluisse via dal mio corpo. Prima che potessi raggiungere i miei genitori o anche solo vederli.

Mi feriva, ma non mi uccideva.
Non mi donava quel lusso di poter far finire la mia sofferenza, una volta per tutte.


Ma come potevo biasimarla?  

Quello che era accaduto, ogni singolo fatto, ogni singola parola, ogni singola scelta, indotta da me, aveva portato a tutto questo.

Avevo portato buio, dove prima brillava il sole, ma ero stata troppo cieca per capirlo e poterlo apprezzare.

Quando possiedi un oggetto così prezioso, non ti accorgi del suo valore, finché lo perdi.

Lo davi per scontato, come se fosse normale che la sua bellezza e il suo amore, ti riempissero il cuore e solo quando, il suo vuoto, che prima ti colmava l’anima, ora ti divora, non ti resta altro che realizzare di essere stato uno stolto, per esserti fatto portare via, la cosa più preziosa che possedevi, senza nemmeno aver fatto qualcosa per impedirlo.


Il ticchettare frenetico della pioggia, mi riportò alla realtà.

Tirai su con il naso e mi guardai allo specchio.

Quella che vedevo non potevo essere io. Quella pelle così pallida, non era la mia. Quegli occhi spenti, velati di lacrime, non erano i miei.

Niente mi ricordava me stessa.
Come se quella che stessi guardando, non fossi io, ma una ragazza che mi somigliava molto, ma dentro era vuota.
La vedevo muoversi, la sentivo respirare, ma era come se fosse morta.
Era solo un contenitore privo di emozioni a cui era stata prosciugata l’anima.


Mi asciugai ancora una volta le lacrime, dai miei occhi  scuri, quasi neri.

Ero l’unica nella mia famiglia a possederli così.
I miei genitori li avevano entrambi grandi e verdi e ogni volta scherzavamo sul fatto che io li avessi diversi.


Un sorriso involontario, mi apparve sul volto, al pensiero di quei momenti felici.

Ne fui contenta, erano mesi che non sorridevo in quel modo e quel piccolo cambiamento, aveva portato un po’ di vita a quella ragazza dentro lo specchio.

Presi la spazzola e incominciai a pettinarmi i lunghi capelli bruni, che mi ricadevano in leggere onde, fino a metà schiena.

Con una ciocca mi coprii la parte sinistra del collo, dove si trovavano due cicatrici, rimastemi dal giorno dell’incidente.


Non mi ricordo molto di quella notte. é tutto così confuso, così irreale. I suoni, le voci, erano così lontane.

Dovevo essere svenuta, ma mi ricordo soltanto che prima di chiudere gli occhi li avevo visti vivi.

Mi avevano chiamato, ma io non li avevo sentiti chiaramente.
Tutto intorno a me era buio, ero già caduta in un sonno profondo, che credevo sarebbe durato per sempre.


Poi mi ero risvegliata in ospedale, in un letto troppo freddo, con un cuscino troppo basso, in una stanza troppo bianca, attaccata ad un sacco di macchine, delle quali ne ignoravo la funzione e l’esistenza.

Avevo chiesto dei miei genitori, ma mi era stato risposto che erano morti sul colpo. Che era impossibile che li avevo visti vivi.

Avevano dato la colpa alla botta in testa che avevo preso, quando la macchina si era ribaltata per la seconda volta, per poi scontrarsi contro un albero, che aveva arrestato la sua terribile avanzata, e alla fine ci avevo creduto.


Tirai un sorriso forzato e raggiunsi i miei zii nel salone, al piano di sotto.

Dopo la morte dei miei, il mio affidamento era passato a loro, benché parenti più stretti.

Si erano trasferiti in casa nostra, lasciando la loro, ma così non mi andava più bene.
Non mi sembrava già giusto il fatto che dovessero occuparsi di me, come se fosse un obbligo.

Non mi piaceva essere per loro un peso, anche se non me l’avevano mai detto, anzi, mi avevano sempre trattato bene e non mi avevano mai fatto mancare niente, ma avevo la sensazione di darli in qualche modo fastidio.


Così, una mattina, avevo deciso che sarebbe stato meglio per tutti, trasferirci nella loro casa a Port Angeles. Avevo usato la scusa che rimanere qui mi avrebbe fatto solo più male e che loro figlio sarebbe cresciuto meglio in casa propria, e loro non avevano potuto che acconsentire alla mia richiesta.
“Buon compleanno” mi dissero in coro, non appena la mia testa fece capolino nel salone.
E si, era il giorno del mio diciassettesimo compleanno. Normalmente una persona sarebbe felice, in un giorno così speciale, ma non io.

Non potevo essere felice di festeggiare il fatto che il mio egoismo avesse ucciso i miei genitori.
Che in quell’incidente fossi stata l’unica ad uscirne illesa, mentre loro avevano ripagato ai miei sbagli con la vita, mentre la mia andava avanti.

Una parte di me sperava anche che se lo fossero dimenticato.


“Ti abbiamo preso qualcosa” continuarono loro, porgendomi un pacchetto di forma rettangolare, color oro.

“Grazie, ma avevo detto niente regali” risposi un po’ impacciata, mentre prendevo la scatola, facendo attenzione a non farla cadere.

“Si, lo avevi detto. Ma che compleanno sarebbe senza regali?” Disse sorridendomi zio Enry.

è sempre stato un uomo solare, da che ho memoria.
Fin da quando ero piccola mi portava a fare lunghe passeggiate al lago vicino casa e ogni volta venivamo sgridati perché rincasavamo tardi per la cena, che preparava zia Mary.

Era un uomo così diverso da mio padre, che mostrava raramente il suo affetto, a volte mi stupivo del fatto che fossero fratelli.


“Spero che ti piaccia” disse semplicemente zia Mary, che è sempre stata un po’ più chiusa rispetto al marito.

Le sorrisi e aprii cautamente quella scatola dorata.
Quello che vi trovai dentro, era un bellissimo portafoto d’argento, con dei disegni floreali ai lati e un’immagine di una rosa all’interno.


“Grazie, è bellissimo” riuscii semplicemente a dire, pensando già a quale foto ci avrei messo. Corsi ad abbracciarli e dopo di loro, diedi un lieve bacio sulla fronte di Joseph, che dormiva beatamente nella sua culla.


* * * *
 

 
Mi incamminai verso la strada della scuola, che ormai proseguivo da anni.

Passavo sempre davanti al solito parco giochi, dove le voci giocose dei bambini, riempivano l’aria. Passavo sempre davanti al solito bar, dove ogni tanto mi fermavo a fare colazione e passavo sempre davanti alla solita panchina, dove avevo dato il mio primo bacio.

Mi sarebbe mancato tutto questo.
Mi sarebbero mancate anche le più piccole banalità, che costituivano la mia giornata.
Tutte quelle piccole cose, che credevo noiose, ma in realtà costruivano la mia vita, come piccoli tasselli di un puzzle.
Ma qualcuno si era divertito a giocare con il mio, a lanciare in aria ogni singolo pezzo e toccava a me raccoglierli e andare avanti.


Mi voltai di scatto, non appena sentii un rumore dietro le mie spalle.

Dal giorno dell’incidente, avevo sempre quella strana sensazione di non essere sola, ma ogni volta che mi giravo, quello che vedevo era il vuoto, il nulla e così fu anche questa volta.


Scossi velocemente la testa, mentre riprendevo a camminare.

La mia paranoia era uno dei motivi, per cui avevo deciso di lasciare questa città.

Come se quel nulla  che vedevo, in realtà avesse mille occhi, pronti a trafiggermi, non appena mi voltavo.


Mi fermai, non appena scattò il segnale rosso del semaforo.
Sbuffai spazientita e guardai dall’altra parte della strada, dove da lì a qualche passo, si trovava la mia scuola.


I miei occhi caddero sulla marea di gente, che occupava l’altro marciapiede.

Mi aveva sempre divertito guardare le persone e cercare di indovinare le loro vite e i loro impegni giornalieri.
Era un gioco stupido, che però mi dava quella distrazione necessaria per lasciare un attimo la mia vita e provare ad entrare nella loro.


Poi lo  vidi.
Se ne stava nascosto tra la folla, come un dio eterno, che non spreca il suo tempo a farsi vedere tra la gente comune.


I suoi capelli biondi come il grano, venivano scompigliati dalla leggera brezza, che si era alzata tra noi.
La sua pelle così chiara e perfetta, era illuminata dalla luce del sole, che pareva avesse sconfitto le nubi e la pioggia di quel giorno, solo per ammirarlo e illuminarlo con la sua splendida bellezza, che poteva essere paragonata a quella di quell’uomo misterioso.

Le sue labbra rosee e carnose si allargarono in un mezzo sorriso, così scaltro e diabolico, da far venire i brividi e che stonava con il resto del suo viso angelico.

La cosa che mi colpì di più però, furono i suoi occhi, di un grigio-azzurro, come due lamine di ghiaccio, pronte ad ammaliarti con il loro splendore, per poi trafiggerti, quando meno te lo aspetti.

Così perfetti e terribili al tempo stesso, sembravano fissi su di me.
Mi incatenarono a loro, come se non avessi altra scelta, come se non potessi impormi al loro volere, come se fossi una bambola nelle mani di qualche burattinaio, che muoveva i fili della mia vita.


Quell’incantesimo finì non appena un furgone passò tra noi, spezzando quel contatto, che sembrava fosse durato in eterno.

Mi sentivo stordita, come se mi fosse mancato qualcosa, nello stesso instante in cui i nostri occhi si erano divisi così bruscamente.


Aspettai con impazienza che quel furgone passasse, per poi tornare a cercarlo, ma non lo trovai.

I miei occhi passarono su tutte quelle persone dall’altro lato della strada, ma niente, lui non c’era più.

Sembrava scomparso, svanito nel nulla , così come era arrivato.

Un leggero vento mi investì il viso e fui costretta a chiudere per un attimo gli occhi, cercando di tornare alla realtà, che quei brevi istanti, mi avevano portato via.

Non appena scattò il verde, attraversai svelta la strada e lo cercai ancora.
Cercai quell’angelo dagli occhi di ghiaccio che avevo visto poco prima.

Così irreale da non essere vero, così perfetto da non essere vivo.

 
* * * *

 


La giornata era passata velocemente e quella pioggia incessante sembrava avesse dato un po’ di tregua agli uomini.
 
Decisi così di andare a trovarli. Non potevo partire senza salutarli un’ultima volta.

Camminai sul terreno ancora umido e mi fermai davanti a quell’impotente lastra di pietra coricata per terra.

Quelle lettere cubitali, che indicavano i loro nomi, mi saltarono agli occhi e i loro volti sorridenti, imprigionati in quelle fotografie, parevano guardarmi.

 
Gli occhi incominciarono a bruciarmi, mentre cadevo con le ginocchia a terra, ai piedi della lapide.
 
La rosa che tenevo in mano cadde vicino agli altri fiori, oramai appassiti, mentre le mie lacrime incominciarono a scendere ininterrottamente lungo le mie guance, per poi cadere su quella lastra di pietra.
 
Le asciugai con la mano, non volevo che le mie inutili lacrime rovinassero anche quello.
Loro non le meritavano, non mi meritavano, non dopo tutto quello che avevo fatto.
 
E ora stavo per lasciarli. Mi sentivo morire per questo, come se li stessi uccidendo una seconda volta, ma tutto ciò era inevitabile.
 
Non potevo costringere i miei zii a vivere in questa casa, solo perché li pareva giusto nei miei confronti.
 
Mi sembrava impossibile, che dopo tutto quello che era accaduto, tutti pensassero al mio bene, come se fossi una vittima e non l’assassina che invece ero.
 
Mi dispiace.
 
Dissi queste semplici parole alla terra, ma quella non mi rispose.

La ripetei più e più volte ad alta voce, guardando il cielo cupo che si stagliava sopra di noi, così che anche loro potessero sentirmi.

Potessero sapere che li volevo bene, anche se loro forse ormai, non me le volevano più.

Io avrei continuato ad amarli e il dolore mi avrebbe continuato a logorare il cuore, pezzo per pezzo.

Avrei dovuto dire tutte queste cose, tutti questi pensieri che ora mi affollano la mente e che ho sempre saputo, ma un po’ per orgoglio, un po’ per egoismo, me li ero tenuti dentro.

Ma adesso erano usciti, avevano fatto sentire la loro voce, come se si fossero stancati di essere solo un fragile pensiero. Volevano essere reali, volevano essere vivi, così che tutti potessero sentirli.
 
Li promisi che sarei venuta a trovarli, che i loro fiori non sarebbero mai appassiti, che i nostri ricordi non si sarebbero mai cancellati, ma mi avrebbero accompagnato in eterno, finché avessi esalato l’ultimo respiro.
 
Mi coricai a terra accanto a loro e lasciai andare tutte quelle lacrime, che avevo tenuto per troppo tempo e che ora erano venute fuori, sentendosi finalmente libere e il vento, che con il suo grido incombeva su di noi, sembrò sigillare quella mia umile promessa.

  
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