Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: PaganGod    10/05/2012    2 recensioni
Aveva ragione.
Nell’intera sua esistenza, che durava un attimo per me, non avevo mai tentato di spiegarle. La guardai fisso nell’evanescente ovale del suo volto e tentai di affrontare quell’ardua, catastrofica, ordalia.
“Puoi immaginare che non esista un sempre?”
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo del Custode'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
Eden
 
 
 
 
 
 
 
Chi sono? 
 
Era impossibile, in quel viscido calore, il solo immaginare una sostanza corporea per i miei pensieri. Non avevo ricordi, né immagini di me stesso; non un dettaglio, non una sensazione tattile del mio corpo. Galleggiavo in un limbo, in un liquido caldo e vischioso: acque cristalline ma immote, statiche. 
 
Non so dire per quanto tempo rimasi in quella condizione, aspettando che qualcosa emergesse dal profondo, o che io stesso risalissi alle soglie di una coscienza attiva. Così rimanevo immobile: una pallida volontà, un ricordo di un ricordo di un essere vivente che si aggrappava con rabbia ad un comando: io devo proteggerli.
 
Non potevo credere che la mia esistenza fosse solo un continuo domandare delle mie origini; non potevo accettare l’inutilità del mio pensare e decisi, terrorizzato, di sacrificare ogni energia pur di avvistare all’orizzonte il senso di me. 
 
Fu così che riemersi.  
Fu dolce e semplice eppure distruttivo come un cataclisma per il mio equilibrio. I bagliori di cristallo della superficie, immobili e lucenti, si 
avvicinarono lentamente, abbagliandomi di luminescenza, avvolgendomi, riempiendo la mia attenzione. 
Li attraversai e rimasi sospeso tra di essi.
Il cielo mi sovrastava, immenso e opprimente: una cupola vorticante di rossi e neri. Nubi  vermiglie, o nere come la pece, si miscelavano 
inesorabilmente e contrastavano con l’immobilità innaturale dell’oceano in cui galleggiavo. 
La superficie dell’acqua era increspata di piccole onde lucenti, graziose e perfette, ma ferme in un singolo istante. Compresi di essere in un limbo: un punto in cui il tempo, al suo stato puro e caotico, incontrava la perfezione dell’immota eternità. L’orizzonte, rosso e frastagliato, mi circondava fin dove potevo guardare e ben oltre potessi immaginare.
Ero libero eppure imprigionato nell’infinita monotonia. 
Mi guardai intorno scoraggiato: la mia battaglia per la conoscenza era persa prima ancora di cominciare? Non potevo arrendermi perché un grido potente si levava dal vano oscuro che era la mia mente: io devo proteggerli.
 
Qualcosa esplose in me, un’energia inimmaginabile emerse da recessi insondabili del mio passato, fui colmo di potenza. Inconsciamente  chiamai a me forze da quel profondo abisso che era il cielo; forze che mi ubbidirono come mastini fedeli. Dalla tempesta perenne chiamai a me una goccia, una singola fiammeggiante goccia di tempo, e la scagliai al centro di quel mare di stasi. 
 
Le acque cristalline vorticarono, ribollirono, poiché avevo piantato nell’ordine assoluto una semente di caos primordiale e da questo stavo traendo una creazione, un appiglio. Le minuscole onde all’orizzonte ruotarono a velocità incredibili, si mischiarono in spuma bianchissima, si gonfiarono in montagne di zaffiro e ricaddero tonanti sulla superficie dell’oceano schiantandomi i sensi e la volontà. 
 
Stagliato nel cielo senza pace sorse un picco di roccia color del ferro, circondato da una corona di onde titaniche, così alto da perdersi minuscolo nelle nubi di carbone. Quando il rombo assordante della creazione placò il suo grido, il picco arrestò la sua ascesa e le onde spumeggianti, come elaborati merletti, si bloccarono ad ornarne la base per l’eternità. 
Stremato da quello sforzo osservai il parto della mia volontà e fui affranto dallo sconforto: mi aspettavo una meta, ma avevo trovato solo un dubbioso inizio. Decisi di non arrendermi, cercavo una risposta ad una questione presente in ogni angolo della mia mente: io devo proteggerli. 
 
Mi avvicinai alla base del picco e questo colmò il mio orizzonte tanta era la sua vastità. Su di esso figure, simboli di conchiglie minuscole, 
cerchi e spirali antiche di eoni. Antenne, forse, zampe, fossili di animali impressi nella roccia che mi apprestavo a scalare. Salii, arrancai,
aggrappandomi a quelle raffigurazioni di carcasse, alla pietra fredda, a quella costellazione di vite passate, sfruttando solo la mia determinazione, la mia intuizione. 
 
Finalmente mi issai su di un altopiano di forma circolare coperto da un tappeto di ideale erba verde, soffice e profumata. Più o meno al centro vi era una sporgenza, come un guscio di tartaruga, sulla quale si apriva una grotta scura. L’ingresso era coperto da una pioggia di minuscoli fiori viola e riparata dall’ombra di un albero dalle foglie grandi e smeraldine. 
Osservai curioso le venature ramificate di quelle foglie, la morbidezza dell’erba, la perfezione frattale dei minuscoli fiori. 
Mi attardavo con il preciso scopo di non esplorare oltre l’altopiano, avevo il timore di non essere approdato a nulla e fui di nuovo travolto dalla paura. Una piccola parte di me si chiedeva se avessi potuto comandare di nuovo la roccia degli eoni di sprofondare nel nulla. 
 
Chi si mette sulle tracce della conoscenza scopre, ben presto, di non essere il cacciatore ma la preda della sapienza; così fui investito da una nuova rivelazione, semplice e letale. 
 
“Guardi sempre quelle foglie.” disse.
 
La mia anima tremò fin nel profondo e, se non fosse stato per la mia determinazione, si sarebbe dissolta nel breve spazio di quell’altopiano. Mi voltai. Sulla soglia della caverna, emersa dall’alcova buia, stava una creatura per me incomprensibile. Era come una luce, un raggio di luce, e aveva membra esili e un volto dagli occhi grandi e curiosi modellato su un vago concetto di materia. Mi persi nella bellezza della sua curiosa felicità. 
Il vedere qualcuno al di fuori di me risvegliò dei ricordi. 
Venivo da un mondo che non era l’oceano cristallino. Non appartenevo a questo reame ma lo avevo frequentato perché lo conoscevo bene. Nell’ ”altro mondo” vi erano creature come me, molte altre, ma vivevano lontano e non potevano raggiungermi perché non sapevano nemmeno della mia esistenza. 
 
La vera scoperta fu l’esistenza del tempo. 
Lo avevo sperimentato, mi scorreva intorno, misurava instancabile ogni istante della mia vita.
 
“Questo è sempre stato il mio albero preferito, il più bello di tutti!” continuò la creatura, senza badare al mio turbamento.
“Come puoi dirlo? Ne hai mai visti altri?” chiesi.
“Sei sempre così razionale.” qualcosa di molto simile ad un sorriso si disegnò sul suo volto imprecisato. 
Una cascata gelida di ricordi mi fece trasalire. Ora ricordavo emozioni: risa, pianto, sconforto, speranza. Quelli come me, nell’altro mondo, le assaporavano ogni istante ma io ne rimasi tramortito come se le vedessi tutte insieme per la prima volta.
 
“Sei sempre così silenzioso, sempre alla ricerca di qualcosa. Io sono sempre molto sola qui.” commnetò imbronciandosi.
“Da quanto tempo sei qui?” 
“Da sempre.” rispose perplessa.
 
Che domanda sciocca avevo fatto, il tempo esisteva solo nella mia mente, solo io ero a conoscenza della sua inesorabilità. 
La mia creazione, fatta di oceano perfetto, era eterna e ogni istante, ogni emozione, erano per sempre.
 
“Cosa fai qui?” le chiesi sovrappensiero.
“Guardo il mare, tocco l’albero e raccolgo i fiori viola.” 
 
Mi sedetti sul ciglio dell’altopiano, rimirando la trama perfetta dell’oceano, mentre meditavo sulle mie azioni.
La creatura, che ora mi si era seduta di fianco, l’avevo creata io stesso. Nel preciso istante in cui il tempo, catturato dal cielo caotico,aveva lambito l’eternità del mare, avevo involontariamente modellato della materia sulla base della mia risonanza, dei miei ricordi. 
 
Ora un essere a me affine viveva per sempre in quel niente a perdita d’occhio. Divenni insofferente verso quel luogo, che prima mi era indifferente nell’oblio. Qualcosa mi chiamava verso un esterno imponderabile nel quale dovevo assolvere un compito: devi proteggerli, devi proteggerli, non smetteva mai. 
 
Sentii di aver commesso un grave errore nella mia spietata caccia alla conoscenza, e ora ne pagavo le conseguenze sotto forma di uno strisciante rimorso. Come potevo chiederle di accettare la sua esistenza? Come potevo impedirle di porgermi la domanda definitiva?
 
“Sei sempre così pensieroso quando siedi li. Io ti conosco da sempre ma non sono mai riuscita a capire dove volgi lo sguardo. E’ come se non fossi mai disposto ad accettare ciò che vedi. Ogni volta che ti faccio questa domanda non mi rispondi, sono sempre molto delusa.” 
“Mi dispiace ma non riesco a spiegartelo.” ammisi con un filo di voce.
“Mi sento sempre molto stupida.” chinò il suo capo fatto di luce e si affievolì.
“No, non sei stupida." risposi con calore. "Sono io lo stupido, sono io che non so spiegarti dove sto guardando!”
“Dici sempre così ma non ci hai mai provato.” mi rimproverò.
 
Aveva ragione. 
Nell’intera sua esistenza, che durava un attimo per me, non avevo mai tentato di spiegarle. La guardai fisso nell’evanescente ovale del suo volto e tentai di affrontare quell’ardua, catastrofica, ordalia.  
 
“Puoi immaginare che non esista un sempre?” pronunciai quelle parole con la morte nel cuore, sapevo dove quella spirale mi avrebbe condotto.
 
Non rispose.
 
“Immagina che esista qualcosa che inizia e finisce, qualcosa che ha un prima e un dopo.” continuai.
 
Si alzò, percepivo un forte scoramento, avevo commesso l’ennesimo errore, l’ennesima presunzione e avevo rovinato l’esistenza di un  essere perfetto. Centinaia di voci si accesero nella mia mente, non era la prima volta che ritenevo opportuno comunicare l’incomunicabile e, puntualmente, condannavo un’esistenza ad una degradante disillusione; alla coscienza di non poter mai raggiungere ciò che si anela, di non capire mai la lingua in cui era vergato il libro del sapere. 
 
Si allontanò da me, si abbracciò all’albero, il concetto di morte apparve sferzante nella mia anima e io la anelai pur di non vedere ciò che stava accadendo. Conoscevo quello sguardo, la vacuità degli occhi curiosi, il disincanto di chi varca la soglia. 
 
“Ho capito.” sussurrò a sé stessa. “Tu sei sempre stato diverso da me. Ora so che non saprò mai e che non potremo mai essere uguali. Sono sempre triste, sono sempre sola.”  si strinse ancor di più, divenne piccola e fioca.
 
Avrei voluto spiegarle che non era lei ad essere diversa ma io, non era la sua esistenza ad essere senza scopo ma la mia. Non c’era nulla oltre il mio sguardo, solo ricordi di tempi inventati, lontani, immagini senza corpo nella mia mente malata. Lei era reale e senziente, vera e meravigliosa, innocente ed eternamente felice. Solo la mia presunzione, la mia egoistica determinazione, l’avevano coinvolta in una caccia spietata. Troppo debole per fuggire, troppo fragile per combattere. 
Ricordai il pianto e il dolore, ricordai di aver fatto del male a molte persone, ma mai avevo corrotto così inutilmente un’esistenza innocente in sé. Mi sentii malvagio e sporco, un traditore e un assassino. 
Quell’angolo paradisiaco fuori dal tempo era divenuto l’inferno della limitatezza ed era stata tutta colpa mia. Mi accorsi con orrore di una verità disarmante: chi vive nel tempo spera sempre in un modo per tornare indietro, per ingannare il vettore e seguirne il percorso a ritroso, ma per la mia creatura fuori dal tempo lo sconforto divenne sempre e per sempre. 
 
Forse quella era la punizione inflittami da altri abitanti del tempo, la perenne visione del male che si era provocato, l’inevitabile condanna a provocare sofferenza e a vivere in essa senza il conforto della rabbia o della lamentela, senza altri colpevoli se non sé stessi.
Dovevo salvarla per salvarmi, dovevo proteggerla da ciò che avrebbe potuto nuocerle. 
 
“Perché mi hai fatto?" chiese sprezzante all'improvviso. "Perché mi hai fatto senza la possibilità di capire? Perché mi rinchiudi in questo spazio e mi illudi che ne esista altro? Impazzisco al solo pensarci, eppure non riesco mai a darmi pace. Questo mondo è sempre minuscolo, sempre ristretto, i miei pensieri saranno sempre lontani da ciò che sei tu! Sei da sempre malvagio e io ti odio, e odio tutto questo!”
 
“Non sapevo cosa sarebbe successo..." balbettai.
“Guarda che cosa sono!” gridò, e la sua voce tagliò le nuvole e scosse l’oceano . “Non posso fuggire, non posso nascondermi dalle domande. Non posso capirti e non posso sfuggirti ma so che c’è molto da sapere! Io sono inutile, non ti servo! Perché sono qui?”
 
Non avevo il coraggio di guardarla. Il raggio di luce di rara bellezza si era affievolito, brillava appena dell’energia necessaria ad esistere ma solo io ne percepivo il cambiamento per lei era sempre stato così. Questo pensiero mi scaraventò nella più nera disperazione. 
Avevo di nuovo fallito il mio compito di proteggere chi non  può capire.
Io devo proteggerli, io devo proteggerli. Era una nenia funebre. 
 
“E’ stato tutto un errore...” bisbigliai. 
“Mi hai creato fragile e stupida e non ti prendi mai la responsabilità della mia salvaguardia. Sono orfana di un padre cattivo!”
 
Quelle parole aprirono tutte le porte dei ricordi e mi sorpresero come un pugno nello stomaco. Avevo una missione da compiere, un compito così gravoso e eccezionale che nessuno dei miei simili poteva immaginare. 
Io ero il custode della loro realtà e stavo mancando al mio compito. Mi librai d’istinto sopra il picco; ormai le catene dell’atemporalità non potevano più trattenermi poiché avevo la mia piena coscienza. Le voci dei miei predecessori avevano ripreso a parlare nella mia anima e mi spingevano a correre più rapido di ogni velocità. Non mi voltai indietro, se così si può dire, non avevo il coraggio di parlarle di nuovo. Mi avrebbe chiesto l’oblio, la dimenticanza, ma ciò che era stato fatto non si poteva più cambiare. La sua intelligenza risonava nell’Onda, l'energia da cui tutto proviene, e già aveva modificato il corso di mille altre armoniche e mille altre storie. 
Non potevo permettermi un altro gesto irresponsabile. 
 
La abbandonai al suo invariabile destino, ma una parte di me rimase in quel luogo per sempre.
 
***
 
Tornai alla realtà nel momento in cui l’avevo lasciata. 
 
Ora tutto mi era chiaro, la mia memoria era completa: io ero il prescelto dalle Fate. Ero l’eletto in grado di viaggiare nella realtà super sensibile e in grado di piegare ogni creatura alla mia volontà. Io ero il Custode: colui che protegge questo mondo. Ricordavo la mia vita precedente e il motivo per cui mi ero ritrovato nel limbo. 
Un titano era comparso nella nostra realtà, affamato e devastante. Era emerso dai reami caotici dell’Onda, da una dimensione senza tempo e senza coscienza. Comparve strappando il continuum con un solo gesto e, famelico, si era avventato sul tempo per assorbirne la smisurata energia. Ben presto avrebbe inglobato tutto, annientando la trama stessa della realtà. Accorsi nel luogo dove il titano si era manifestato, vicino ad un centro commerciale tutto vetro e cemento. La bestia distorceva la materia sbriciolando lo scorrere degli eventi man mano che si nutriva. La gente, ignara della causa, fuggiva e gridava come una mandria impazzita travolgendo chi rimaneva indietro. 

Loro non potevano vedere il titano ma solo percepirne gli effetti. 
 
Le vetrine dei negozi esplosero in miriadi di frammenti adamantini, i palazzi ondeggiarono, la terra ruggì dal profondo spaccandosi, e le automobili vorticarono nel cielo. L’onda d’urto investì i passanti trasformandoli in marionette dinoccolate, in macabri fantocci. Nel vedere quello sfacelo mi sentii inutile e impotente. La gente che avevo giurato di proteggere era in balia di un male che non poteva comprendere. 
L’immensa colonna di furia immateriale scuoteva la realtà per cibarsi della sua più intima essenza. Potevo scorgere sacche di tempo viaggiare a ritroso, accelerare nel futuro, e finire immancabilmente risucchiate nel cuore della creatura. 

Percepivo la realtà disfarsi e perdere la sua trama. L’ordito dello spazio-tempo scorreva flessuoso sfasciando il meraviglioso disegno di ogni cosa. Concentrai la mia volontà, rendendo la mente un tutt’uno con l’Onda, e cercai negli infiniti universi l’energia necessaria a scagliare la creatura oltre le barriere dei Reami di Calore e ricucire lo strappo del continuum. 
 
Ma il titano fu più rapido di me. 
Nella sua famelica razzia stava accumulando coscienza e fece in tempo ad accorgersi della mia pericolosità. Una sua appendice vibrò e mi investì come una mareggiata di materia primordiale. Il mio corpo venne scagliato attraverso le pareti solide delle costruzioni schiacciandosi. La mia anima infranse il muro della realtà e, sfrecciando come una cometa, lasciò dietro di sé la mia coscienza che si disperdeva nelle armoniche dell’Onda. 
 
Sarebbe stata la fine. 
 
Cercai di resistere e, man mano che perdevo me stesso, costringevo i pochi brandelli di coscienza a salmodiare un canto disperato: io devo proteggerli...

***
 
Ero sveglio.  Ero tornaton ella realtà, nel tempo.
Annusai l’odore della polvere, il sapore secco del cemento. Sentivo lo stomaco torcersi in conati di vomito e la testa schiacciata da una trave di metallo. Aprii gli occhi in un buio crepuscolare, tossendo più volte, e sentii nel mio corpo un mosaico di sofferenza; le mie ossa si erano sbriciolate sotto il peso delle macerie.
Le fitte della mia carne a brandelli mi annebbiavano la mente, ma era la rabbia a sostenermi e la vendetta. 
L’eternità nel limbo era durata pochi istanti nel nostro mondo, ma il dolore ancora era vivo in me, il rimorso mi aveva tolto parte della mia già esile serenità. 
 
Ricombinai la materia del mio corpo e mi alzai dalle macerie. Ero furente. Tremavo di rabbia incontenibile, mentre il titano continuava la sua corsa distruttrice convinto di avermi eliminato. Stringhe di materia si attorcigliavano intorno al suo corpo irreale e gli avrebbero presto conferito una forma in questo mondo, e gli uomini che avevo giurato di proteggere avrebbero visto ciò che non dovrebbe essere mai mostrato.
 
Portai la mano al volto richiamando la maschera dei custodi e mi scagliai su di lui come una punizione divina. Ero fuoco e tempesta, un lampo accecante di energia ultraterrena. Infransi il suo corpo larvale per raggiungere la particella che lo aveva generato nell’altrove e che lo teneva in vita. Con un grido rabbioso afferrai il suo cuore di nulla e, reggendolo saldamente, lo scagliai con forza in una soglia aperta verso la stasi. Aveva assaggiato la vita e il potere e ora anch’esso avrebbe conosciuto la stasi e la limitatezza.  
 
Come la mia adorata figlia, si sarebbe crogiolato nella disperazione dell’irraggiungibile.
 
***
 
Mi allontanai stordito, affranto, disidratato di ogni gioia. Un minuscolo tocco della mia mente fece esplodere delle tubature sotterranee. Avrei dato ai superstiti, e al resto dell’umanità, un motivo meno assurdo per giustificare la morte di tanti ignari passanti. 
Mi sentivo in colpa. Ben presto l’odio per il titano si trasformò in odio per me stesso e la mia presunzione. 
 
Quando tornai nella mia anonima dimora, mentre osservavo come sempre la quotidianità attraverso le fenditure impolverate delle mie persiane, ebbi voglia di piangere. Non era la consapevolezza di non essere stato in grado di agire i più in fretta, né la coscienza della mia fallibilità. Il dolore proveniva tutto dalla mia amata creatura nel suo piccolo, limitato, paradiso.

Creata inconsapevolmente da me e, al tempo stesso, maledetta a 
rimanere eternamente rinchiusa e insoddisfatta. 
 
Ebbi voglia di piangere, ma non ci riuscii. 
Espiavo in quel modo la colpa di cui nessuno dovrebbe mai macchiarsi: creare senza amare.  
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: PaganGod