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Autore: candycotton    10/05/2012    0 recensioni
«Sei nuova di qui?».
«Sì, sono appena arrivata. In realtà mi sono trasferita circa due settimane fa, però ho iniziato la scuola solo oggi», spiegò lei.
Rosiel provò una strana sensazione. Parlare con quella ragazza, in quel luogo silenzioso, tra la natura, lo faceva sentire come in un altro mondo. Per un istante si dimenticò di Lucas e di quello successo poco prima nel corridoio. Gli pareva lontano anni luce.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Allora, ragazzi. Qualcuno sa come si risolve questo problema?», la voce della signorina Miller, l’insegnante di matematica, era come un getto d’acqua gelida in faccia quando si è ancora insonnoliti.

Era una ragazza giovane e dinamica, bassa ma sottile. Sembrava ancora una bambina delle elementari, eppure insegnava alle superiori. Molti si chiedevano chi avesse corrotto per farsi assumere. Aveva ventisei anni, quindi non era solita rivolgersi agli studenti troppo formalmente. Dopotutto, nemmeno gli studenti si sognavano di prenderla troppo sul serio. Ma era comunque piacevole.

«Nessuno?», continuò guardando con un’espressione assorta tra gli studenti.

Uno alzò la mano, sovrastando gli altri.

«Ah», fece la signorina Miller con un sorriso che trasmetteva che non era del tutto concentrata su quella lezione.

«Prego, vieni… tu sei…?», continuò con lo stesso sorriso.

«Ville Iendo», si alzò in piedi e si diresse alla lavagna. Il suo metro e novanta, accanto al metro e cinquanta scarso della Miller, provocava un certo contrasto.

«Prego Ville», gli sorrise un ultima volta la Miller, porgendogli il gessetto.

Ville iniziò a risolvere il problema, molto abilmente; non si fermava quasi mai ed era riuscito ad arrivare alla soluzione, tra l’altro anche esatta, in pochissimo tempo.

La faccia della Miller si aprì in un’espressione esterrefatta, con tanto di bocca semi aperta.

«Molto bene. Molto bene davvero Ville. Grazie mille, ora puoi sederti», ed indicò gentilmente con la mano il corridoio tra i banchi.

Ville tornò a posto, seguito da alcuni sguardi stupiti e alcuni invidiosi.


La cosa che Rosiel sentiva maggiormente era la stanchezza. Non riusciva mai a dormire quanto voleva e alla fine aveva sempre un gran sonno. Si accasciò sul banco senza far rumore, adagiò la testa tra le braccia unite e chiuse gli occhi.

Chris, sedutogli accanto, lo tastò più volte sul braccio, per svegliarlo, ma Rosiel non si mosse.

La signorina Miller continuò con la sua lezione, con una leggera punta di entusiasmo in più dopo la riuscita esecuzione di Ville. Come se le avesse dato la speranza che anche gli altri potessero farcela.

Scrisse il testo di un altro problema, poi procedette con la spiegazione per arrivare alla soluzione. Ville era attentissimo. Non staccava gli occhi dalla lavagna e dalla Miller. Anche lei lo guardava spesso, evidentemente si era aggiudicato il posto di suo preferito.

Virginia e Angelina, sedute in terza fila, non erano poi molto attente alla lezione. Prendevano appunti sui loro quaderni, ma la matematica era sempre una cosa impossibile, che stessero ad ascoltare o meno.

A fine spiegazione, la signorina Miller cancellò ancora una volta la lavagna e scrisse il testo di un altro problema, copiandolo da un voluminoso libro che riportava sulla copertina un titolo che avrebbe fatto allontanare qualsiasi studente: “Alla scoperta dell’algebra”.

Quando ebbe finito la copiatura, si voltò verso la classe, diede in fretta un’occhiata ai visi dei presenti e si soffermò su quello di Rosiel, o meglio sulla massa di capelli che stava al suo posto.

Scorse con gli occhi il registro di classe, adagiato sulla cattedra e arrivata al nome che cercava lo gridò ad alta voce.

«Black!».

Rosiel si destò un poco; alzò lentamente la testa e si guardò attorno.

«Alla lavagna», concluse risolutiva la Miller.

Rosiel si alzò, facendo rumore con la sedia e raggiunse la signorina. Si guardarono per un po’, perché lui non dava segni di voler prendere in mano il gessetto.

«Vuoi risolvere il problema?».

Non ne aveva voglia, ma dopotutto ne aveva ancora meno di litigare con la professoressa di matematica, con cui già non era in buoni rapporti. Così si limitò a prendere il gessetto e ad accostarsi alla lavagna. Rimase immobile guardando la scrittura arrotondata e inclinata della Miller.

Aveva dormito per tutto il tempo e non aveva seguito la spiegazione per risolvere il nuovo tipo di problemi.

«Non so come farlo», disse con calma, restituendo il gessetto alla Miller, che non lo prese.

«Ho appena spiegato come si fa. Tu dov’eri? Sulle nuvole?».

Si guardarono ancora a lungo. Rosiel non disse niente, ma sostenne lo sguardo misto tra arrabbiato e incredulo della Miller.

«Qualcuno sa risolverlo?», chiese lei voltandosi verso la classe.

Ancora una volta, come una scena che si ripete, Ville alzò la mano, e raggiunse la lavagna. Lanciò un mezzo sorrisetto a Rosiel, mentre gli prendeva il gesso dalle mani. Eseguì il problema magistralmente e infine si rivolse alla professoressa. Lei lo guardò solare e visibilmente contenta. Ci mancava poco che gli applaudisse.

Rosiel tornò a posto senza che nessuno glielo avesse chiesto: tanto la Miller era troppo concentrata su Ville per interessarsi agli altri.

Finalmente la campanella suonò la fine di quella noiosa e infinita ora di matematica. Rosiel si affrettò verso la porta, non voleva che alla signorina Miller venisse in mente di fermarlo per parlargli dei suoi insuccessi a scuola.

Chris era uscito insieme a lui, e furono presto raggiunti dalle due ragazze.

«Complimenti, Rosiel», scherzò Virginia.

Lui la guardò male, con espressione afflitta. E lei gli sorrise, provando a tirarlo su.

Angelina stava sistemando i fogli degli appunti dentro la sua borsa, quando dalla stanza uscì Ville, che si soffermò a scrutarli ad uno ad uno. Virginia gli lanciò un’occhiata perplessa.

«Ehi, Rosiel», vociò.

Rosiel, che non era molto in vena, si limitò ad un accennato sorriso e ad alzare la mano in segno di saluto.

Ville si fermò accanto a lui. «Ciao, ragazzi».

Virginia aveva incrociato le braccia sul petto, Angelina aveva terminato di sistemare la sua borsa e l’aveva chiusa. Chris era in piedi accanto a Rosiel e guardava da un’altra parte, dando di tanto in tanto qualche occhiata alla situazione.

«Posso presentarmi?», continuò Ville, alzando le sopracciglia. Nessuno rispose, così lui proseguì, «sono Ville Iendo, lavoro con Rosiel al Velvet».

«Ah, piacere. Io sono Angelina», sorrise gentilmente.

«E loro sono Virginia e Chris», concluse Rosiel, in tono sbrigativo, notando che gli interessati non accennavano ad aprir bocca.

Ville mosse la testa su e giù più volte e sorrise. «Okay, allora ci vediamo in giro, è stato un piacere».

Fece qualche passo, ma tornò indietro, con un esclamazione. «Ah, Rosiel. Volevo lasciarti questo…», gli porse un foglio piegato in quattro. Buttò un ultimo sguardo agli altri e si allontanò.

Rosiel aprì il foglio. Era la mappa per raggiungere una casa. E a lato qualche indicazione. In alto c’era scritto qualcosa riguardo ad una festa. Una festa che Ville avrebbe dato quel sabato a casa sua. Rosiel lo porse agli altri.

«Non vuole proprio perdere tempo», commentò.

«Dà una festa perché si è appena trasferito e vuole conoscere più persone», fece Angelina, riportando quello che c’era scritto sul biglietto. «E pare ti abbia invitato», alzò gli occhi su Rosiel.

«Lavoriamo insieme, l’avrà fatto solo per quello, cosa credi. Nemmeno gli sto così tanto simpatico».

«Pensi di andarci?», intervenne Virginia, fissando Rosiel con sguardo assente.

Lui inclinò il capo a sinistra e poi a destra, indeciso. «Ci ha invitati tutti, perché non ci andiamo insieme?».

«Mah, io non so se posso venire…», disse dubbiosa Angelina.

«Io ci sono se vuoi, Rosiel», intervenne Chris, che fino ad allora non si era molto inserito nella conversazione.

Rosiel gli sorrise e passò lo sguardo su Virginia, interrogativo.

«Non saprei…», mugugnò lei.

«Okay, ci penseremo», concluse Rosiel, piegando nuovamente l’invito e mettendoselo in tasca.


Era quasi ora di pranzo, lì a scuola. C’era abbastanza confusione, ragazzi che avevano concluso la loro ultima lezione e si affrettavano verso la mensa, altri che girovagavano per i corridoi fino a raggiungere i propri amici; tutti che chiacchieravano, che schiamazzavano.

Lui non faceva niente di tutto questo. Lui semplicemente cercava il posto più condensato di persone, dove poter mimetizzarsi, nascondersi.

Si buttò giù il cappuccio dalla testa, rendendosi conto che avrebbe attirato l’attenzione di non poche persone, con quell’aria da ricercato.

Provò ad alleggerire i muscoli facciali, contratti in un’espressione dura e tetra.

In mezzo a tutta quella calca, non riusciva nemmeno più a capire dove fosse e quanto mancava per arrivare alla mensa. Non riusciva a muovere qualche passo senza sbattere le spalle contro qualcuno, senza doversi assottigliare il più possibile per poter passare tra due o più studenti.

Finalmente, la porta della mensa.

Aumentò il passò ed entrò.


Chris addentò la mela che aveva sul vassoio.

La mensa si stava riempiendo, ma per fortuna lui e Rosiel erano arrivati prima, riuscendo ad occupare un tavolo da quattro.

Rosiel, sedutogli accanto, condiva l’insalata.

«Guarda che confusione», biascicò Chris.

Rosiel alzò gli occhi. La porta semi aperta della mensa mostrava un via vai impazzito nel corridoio. C’era parecchio scompiglio, quel giorno.

Entrò in quel momento un gruppetto di quattro ragazze. La prima era Abigail Watson, con un ghigno stampato in faccia. Abigail era piuttosto vanitosa, la classica ragazza smorfiosa, che voleva sempre tutto perfetto. Abigail era spesso accompagnata dalle sue amiche, Becky, Kimberly e Rachyl. Si vedevano tante volte insieme nel corridoio, a chiacchierare vivacemente tra di loro, oppure nel bagno delle ragazze, costantemente attaccate agli specchi.

Raggiunsero un tavolo circolare, e iniziarono a parlottare a bassa voce. Poi Becky si alzò e arrivò fino al bancone. Si rivolse alla donna al di là di quello e ordinò da mangiare per tutte.

Quando Becky tornò al suo tavolo, c’era Lucas Foster in piedi accanto ad Abigail, che in quel momento appoggiò la mano aperta sul piano, piegandosi su di lei.

Becky prese posto e allungò un vassoio alle altre, cercando di non fare caso a Lucas.

Abigail era molto affascinata, lusingata. Sorrideva e riservava solo pochi sguardi a Lucas, che dal canto suo, faceva di tutto per poterne avere il più possibile.

«Andiamo da qualche parte, dopo?», Lucas parlava a voce bassa, alquanto strano per lui.

Abigail si sprecava di oh strascicati, trattandosi come se fosse una principessa. «Non so, ragazze, dobbiamo andare da qualche parte, dopo?», lanciò un’occhiata complice alle altre, che ovviamente sapevano cosa rispondere. Scrollarono tutte e tre il capo, con aria disinteressata.

Abigail mostrò un sorriso mellifluo, adorava fare la difficile. «Okay, allora posso venire», confermò a Lucas, fingendo noncuranza.

Lui alzò le sopracciglia. «Ottimo», esclamò. Si allontanò caracollando fino ad un altro tavolo. Si lasciò andare sulla sedia, e stravaccò le gambe. I suoi compagni, tutti affamati giocatori di football, gli rivolsero un’occhiata interrogativa. Lui ghignò entusiasta e fece di sì con la testa.

Ci fu un gran boato, e a turno gli batterono il cinque su entrambe le mani. Quei giocatori erano spesso un po’ chiassosi. Essere un giocatore di football in una squadra scolastica apriva molte porte. Oltre alla fama e alla stima, si susseguiva anche l’invidia dei più deboli e riservati. Inoltre erano ben visti dalla maggior parte dei professori, che seguivano con ardore le partite.


«Che chiasso che fanno», si lamentò una ragazza, seduta ad uno dei tavoli in fondo alla sala. Si passò una mano tra i capelli rosso fuoco, e aggrottò le sopracciglia.

«Che strazio», il ragazzo che le stava affianco si abbandonò sul tavolo, nascondendo il viso tra le braccia.

«Mi sta venendo fame», borbottò un altro ragazzo, coi capelli neri, di fronte agli altri due.

«Possiamo organizzare una caccia, stasera», suggerì l’ultimo membro del gruppetto, seduto accanto al ragazzo dai capelli neri.

Il ragazzo accasciato sul tavolo si tirò su all’istante, con gli occhi tra l’azzurro e l’oro accesi di una luce particolare. «Hai detto caccia?».

«Sì, Albert», lo ammonì il ragazzo moro, alzando gli occhi al cielo.

«Qualunque posto è okay per me. Decidi tu Grey, oppure Vincent…», concluse Albert con un sorrisetto.

La ragazza rossa sbuffò e incrociò le braccia sul petto. Aveva lo sguardo rivolto alle loro spalle, concentrato sull’entrata della mensa.

«Che c’è, Felicia?», domandò Grey, il ragazzo moro.

Lei lo fissò un istante, poi scosse il capo.

Grey si voltò nella direzione in cui guardava lei, fino ad incontrare con lo sguardo un’altra ragazza. Era alta e magrissima, con i capelli corti e chiarissimi. Indossava una minigonna, con le calze a rete strappate in più punti. Il giubbotto di pelle e gli anfibi ai piedi. Era piuttosto bella, e come sempre c’era qualcuno che si era voltato al suo passaggio, ma lei non ci aveva fatto caso.

«Nina», la salutò Vincent, con enfasi nella voce.

Lei accennò un sorriso. Sembrava piuttosto contenta, al contrario di come la vedevano loro il più delle volte. Si sedette accanto a Vincent, lanciando un’occhiata a Felicia, che la scrutava in malo modo, di sottecchi.

«Stiamo organizzando una caccia per stasera. Tu ci sei?», le chiese Grey.

Lei annuì, senza pensarci troppo. Vagò con gli occhi per la stanza, fino a raggiungere un gruppetto di ragazzi in piedi accanto alla porta d’entrata. Le venne da ridere, così distolse immediatamente lo sguardo.

Uno di loro, dai capelli biondi e piuttosto attraente, le aveva lanciato un’occhiata di sbieco, con un sorriso da bambino.

«Ehi, Lowell, sei distratto», gli fece notare un altro.

Lowell fissò l’amico con espressione sorpresa e innocente.

Il ragazzo fulvo fischiò e Lowell gli rivolse un’occhiataccia. Stava guardando nella direzione di Nina.

«Ora capisco perché sei distratto», ghignò.

A Lowell venne da ridere, ma cercò di nascondersi con la mano.

«Wow, sta diventando tutto rosso», lo canzonò ancora il ragazzo fulvo, allungandogli una pacca sul braccio.

«Smettila, Drew», fece Lowell, faticando a tornare serio.

Drew non disse più nulla, ma la sua espressione maliziosa parlava da sé.

L’altro ragazzo accanto a loro era rimasto fermo con le braccia incrociate sul petto, piuttosto sulle sue. Si chiamava Claud, ed era una specie di idolo per le ragazze. Claud era campione di nuoto; aveva vinto parecchie medaglie e aveva viaggiato per l’America, in giro a far gare.

«Ehilà», una voce nuova si aggiunse a quel gruppetto.

«Oh, Larry», lo accolse Drew, togliendosi una mano dalla tasca dei pantaloni per alzarla in segno di saluto. «Dov’eri sparito?».

«Sono stato intrattenuto», rispose vago Larry, grattandosi con un dito la testa di ricci castani.

Drew si fece curioso, e alzò le sopracciglia. «Sento odore di ragazze», mormorò, con un sorrisetto furbo, guardando anche Lowell.

«Sarebbe ora che te la cercassi anche per te, la ragazza», lo ammonì Larry.

Drew si incupì e non nascose di essersi offeso.


Ville entrò in mensa, e senza divagare troppo con lo sguardo, andò a sedersi ad un tavolo già occupato da un altro tizio. Costui stava piegato su sé stesso; indossava un maglione grigio scuro con il cappuccio. Sembrava piuttosto ansioso e irrequieto. Ville gli si sedette di fronte e disse qualcosa a bassa voce. L’altro rispose, muovendo semplicemente il capo su e giù, lentamente.

Rosiel li scrutava stringendo gli occhi, incuriosito.

Era una scena molto strana, parlottavano tra loro come se avessero qualcosa di terribile da nascondere. Ma cosa poteva mai essere, per due ragazzi delle superiori?

Scrollò il capo, cercando di lasciarsi dietro quei pensieri e distolse lo sguardo da quei due individui.

La porta della mensa si aprì con un tonfo sordo; entrarono Angelina e Virginia. Erano piuttosto agitate. Si affrettarono verso il tavolo di Rosiel e Chris e anziché sedersi, rivolsero entrambe sguardi preoccupati a Rosiel. Lui ricambiò con altrettanta espressione.

«Vieni a vedere», disse Virginia in un bisbiglio.

Entrambi si alzarono e si scambiarono uno sguardo dubbioso, poi seguirono le due ragazze fino in cortile.

La parte bassa della parete della palestra era interamente ricoperta da un murale gigantesco. Recitava:


Miller mangiamerda

R. Black


La parete di mattoni era ricoperta da colori che provocavano un contrasto evidente. Le parole risaltavano come fossero in rilievo. La firma, al contrario, aveva un effetto incassato nella parete e contrastava ancora più della scritta colorata.

Rosiel era senza parole. Non aveva idea di cosa fosse e di chi fosse stato, ma non era colpa sua. Sentiva tutti gli sguardi su di sé; la gente non si faceva mai i fatti suoi.

Per completare l’opera uscì dall’edificio un piccolo gruppetto di professori, accompagnati dal preside. Rosiel non riusciva ancora a capire cosa fosse realmente successo. Vedeva la scena scorrergli davanti e anche se cercava di fermarla, per cogliere qualcosa che lo aiutasse a comprendere, non ci riusciva.

Eppure c’era il suo cognome sul muro della scuola. Ma perché?

Volse il capo al gruppo di professori, notando le loro espressioni allarmate.

La Miller per poco non si prese un accidente quando vide il murale. Sussultò e si portò la mano alla bocca. Il professore di ginnastica le mise una mano sulla spalla come per rassicurarla, gesto che risultò piuttosto inutile.

Tutto il corpo docenti si recò di nuovo dentro, il preside in testa.

Rosiel era ancora immobile dove si trovava, incapace di esprimere qualsiasi cosa.

«Siamo uscite dalla palestra e l’abbiamo trovato… lì…», disse Virginia, indicando vagamente il muro. «Come può essere accaduto? Chi può essere stato?», si voltò di scatto verso Rosiel, cercando qualche risposta.

Lui inghiottì la saliva, rendendosi conto che l’aveva trattenuta fino quasi a soffocare.

«Non ne ho idea».

«Ma c’è pure il tuo cognome! Chi può…», Virginia si interruppe, notando che Rosiel si stava allontanando.

Virginia rivolse uno sguardo angosciato sia a Chris che ad Angelina, che le risposero alla stessa maniera. Poi seguirono Rosiel.


La folla di studenti che si era radunata in cortile si disperse in breve tempo, subito dopo aver inquadrato la situazione. Parecchi conversavano e borbottavano, chi con più interesse, chi semplicemente per il fatto che qualcosa in quella scuola era finalmente successo.

Tornati dentro, i quattro ragazzi si fermarono nel corridoio, intricato esattamente come lo era stato fino a poco prima: bisognava fare la fila per entrare in mensa.

La Essbotton, l’insegnante di storia, si faceva strada tra la calca di studenti a forza di gomitate. Prima che Rosiel si fu allontanato, lo picchiettò sulla spalla invitandolo a voltarsi.

Rosiel pareva tranquillo; non era una sorpresa che chiamassero proprio lui, a quel punto.

«Signor Black, venga con me, per favore», disse, con autorità.

Rosiel abbassò lo sguardo e sospirò, diede una breve occhiata agli altri tre e si allontanò con l’insegnante.

«Questo è grave. E anche parecchio…», esclamò. Il tono da superiore e quella leggera ma percettibile punta di arroganza l’avevano resa la persona più odiata di tutto il corpo insegnanti. Ma a Rosiel non faceva né caldo né freddo.

Arrivarono in poco tempo fino alla presidenza.

Nicolas Howen era comodamente seduto alla sua scrivania, teneva le dita delle mani congiunte davanti a sé, appoggiate sul tavolo. I capelli brizzolati cercavano di uscire dalla tinta ormai da ripetere di un caldo biondo scuro. Il viso severo e adulto era inclinato in una smorfia di dissenso. Era un movimento quasi impercettibile, ma Rosiel, che era acuto ad osservare le persone, l’aveva colto. Il preside faceva ripetutamente di no con la testa e abbassava la palpebre, non velocemente come un battito di ciglia, ma più lentamente e stancamente. Era logico ed evidente che provava un profondo scetticismo nei suoi confronti. Questo certo non gli era d’aiuto.

A lato della scrivania stava in piedi la signorina Miller, che teneva un braccio piegato sul torace e l’altro come appoggio per la testa, leggermente piegata in avanti. L’espressione era feroce e arrabbiata. Non riusciva ancora a tollerare che qualcuno, all’interno di quella scuola, si fosse permesso di offenderla in quel modo. Aveva sempre pensato di essere la professoressa preferita da tutti, ma dopo quel colpo basso, aveva dovuto ricredersi. E questo non le andava giù. Avrebbe fatto qualsiasi cosa a quel ragazzo in quel momento.

«Signor Black. Buongiorno», iniziò il preside quando Rosiel fu dentro, dopo che la Essbotton chiuse la porta alle loro spalle. Si alzò in piedi e fronteggiò Rosiel, porgendogli la mano.

Lui restò immobile, fissando l’uomo negli occhi.

«So che questa non è la situazione migliore, e di certo lo saprà anche lei, ma la prego di prenderla», e accennò con gli occhi alla mano sospesa in aria.

Rosiel la prese con malavoglia e la strinse con altrettanta.

Non fare il ragazzo cattivo, gli ripeteva una voce nella testa, questi signori non lo accetteranno. Gli sembrava la voce di sua nonna, quando lui era ancora piccolo. Che strano sentire quella sensazione. Cosa c’entrava sua nonna e perché gli parlava nella mente? Forse se lo immaginava soltanto. Forse perché avrebbe voluto che ci fosse stato qualcuno in grado di difenderlo e di prendersi cura di lui, una volta tanto. Invece non c’era nessuno. Era solo, come lo era sempre stato.

Il preside si ricompose e andò nuovamente a sedersi.

«Credo che lei ci voglia dare una spiegazione per quanto successo poco fa in cortile…».

Rosiel continuava a pensare a quella cosa che aveva in testa. E non rispose.

«È strano che qualcuno faccia un murale di quel tipo e si firmi addirittura, ma certe volte accade anche, quando il colpevole ha voglia di essere riconosciuto, magari pensando di essere così ammirato per il coraggio, o qualcosa del genere», fece accompagnare una risatina che fu imitata dalla Essbotton. La Miller e Rosiel rimasero in silenzio.

«Quindi non ha niente da dire?», proseguì il preside Howen.

«Non è stata colpa mia. Io non c’entro niente. Sono sempre stato a lezione oggi, potete controllare o chiederlo ai professori. Ero in classe con la Miller alla prima ora», si volse un istante verso la professoressa.

«Il murale è stato fatto poco prima della pausa pranzo. Ancora tutti gli studenti erano in classe, e il cortile era deserto».

«Sono stato uno dei primi a raggiungere la mensa, poi si è creata una gran confusione nel corridoio. Ma io sono rimasto dentro per tutto il tempo. Non avrei motivo di mentirle».

«Vorrebbe dire che si tratta di uno spiacevole scherzo?».

Rosiel si limitò ad annuire.

«Potrebbe anche essere… in quanti la conoscono per nome e cognome?».

Rosiel ci pensò qualche secondo, ma non riusciva a farselo venire in mente. «Non saprei… ma non conosco molte persone di questa scuola», affermò, sinceramente.

«L’ipotesi meno comune è che qualcuno abbia fatto delle ricerche su lei in particolare. Magari qualcuno a cui aveva fatto un torto e che si sia voluto vendicare. Potrebbe trattarsi di questo?».

«Non credo… non so», fece Rosiel incerto.

«Allora, mi dispiace ma dobbiamo prendere provvedimenti su di lei».

«Ma ho detto che non c’entro niente. Non potete fare quello che vi pare solo perché c’erano le mie iniziali, là sopra. Non è giusto».

«Bisogna dire che non ha incassato molti successi durante questi anni di scuola. E molte volte si è parlato di situazioni analoghe a questa… o sbaglio?».

«Non ho mai scritto parolacce verso un professore sui muri della scuola», rispose Rosiel serio.

«Ho detto analoghe, signor Black».

Il preside lo fissò per qualche istante, come se gli sguardi arrabbiati e scontrosi delle altre due professoresse non bastassero.

«Tanto per fare degli esempi: evasione dall’edificio in orario scolastico, mancata presenza a numerose lezioni, liti nei corridoi, incidenti verso gli altri studenti durante le ore di educazione fisica…».

Rosiel non si scompose.

«Devo continuare…?», aggiunse Howen con fare altezzoso.

Rosiel rimase zitto. Non era il momento adatto per mettere altra carne al fuoco e rischiare una punizione peggiore di quella che già gli sarebbe spettata.

«Okay. Allora volete punirmi ora per i miei insuccessi passati… va bene, tanto prima o poi avrei dovuto aspettarmelo, no?».

«Non mi piace il tono che sta assumendo», il preside diventò serio, iniziando a tamburellare le dita sul tavolo, ritmicamente.

Rosiel sostenne il suo sguardo, con occhi gelidi, di ghiaccio.

Howen prese a compilare un foglio, e parlò mentre scriveva.

«Sappia comunque che se ci sono problemi con dei professori, è bene discuterne con la persona interessata, in privato, non rendere pubblica la propria opinione, è chiaro?».

«Non dovrebbe dirlo a me questo».

Il preside lo fulminò con lo sguardo.

«Lo so. Quando saprò chi è stato a scrivere quella cosa, provvederò ad informare anche lui, ne stia certo», rimediò Rosiel, con una punta di sarcasmo nella voce.

Il preside accennò un lieve sorriso, che però scomparve immediatamente. Dalla sua espressione, si percepì che quasi si era pentito di averlo fatto. Si mise a sfogliare un fascicoletto e poi rivolse un altro sguardo a Rosiel.

«Data la sua situazione familiare, non credo di poter parlare con nessun parente, dico bene?».

Come se ci fosse anche il bisogno di domandarlo, pensò Rosiel. Fu costretto ad annuire, controvoglia.

Forse il preside pensava che con quel tono di voce quasi dolce e quei gesti, potesse manifestare il dolore che provava per lui. Tutte balle, di certo non gliene importava un accidente della sua famiglia disastrata.

«È sospeso per tre giorni, questo è quanto. Informeremo sua nonna con una lettera».

Mia nonna è cieca, testone, pensò nuovamente Rosiel. Sembrava che il preside lo provocasse apposta, ma lui riusciva a rimanere calmo.

Rosiel fece per andarsene, ma la voce del preside lo fermò ancora.

«Non ho finito… al termine delle lezioni, esigo che sia qui per ripulire il murale. Puntuale».

Rosiel fu sul punto di ribattere, ma alla fine lasciò perdere. Non c’era più niente da fare.

  
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