La
chiamano Scilla.
La
chiamano Scilla, Scilla dalle gambe di cagna, Scilla dalle fauci
sbavanti,
Scilla dal nido tra le rocce, Scilla che divora i marinai.
C’è stato un tempo
in cui aveva lunghi capelli biondi, un portamento grazioso, una luce da dea dietro i bei lineamenti.
C’è
stato un tempo, ora non c’è più.
La sua
bellezza di ninfa è stata spodestata dal tempo e
dall’infiacchirsi dei miti, e
puzza di carogna, il
verde dei suoi
occhi si è tramutato in una pozza di acqua torbida, la pelle
eburnea è argilla,
i bei capelli ciuffi di alghe, le labbra si sgretolano in sabbia nel
parlare.
La
chiamano Scilla-che-non-è.
Perché
Scilla significa «strappare» e
«dilaniare». Per calunniarla, perché
credono non
possa più nuocere, credono la sua potenza esaurita per
sempre, il suo corpo
disciolto.
Che
parlino ancora, che parlino pure!
Cosa
diranno, quando gonfierà le acque e le farà
attorcere e mulinare su se stesse,
trascinando con sé rami e cristiani; le loro facce
sbiadiranno, all’ombra delle
grandi onde marroni di fango, con le loro creste di spuma biancastra;
grideranno, quando la forza delle sue braccia aprirà brecce
negli argini e
finalmente sarà sazia di terra, fresca, corposa terra da
masticare, celata
dalla notte come dal più impenetrabile mantello.
Si
scaglierà contro i fari puntati contro la sua faccia,
ché non può essere
guardata da occhi profani, così li affogherà
tutti e mangerà, soprattutto, dopo
anni di digiuno forzato!
La
chiamano Scilla e non la temono?
Che
stupidi! Lei è la più grande tra le ninfe, di
tutte le sue sorelle è l’unica
sopravissuta. Seppur a malincuore ha ceduto la sua bellezza in cambio
della
vita, ma non fanno così tutti, no? Rinunciano, per avere
qualcosa di diverso.
Ha tanta
fame che potrebbe campare di quello, per secoli.
Solo del
desiderio di affondare i denti; non è dissimile da un
predatore.
Dopo
aver raccontato tutto, in tono lamentoso, si sente come un vecchio
leone che si
lecca le ferite. Accanto a lei e in procinto di rotolare giù
per il pendio,
Astride sospira.
Senza
cercare il suo volto nella notte, le svela con voce piatta che lei non
è certo
così ingenua da chiamarla Scilla-che-non-è per
sottovalutarla, anzi! La istiga
con quel nomignolo proprio perché si scateni così
che lei possa sfruttare la
sua bieca rabbia, ma la teme più di quanto non
l’abbia temuta Cordelia. Scilla
si dice lusingata, sorriso feroce.
Astride
le chiede di poterle dedicare qualche verso.
La
costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino a un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo
(Odissea,
canto XII)
Un
battito di mani, uno scroscio di risa.