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Autore: Ortensia_    09/05/2012    2 recensioni
Dodici, e le lancette scorrono.
Qualcosa li ha condotti al numero 50 di Berkeley Square, e non vuole più lasciarli andare.
Vive nelle fondamenta, nel vuoto. Si nutre della paura e spezza quei sentimenti che riescono a toccarsi con dolcezza nella casa spettrale di Londra.
...
Cos'è? Chi è?
...
Genere: Dark, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Austria/Roderich Edelstein, Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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XI - Buio



Diversi anni dopo, un nobile scettico, per una sorta di scommessa con degli amici che facevano parte di una società di investigazione del paranormale, decise di passare la notte nella stanza infestata per dimostrare loro che non vi era nulla da temere. Ad ogni modo, per sicurezza, il gruppo installò una campanella che sarebbe servita all’impavido giovane per chiamare gli amici (i quali avrebbero passato la notte al pian terreno della stessa abitazione) in caso di bisogno; egli portò con se anche una pistola. Poco dopo la mezzanotte, la campanella cominciò a suonare con violenza e subito dopo sentirono uno sparo. I giovani corsero al piano di sopra, sfondarono la porta e trovarono l’amico morto, in piedi contro il muro con ancora la pistola fumante in mano, lo sguardo terrorizzato, anche lui con gli occhi che quasi gli schizzavano fuori dalle orbite. Nel muro di fronte c’era conficcato il proiettile sparato, ma nella stanza non c’era niente o nessun altro.

Una storia simile venne raccontata da Lord Lyttleton, il quale però sopravvisse: anche lui per una scommessa, anche lui armato, trascorse una notte nella stanza infestata. Ad un tratto, nella penombra, gli sembrò che qualcosa gli saltasse addosso, aggredendolo. Sparò un colpo di pistola, ma quando accese la luce, non vide nulla.


Con le dita strette alla maniglia della porta, Arthur, sembrava essersi accanito su di essa, abbassandola più volte con la fronte aggrottata ed un brontolio nervoso sulle labbra: niente. Chissà quando gli spiriti sopiti all’interno di quella casa gli avrebbero permesso di uscire …
Immerso nei propri pensieri scostò lentamente la propria mano e rimase ad osservare le bende bianche che ancora la fasciavano stretta, nascondendo il segno lasciatogli da Natalia qualche giorno prima.
«What’s up?» Alfred gli porse una tazza di tè caldo, che Arthur afferrò silenziosamente fra le mani, squadrando per qualche attimo l’americano.
«Che domanda idiota, America.» sbuffò appena, adagiando le labbra sul coccio tiepido della tazzina: scontroso, ma ovviamente disposto ad accettare di buon grado il tè caldo che Alfred gli aveva appena portato.
Alfred sapeva perfettamente quanto suonasse sciocca quella domanda, ma almeno aveva sentito la sua voce.

Poco dopo mezzogiorno erano ormai tutti in tavola ed ora, Gilbert, che aveva appena finito di guardare lo spagnolo ed il suo piatto, pieno di verdure, si era soffermato sulle misere patate e le foglie di lattuga nel suo.
Sia lui che Antonio, ancora sospettosi del tipo di carne che avrebbero potuto ritrovarsi nel piatto, avevano deciso di rinunciare alle proteine, accontentandosi di qualche misera verdura.
Da una parte, lo spagnolo, aveva perfino detto che era una cosa giusta, perché avrebbero risparmiato due importanti e sostanziose porzioni di carne che sarebbero sicuramente servite in futuro.
«Gilbert?»
Il prussiano alzò appena lo sguardo, incontrando quello del russo.
«Sicuro che quello basti?» continuò con voce cantilenante lo slavo, indicando il suo pranzo sotto lo sguardo giudice del tedesco.
«Ja.»
«Mhn-» Ivan brontolò appena, e quando il minore dei Beilschmidt fece per dire qualcosa, un rumore improvviso e ben udibile, nonostante fosse evidentemente lontano ed ovattato, interruppe il pranzo.
«Cos’è?» l’americano si alzò velocemente, e così anche il tedesco, senza dire una parola, in un gesto quasi automatico.
In seguito ad un altro rumore, più profondo ma proveniente dallo stesso punto, come se qualcosa di pesante si fosse riversato a terra, anche gli altri si alzarono, seguendo il tedesco e l’americano.
«Sembra che venga da questa porta …» borbottò l’americano.
«Ja, peccato che …» Ludwig sbuffò, con una spallata alla porta «è sempre chiusa-!»
Il tedesco diede un’altra spallata, più forte, ma la porta nemmeno tremò.
«Io credo che da qualche parte dovrebbero esserci delle chiavi.
A meno che lui non le abbia già trovate.»
Arthur sottolineò il soggetto con nervosismo, e tutti si voltarono confusi verso di lui: davanti a tutti erano state le prime e le ultime parole della giornata.

Dopo sera, nel salotto, Gilbert era immobile alla finestra, osservando la strada percossa dalla pioggia e tutte quelle persone che camminavano placidamente sotto gli ombrelli scuri, ignare di tutto.
Inarcò appena la schiena, quando sentì le braccia del russo circondargli il corpo, adagiandogli il mento sulla spalla «stanotte dormiamo insieme?»
«Sì, ma …» Gilbert sospirò appena, quasi intimidito nell’accettare quella proposta, poi continuò «ma di nuovo da te.»
«Da! ♥»
Nella camera del prussiano i rumori erano diventati troppo insistenti e quasi assordanti: Gilbert non avrebbe resistito una sola notte di più, chiuso lì dentro.

Un tuono percosse la casa, e l’americano, ancora sveglio a causa del temporale, si girò sul fianco sbuffando, con il viso stropicciato da un sonno impossibile da soddisfare. Si soffermò sulla figura dell’inglese, che ora gli stava dando la schiena.
Dopo qualche attimo lo vide stringersi in sé, come infastidito, intuendo che anche Arthur avesse qualche problema ad addormentarsi a causa dei tuoni, dei fulmini e della pioggia.
Si decise: si alzò e lo raggiunse, coricandosi lentamente al suo fianco e stringendolo appena, con il torace aderente alla sua schiena.
Non appena Arthur sentì le braccia dell’americano intorno al torace brontolò, ma socchiuse gli occhi, portando una delle mani a quelle dell’americano, congiunte sul suo petto: non c’era niente di male a dormire insieme per proteggersi a vicenda, dopotutto.

Una grande stanza bianca, e su quattro pareti il liquido rosso dell’orrore, l’odore metallico di sangue che attanaglia le narici e la gola.
Dieci schiene martoriate, dieci corpi insanguinati aderenti alle pareti.
Dieci teste inclinate verso il basso e dieci respiri ormai assenti.
Lui era davanti a loro, e li guardava: suoi amici, suoi conoscenti, tutti morti, davanti ai suoi occhi. Eppure, in quel catasto di corpi, non riusciva a trovare il suo amore.
Lui doveva essersi certamente salvato, sì. Doveva essere per forza così, perché non avrebbe permesso altre ipotesi.
Sentì un sorriso nascere sulle sue labbra: lui era al sicuro, ed era ciò che davvero importava.
Poi volle pronunciare scioccamente il suo nome, cercandolo con gli occhi senza darsi per vinto.
Non fece in tempo a chiamarlo una seconda volta: due mani fredde, strette intorno al suo collo, gli smorzarono il respiro, facendosi sempre più strette, di secondo in secondo. Vedeva il sangue anche sul viso di Romano: usciva dalle labbra, copioso, ed arrivava a tingere il collo e tutto il colletto della camicia, in un puzzo fin troppo pungente per le sue narici, ma non riusciva a tossire, a parlare, o semplicemente a fermarlo. Sembrava quasi posseduto, non era il suo Romano, e di lì a poco, quelle mani intorno al suo collo, avrebbero estinto per sempre il suo respiro …


Quando Antonio si mise velocemente a sedere, in un singulto soffocato, si portò entrambe le mani al collo, massaggiandolo freneticamente, cercando di estinguere quella sensazione di gelo sulla propria pelle e con il respiro affannoso e quasi impossibile da gestire.
«R-Romano …» si ritrovò a sussurrare con la voce tremante, scostando cautamente le mani dal proprio collo e portandole a conca sul viso per nascondere la propria tristezza a quel vuoto tanto struggente che l’italiano si era lasciato dietro di sé.

Arthur schiuse pacatamente i propri occhi e, con il viso stropicciato dal sonno, si voltò lentamente verso l’americano che, guardandolo, sorrise e strinse le braccia intorno al suo corpo.
«Ha finito di piovere. Come stai?»
«… Sto bene …» abbassò la testa, facendo aderire la fronte al petto dell’altro con un borbottio quasi nervoso: sapeva che Alfred era stato uno di quelli che aveva cenato con la carne di un “fratello”, e tutto ciò gli dava molto fastidio. Era un fatto ormai inciso nei giorni della storia, e non poteva permettersi di ignorarlo così egoisticamente.
«Non mi sembra …»
«Shut up-!»
A quel sibilo nervoso, Alfred, non poté che sospirare tristemente, allentando la presa sul corpo dell’inglese.

Nonostante lo stomaco fosse ancora totalmente chiuso per colpa dell’amarezza e dello sconforto, all’ora di pranzo, Antonio aveva trovato la forza di strisciare fuori dalle coperte e trascinarsi fino in sala, ma ora dava libera immagine alla sua inappetenza, osservando apaticamente il pranzo sistemato nel suo piatto.
Eppure, quando decise di sollevare la testa per assicurarsi che Gilbert stesse mangiando almeno qualcosina, notò di non essere l’unico che, a quel tavolo, era seduto con un’aria veramente affranta sul volto: Arthur, con la testa bassa ed il palmo di una mano aderente ad una guancia, quasi giocava con il cibo che aveva nel piatto, al posto di mangiarlo.
Quasi tutti avevano perso una persona importante dentro quella casa. L’unico che ancora non aveva perso nessuno di troppo importante come un fratello o un storico “nemico-amico” era …
Quando Antonio mise a fuoco nella propria mente l’immagine di chi ancora si poteva ritenere fortunato sgranò appena gli occhi, deglutendo: Gilbert?
Possibile che? No, si era sentito in colpa per Roderich, e appena due giorni fa, quando Francis era stato ucciso, avevano passato tutto il giorno insieme, a parlare per consolarsi a vicenda. Non poteva trattarsi di Gilbert, non doveva.
Non il suo amico.

Il pranzo s’interruppe all’improvviso, quando una nota delicata risuonò al piano di sopra.
I presenti rimasero a bocca aperta, guardandosi negli occhi spauriti, increduli per quella melodia semplice che così velocemente si stava diffondendo in tutta la casa.
Germania decise di concentrarsi più attentamente sul suono, ora più grave, del pianoforte, ma in qualche attimo fu eseguita l’ultima nota e poté udire chiaramente alcuni passi pesanti che parevano essere sulle scale.
«Vieni, andiamo in cucina!»
«Ja.»
Germania non fece inizialmente caso a quelle due voci e rimase nel più totale silenzio, poi scosse appena la testa, intravedendo Gilbert che si allontanava alle spalle di Ivan: ma come aveva fatto quello a convincerlo così velocemente? Si era distratto solo un attimo, e subito, quel russo, aveva abbrancato Gilbert come solo un’aquila poteva fare con una lepre, allontanandolo da lui senza alcuna esitazione.

Le lancette proseguirono timidamente la loro marcia, fino a segnare le quattordici, poi le quindici, e così via.
Ancora una volta, Arthur, stava tentando di ignorare la sua mano ferita per aggiustare la macchinetta del caffè, armeggiando con attenzione un grosso cacciavite arrugginito, ma con scarsi risultati, mentre l’americano osservava annoiato l’orologio, sbuffando appena «perché non lasci fare all’eroe?! ☆»
«Pft, sei un idiota, non un eroe.»
Antonio, intanto, dopo aver passato due ore isolato nella propria stanza, aveva deciso di fare una capatina dai vicini, nella speranza che il tempo in compagnia di Feliciano e Ludwig passasse più velocemente.

Solo per due di loro il pomeriggio stava proseguendo velocemente.
La risata roca di Gilbert fermò improvvisamente la mano di Ivan, con il cucchiaio immerso nel sugo, stretto fra le dita: era così carino quando sorrideva.
«Bah, perché ti sei imbambolato, idiota? Dammi qua!»
Gilbert afferrò il cucchiaio di legno dalle mani del russo, lasciando che si scostasse dai fornelli e, mettendosi proprio di fronte alla pentola, bagnò appena le proprie labbra con il sugo all’interno del cucchiaio.
«Com’è?» Ivan gli circondò il torace con un braccio, baciandogli appena le labbra.
«Mh-»
Lo slavo scostò appena le labbra da quelle dell’albino «sì, è buono~» e sorrise appena, quasi divertito.
Gilbert aggrottò la fronte infastidito, per poi sbuffare appena e tornare a rivolgere la propria attenzione sulla pentola e poi anche sull’altra, decidendo di aggiungervi un po’ di sale, mentre l’altro ancora blaterava alle sue spalle.
«È una preparazione lunga, dovremmo semplicemente aspettare … e guarda che se continui ad aggiungere sale poi sarà immangiabile-»
E la mano del russo andò con cautela a fermare quella dell’altro, che ripose il sale quasi svogliatamente.
«Se sarà immangiabile sarà solo colpa tua che ostacoli la mia Magnifica persona in cucina!»
Quando Gilbert gli rivolse quell’espressione rabbiosa, Ivan, non poté che lasciarsi sfuggire una risata, per poi annuire appena e afferrargli il viso fra le mani, portando le labbra molto vicine.
«Aspettiamo …»
Anche quello, alla fine, poteva essere un buono modo per passare il tempo in attesa che la cena fosse pronta.
Le labbra del biondo sfiorarono quelle sottili dell’albino, che subito ricambiò appena, scostandosi poco dopo, quasi come se fosse indeciso se lasciarsi assaggiare o meno dalla bocca dell’altro.
Ivan sapeva benissimo che averlo già convinto a cucinare con lui non era certo stata cosa da poco, quindi non poteva assolutamente lasciarsi scappare dalle mani quell’occasione succulenta.
Le labbra dello slavo si fecero subito più insistenti, le mani salde ai fianchi del prussiano, mentre subiva quelle attenzioni ovviamente rivolte tanto freneticamente alla sua bocca.
Quando Ivan arrivò finalmente ad avere l’albino stretto a sé e con la schiena aderente al muro della cucina, la lingua dentro la sua bocca, per assaporare finalmente in pace ciò che tanto adorava, una voce quasi li percosse, e lo costrinse ad allontanarsi dal suo Gilbert.
«Russland.»
Germania rivolse il proprio sguardo anche a Gilbert, poi tornò ad osservare il russo.
«Preparate la cena al posto di fare cose che si fanno in camera da letto.»
Quando Ludwig passò di fianco ad entrambi ed uscì dalla cucina, a Gilbert parve di sentire le dita del russo arrancare pesantemente sulle sue spalle, quasi facendogli male, e non poté ignorare quello sguardo iniettato d’odio che aveva rivolto dall’inizio alla fine a suo fratello.

Lo sguardo di qualcuno che avrebbe voluto uccidere.

Un suono sonoro fu quello delle lancette, che quasi lo misero in guardia, spingendolo ad osservare con più attenzione l’ora che si era fatta da quando era rimasto fermo in salotto, seduto al suo posto senza più muoversi: le ventidue e trenta.
Dovevano già essere tutti a dormire: Arthur ed Alfred, ad esempio, erano andati al piano di sopra per primi, poi Russia e suo fratello, anche se avrebbe giurato di averli sentiti discutere -come al solito-. Effettivamente si era permesso di calpestare la coda a Russia: probabilmente ciò lo aveva molto infastidito, sì.
Antonio e Feliciano erano rimasti lì a discutere con lui e gli avevano dato la buona notte probabilmente una mezz’ora prima, quindi ora solo lui era sveglio. A lui sarebbe stato permesso udire ogni urlo e stridio di quella maledetta casa infestata.
Ludwig si alzò placidamente dalla propria sedia, senza battere ciglio.
Prese appena un respiro più profondo, e si mosse lentamente nel buio che lo circondava, allontanandosi dalla luce delle sette candele rimaste.
Quale ripugnante spirito albergava in quella casa? Prima i tonfi al piano di sotto, poi il pianoforte al piano di sopra e i passi sulle scale: voleva scoprire di più.
Avrebbe fatto solo qualche controllo e magari, poi, sarebbe passato da Gilbert.
Se Ivan non era con lui, come sospettava, Gilbert era sicuramente alla sua scrivania con una fioca luce accesa per scrivere qualche sciocco pensiero sul suo diario: in qualche modo, sicuramente, doveva compensare la carenza di Internet.
Quasi sorrise appena, con quel pensiero bizzarro rivolto al fratello.
Quando però sentì le scale cigolare sotto i suoi piedi tornò sull’attenti ed abbassò appena lo sguardo: non poteva vedere ad un palmo dal suo naso.
Era tutto troppo buio. Le sue gambe, ora, era come se non ci fossero state, come se fossero appartenute alla notte e da lei non avessero mai più potuto allontanarsi.
Sopportò pazientemente il cigolio delle scale sotto i suoi piedi, e quasi lasciò andare un sospiro di sollievo, giunto davanti alla porta del fratello.
«Germania~»
Quando sentì quella voce sgranò gli occhi incredulo, rendendosi conto che era ormai già troppo tardi: sentì solo per un attimo la canna fredda e pesante di una pistola sulla tempia.

Solo il suono delle lancette che segnavano le ventitre, quando un proiettile gli trapassò la testa.

Nella sala, la luce, divenne più fioca.

La mattina dopo, quando Gilbert aprì la porta della propria camera, non poté che paralizzarsi ad occhi sgranati, osservando il corpo del fratello riverso a terra.
«… W-We-»
Senza neppure averle percepite, già le lacrime erano arrivate al suo mento e si stavano riversando sul pavimento in piccole gocce trasparenti: quello era senza dubbio un colpo di pistola, ma come? Davanti alla sua porta? E lui non se n’era accorto?
Il prussiano si ritrovò velocemente inginocchiato al fianco del fratello, piangendo sommessamente con la schiena ed il capo chino.
Eppure, Ludwig, ebbe poco tempo per essere pianto in rispettoso silenzio.
«G-Germania!»
Gilbert udì la voce tremante di Feliciano poco distante, e ci volle poco perché l’italiano si buttasse sul corpo del tedesco piangendo disperatamente.
«Ludwig …» America ed Inghilterra erano a pochi metri da loro, increduli, e poco dopo non poté che raggiungerli Antonio.
Lo spagnolo, vista la scena, ebbe subito da pentirsi dei pensieri avuti il giorno prima nei confronti dell’amico, e sentendolo piangere non poté che chinarsi al suo fianco ed adagiargli affettuosamente una mano sulla spalla.
«Gilbert …»
Anche Feliciano non accennava a darsi una calmata, ma quando arrivò chi fino a quel momento era mancato all’appello, i singhiozzi di Gilbert cessarono.
«Sei … sei tu …»
Aveva i denti così stretti che sentì nella bocca il gusto del sangue.
«Tu sei quello con la pistola, qui dentro. Bastardo.» Gilbert si alzò in piedi a fatica, trovandosi di fronte la figura del russo, quasi confusa a causa delle sue parole.
«È lui che ci sta facendo fuori uno ad uno.»
«Gilbert, ti ho già detto che non è vero.» questa volta non c’era implorazione nella voce del russo: solo rabbia, apatia, frustrazione.
«Gilbert, non può essere Ivan. Gli abbiamo scaricato la pistola.» Athur non poté che intervenire, ma Gilbert lo ignorò.
Velocemente si spinse vicino al russo e con le mani immerse nel suo cappotto cercò nervosamente, trovando quasi subito ciò che cercava.
«Gilbert! È scarica!»
«Solo perché ieri ci ha interrotti e io questa notte non ho voluto dormire con te! Ecco perché!» Gilbert puntò la pistola al pavimento, e premette il grilletto.
Quando il pavimento si bucò davanti a loro, senza percuoterli con alcun rumore, Gilbert sgranò gli occhi e sollevò il proprio viso verso il russo: lo aveva accusato, ma sperava davvero non fosse come sospettava.
«Quella … quella non è mia …
Ha il silenziatore! Non è mia!» Ivan guardò Gilbert negando appena, quasi scosso, e il prussiano, che lo era per davvero, sentì Arthur strappargli la pistola dalle mani.
«Alfred, scarica i colpi.»
Alfred si limitò ad annuire, mentre Arthur andava ad afferrare un braccio del russo «Antonio, aiutami.» Antonio raggiunse l’inglese ed il russo, e tutti e tre si diressero verso la stanza di Ivan.

Mentre Arthur lo chiudeva a chiave dentro la propria stanza, Ivan, ebbe solo il tempo di vedere il viso del suo amato prussiano bagnato di quelle lacrime che forse mai avrebbe potuto asciugare.
   
 
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