Titolo
della storia: Ninfale
rodigino
Nome dell’autore su EFP:
Marguerite_
Rating: Verde
Generi: Sovrannaturale
Avvertimenti: One-shot
Immagine scelta: http://animeartbooks.net/viewimage/6868/
Scelta perché: le altre erano
troppo p0rn per me! scherzo, mi ha incantato la delicatezza di questa
figura,
tanto da ricalcare alla perfezione un villain a
cui
pensavo da molto tempo.
Astride
sbadigliò, le palpebre pesavano.
Scivolò un
poco di più nell’avvallamento fresco in cui era
scivolata e abbassò il
cappellino da baseball sulla fronte per soffocare la luce che
attraversava il
tetto di foglie sopra di lei, e il riverbero del sole sulle onde scure
a pochi
passi dai suoi piedi. Sbadigliò ancora, una voce lontana la
chiamò.
Non
è nulla, si disse, solo
l’acqua che scorre sulle rocce, solo il fruscio dei pioppi,
solo…
Il
riflesso sull’acqua l’accecò di nuovo.
Portò le
mani alla testa, ma non indossava più il suo amato
cappellino: sotto il sole, i
capelli stavano diventando bollenti. Strizzando gli occhi, riconobbe
una donna
chinata sull’acqua, lontana da lei.
Doveva essere una donna, nonostante i
tratti infantili del volto e l’espressione sognante, una
donna con corti
capelli biondi e la pelle bianchissima, come porcellana.
Faceva
persino male agli occhi continuare a fissarla.
«Scusa!
Posso farti una domanda?» gridò, andando nella sua
direzione, mentre sentiva il
caldo e l’afa batterle sulle tempie e stenderle un velo di
sudore sulle tempie
e sulla nuca. La donna raddrizzò la schiena e la
guardò e le rispose solo
quando furono a pochi metri l’una dall’altra.
«Oh,
Astride!» trillò gioiosa, fregiandosi di un
sorriso luminoso.
Benché
sorpresa da quell’accoglienza, Astride dovette prima
socchiudere gli occhi.
La donna
era molto bella, molto più bella di chiunque avesse mai
conosciuto: somigliava,
in flessuosità, bellezza, luce,
a
certi dipinti di ninfe e dee; nel mondo reale le sarebbe piaciuta,
l’avrebbe
affascinata, invece sentì crescere l’irritazione e
l’astio, quando si schermò
il volto.
«Come
mai…?»
«Astride
cara, io ti conosco da così tanto tempo!»
replicò subito la donna, stringendosi
addosso il velo verde che la vestiva. Mosse alcuni passi
sull’erba secca, i
polpacci bagnati. «Mi chiamo Scilla.»
Il suo cuore
si gonfiò di rabbia, oh sì! Non avrebbe saputo
spiegarsi il perché, ma a quel
nome la calura si fece schiaffo, le mani le tremarono dal desiderio di
colpirla.
«Scilla,
dici? No che non ti conosco.» replicò, a bassa
voce. Scilla, Scilla, Scilla
diceva, ma negli occhi aveva uno sguardo che conosceva e riconosceva
solo in un
paio di occhi scuri, occhi reali.
Il caldo
la fece barcollare: desiderò un riparo, si guardò
intorno, vide solo una
tremolante distesa di campi riarsi, un fiume davanti a lei, due alberi
lontanissimi, quasi invisibile.
Scilla la
prese per un braccio, toccandola appena, la fece sedere sulla terra
grigia.
«Pensi a lei, non
è vero?» lo disse con voce
dolce. Astride alzò lo sguardo, di nuovo abbagliata da quel
volto brillante.
Annuì. Scilla fece un sorriso quasi invisibile e
annuì a sua volta, pensierosa.
Una
ninfa, una ninfa bellissima… ha
le mani così fresche!
Nonostante
il cuore galoppante, non si sottrasse al suo tocco.
«Pensi a
Cordelia, che è amata da chi vorresti avere, che ti guarda
sempre in modo così
odioso che vorresti romperle il naso e tagliarle le labbra e cavarle
anche gli
occhi, rovinare il suo visino.»
«Sì. Mi
piacerebbe. Mi piacerebbe tanto.» sussurrò,
inclinando il viso verso quello di
Scilla. Era così bella e capiva così bene quanto
male provasse per Cordelia,
che il disgusto che in fondo sentiva per quel bel corpo era risibile, a
confronto.
Eppure, il
suo sorriso s’incrinò.
«Ti ho
aspettata tanto,» disse Scilla, dandole improvvisamente le
spalle, «e sono
cambiata così tanto che non ti ricordi nemmeno
più di me. Cosa hai provato,
quando mi hai vista?» il suo tono cambiò: da
triste che era si fece attento,
mellifluo.
Astride
chiuse gli occhi, respirò a fondo, rabbrividì.
«Ti odio,
Scilla, vorrei che anche tu bruciassi in fondo all’Inferno,
con Cordelia!»
Una notte
calda e viscida, un ronzio di moscerini, un lampo su di un ponte, mille
immagini le si affollavano nella testa, Scilla era una bestia, un
animale e
l’aveva spaventata e lei l’aveva odiata, un
centinaio d’anni prima.
Strisciò
lontano da lei, lontano dall’acqua.
Scilla si
coprì il volto con le mani, piegandosi su se stessa.
«Il tempo
mi ha fatto del male, lo vedi? Te ne accorgi, Astride bella?»
continuò in tono
giocoso, «Vedo che ti ricordi di me, in un certo senso? Non
mi trovi familiare,
così?» allargò le mani.
I
lineamenti da bambina erano immutati, ma tutto il resto… Dio.
I capelli
biondi erano alghe incollate alle guance di argilla, gli occhi ricolmi
di acqua
torbida, rena fine le scivolava dalle labbra ad ogni parola. Si ergeva,
dritta
come il fusto di un albero, su una pozza di fango maleodorante.
Astride si
coprì gli occhi con le mani, indietreggiò; Scilla
le venne incontro, circondata
dal fetore di acqua stagnante e carcassa decomposta, dal ronzio di un
moscone
accorso al banchetto.
La strinse
tra le braccia viscide e forti, gli occhi socchiusi: «Tu e
Cordelia siete
uguali, avete la stessa anima e lo vedrai.»
sibilò.
«Che
diavolo sei?» cercò di allontanarla, ma le mani
affondavano nel fango tenero
che era il suo corpo. Scilla scoppiò in una risata argentina
e sgraziata,
dandole un bacio sonoro sulla guancia.
«Questa è
la domanda sbagliata! Hai pensato tu stessa che io sia una ninfa, ed
hai
ragione! Io posseggo tutta
l’acqua
che bagna queste terre e questi campi, io
decido quando rompere gli argini, io
ho fame di terra da secoli, millenni!»
Quindi la
lasciò andare.
La lasciò
andare e disse, piano: «Cordelia mi conosce, come te.
È per questo che ti
guarda.»
«Perché lo
sa?» boccheggiò, rannicchiata sul terreno
bollente. Una nuvola coprì il sole e
scurì gli occhi di Scilla:
«Sì.»
Una voce
lontana la chiamò.
… solo un incubo.
Si svegliò
in ginocchio, gli occhi sbarrati.
Era
incredula, che razza di sogno! Tutto per colpa di quel posto troppo
suggestivo!
Abbassò la
testa: le sue braccia e i vestiti erano ancora puliti, nessuna traccia
di
fango.
Raccolse
il cappellino da terra, lo pulì con un paio di manate, forse
troppo violente,
risalì l’argine alla ricerca delle sue amiche,
più innervosita che spaventata
dall’incubo. Davanti gli occhi aveva ancora una macchia
rossa, come se avesse
fissato il sole per un lungo lasso di tempo. Anche quella…
ninfa, Scilla però
risplendeva… scosse la testa.
Emerse da
una fessura circondata di felci e sorrise, per scusarsi del ritardo.
«Astride,
cos’hai sulla guancia?»
Gelò,
portandosi due dita allo zigomo, pur senza perdere il sorriso.
Sotto i
polpastrelli, una forma di fango ormai essiccato.
La forma
di un bacio di ninfa.