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Autore: pleinelune    09/05/2012    7 recensioni
Anni 50.
Siamo pieni di difetti.
Non esiste persona al mondo che non abbia almeno un difetto, una fissa, un tic. Qualcosa, insomma.
Piena di difetti, manie e fissazioni era sicuramente lei, Clarice. Specifichiamo, la vita, lentamente e a volte con cattiveria, le aveva gentilmente regalato un tic di qua, un gesto compulsivo di la. Erano un insieme di esperienze, detti e credenze ad averla fatta diventare in quel modo.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Prologo - Swan Lake

 

Siamo pieni di difetti.

Non esiste persona al mondo che non abbia almeno un difetto, una fissa, un tic. Qualcosa, insomma.

Piena di difetti, manie e fissazioni era sicuramente lei, Clarice. Specifichiamo, la vita, lentamente e a volte con cattiveria, le aveva gentilmente regalato un tic di qua, un gesto compulsivo di là. Erano un insieme di esperienze, detti e credenze ad averla fatta diventare in quel modo.

All’età di sette anni le insegnarono a contare. Una piccola bambina curiosa che non riusciva a capire quanto faceva tre per sei senza mettersi a contare con le dita, Clarice ricevette tante di quelle bacchettate sulle mani da vedersele sanguinare. Dopotutto erano numeri, l’uno era seguito dal due, che a sua volta proseguiva con il tre e poi con il quattro, e così via fino all’infinito. Quando però iniziavano a sommarsi, moltiplicarsi e dividersi, il gioco diventava elaborato, doveva lavorare di mente e il tutto finiva sempre con i dorsi delle sue manine scarne insanguinati, e le lacrime lungo le sue guance rosee.

Imparò quindi contando qualsiasi cosa, i passi che la separavano da un luogo, le mattonelle del pavimento della sala d’attesa del dentista, le luci dei lampioni dell’autostrada che la notte si susseguivano in una danza macabra e infinita, gli spari dei soldati fuori dalle finestre della sua abitazione in centro, mentre lei dall’interno piangeva sotto al tavolo in noce, impaurita, tenendo la mente occupata cercando di contare le gocce di lacrime che cadevano sul tappeto persiano in salone. Contava ogni cosa, anche il tempo di ogni melodia che sentiva.

 

La guerra portò con sè milioni e milioni di morti, ma anche la paura che qualcosa potesse capitare di nuovo, che potesse esserci qualcosa di peggiore, di più violento, così molti iniziarono a evitare di fare alcune cose; di mangiare con la mano sinistra, di svegliarsi poggiando a terra il piede sinistro e infine di scendere le scale partendo con il medesimo piede. Ogni cosa comprendeva la parte sinistra del corpo, poiché era la parte del diavolo, dell’oscurità, della diversità. Clarice, dal canto suo, sopperiva all’impossibilità di fare la qualsivoglia cosa con la parte sinistra del corpo evitando di fare altre cose, come ad esempio posare il piede lungo le scriminature del marciapiede, evitava di incrociare le braccia troppo spesso, poiché il primo sparo lo aveva sentito mentre incrociava le braccia contro il petto, e crescendo cominciò anche a sopportare poco i gatti neri e le ambulanze.

 

 *


 

Quando nacque, fuori dalla finestra sferzava un vento forte e tumultuoso, di quelli che avrebbero spazzato via anche un’automobile, e forse da qualche parte, in un quartiere di Londra, a qualcuno stava realmente volando l’automobile giù per un viadotto o contro il muro di qualche casa. Ma lei stava nascendo, con dei ciuffi biondi tutti sporchi sulla testolina piccola, con gli occhi color nocciola, secondo il Creatore pronta per intraprendere il viaggio più bello: la vita.

 

 

Pesava tre chili e ottocento grammi, era lunga cinquanta centimetri e aveva le manine prensili. Si chiamava Clarice Wingstream.

Crebbe abbastanza per impiegare le sue manine scarne e ossute nelle arti che più le si confacevano; cominciò così con la scrittura, il cucito, e infine con l’arte per eccellenza, la musica. Imparò a suonare ogni genere di strumento, dal clarinetto al pianoforte fino ad arrivare al flauto, e in tutti eccelleva, secondo la sua tata.

Passava le giornate a prepararsi a quello che sarebbe stato il suo futuro, al ballo delle debuttanti, all’arrivo in società.

Quel giorno giunse troppo presto e fu troppo banale per esser ricordato con particolare attenzione. Indossava un vestito color carta da zucchero, abbinato a un ventaglio ton sur ton.

Era cresciuta tra buone maniere e lezioni impartite a bacchetta, poi avevano deciso che era il momento di farla crescere, ed era quello il motivo per cui si trovava li, sola e impaurita, con una valigia in mano sotto al sole cocente di maggio davanti a un edificio enorme, imperioso.

Sentì la solita thunderbird nera di suo padre accendersi e dare gas, e la guardò con la coda dell’occhio sparire, svoltando al primo angolo. 

La sua vita era racchiusa in quell’edificio di cemento grigio, da cui uscivano, vagamente melodiose, le note di una canzone sconosciuta, e classica.



 

 

                                                        Thank you Triggola ♥
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